La via culinaria per l’Unione europea

pranzo_famigliaLa Croce quotidiano 29 ottobre 2016

Léo Moulin ha indagato le origini e le peculiarità dei piatti più tipici delle cucine del Vecchio Continente

di Sara Deodati

Nel libro “L’Europa a tavola. Introduzione a una psicopatologia alimentare” (“L’Europe à table: dis-moi ce que tu manges”, Sequoia, 1975; trad. It. Francesca Barsi, Mondadori, Milano 1993), lo storico, politologo e sociologo belga Léo Moulin (1906-1996) ha spiegato le origini e le principali caratteristiche dei piatti, e dei relativi riflessi culturali, preparati per secoli nei Paesi del Vecchio Continente. Ora che dell’Antico Regime non sono rimasti che i ricordi (per chi ha l’intelligenza di studiare ancora la storia…), vale forse la pena di tentare un punto di situazione su cosa abbiamo perso e cambiato nella vita sociale europea, anche a tavola.

Partiamo dalla grave frattura che, nella cultura del cibo come su molti altri piani naturalmente, ha generato la “Riforma” protestante, iniziata nel XVI secolo dal monaco apostata tedesco Martin Lutero. D’allora, la differenza che era già presente tra la cucina del nord Europa, conforme allo stile puritano cupo e disincarnato di questi popoli, e quella dei Paesi latini, molto più varia e saporita, trova un sottofondo anche religioso e “teologico”.

Si tratta di un argomento che è stato più volte trattato da Léo Moulin e che si può sintetizzare così: i protestanti mangiano solo per nutrirsi, in quanto la natura umana è per loro negativa e irrimediabilmente “corrotta”, mentre per i cattolici la tavola è occasione di convivialità e una lode a Dio per i beni del Creato che Egli elargisce. Il modo “caldo” e comunitario di vivere il legame familiare da parte dei popoli mediterranei, inoltre, non può non trovare riscontro anche nel cibo.

Moulin, a questo proposito, ha rilevato che ogni uomo ama tendenzialmente mangiare ciò che sua madre gli ha insegnato. Ciò che ci piace, insomma, è in genere quello che è piaciuto e ci ha raccomandato colei che ha nutrito il nostro corpicino per 9 mesi nel suo grembo e ci ha accompagnati nel difficile passaggio della nascita. Se rimaniamo davvero legati a lei e, naturalmente, alla nostra famiglia d’origine, questa consuetudine ci seguirà nella vita. «Non solo mangiamo ciò che nostra madre ci ha insegnato a mangiare – ha osservato in proposito Moulin -, ma tale cibo ci piace e continuerà a piacerci per tutta la vita, proprio perché mangiamo con i nostri ricordi… Anzi, noi mangiamo i nostri ricordi, perché ci danno sicurezza, così conditi di quell’affetto e di quella ritualità che hanno caratterizzato i nostri primi anni di vita» (L. Moulin, L’Europa a tavola, op. cit., pp. 12-13).

L’importanza della gastronomia come profumo e sapore dell’identità cristiana lo potemmo approfondire grazie alla spiegazione che, lo studioso belga, diede del famoso film “La cena di Babette” (1987), sceneggiato e diretto da Gabriel Axel, tratto dall’omonimo racconto di Karen Blixen, vincitore dell’Oscar al miglior film straniero. In questa semplice ma significativa storia si scontrano infatti due mentalità profondamente diverse, quella rigida di matrice protestante e quella cattolica della protagonista che, grazie alla cucina e ad un fantastico pranzo salva una difficile situazione.

Mangiare, insomma, è uno stile di vita e insieme un’arte. Sa mangiare chi è all’altezza della propria tradizione e della propria umanità. In tempo di assimilazione ideologica fra uomo e animale, vale la pena riportare quanto ha scritto al proposito il politico e gastronomo francese Anthelme Brillat-Savarin (1755-1826): «Gli animali si pascono, l’uomo mangia; solo l’uomo intelligente sa mangiare» (A. Brillat-Savarin, Fisiologia del gusto, Sellerio editore, Palermo 1998, p. 23).

Altro passaggio demolitore dell’Antico Regime del mangiare è stata l’importazione forzata dell’American Way of Life, nel XX secolo. Mangiare, infatti, richiede tempo, insieme a capacità di relazione e comunione. La cultura del fast-food, invece, esige che si mangi in fretta e da soli, in anonime mense, in piedi in uno snack bar, e utilizzando pasti preconfezionati e cibi surgelati. Ci si è messa poi anche l’informatizzazione incontrollata della vita sociale e individuale, che ha portato non solo a mangiare in fretta, ma a farlo mentre si controllano le mail, o le notifiche su uno dei vari social networks che, anche da questo punto di vista, stanno impoverendo la nostra umanità.

Oggi il cibo non è più “ricevuto”, dalla mamma, o da una persona che si prende cura, ma è preso, consumato e scisso da una relazione con chi lo prepara e lo serve. Tutto ciò conduce ad ulteriore impersonalità delle nostre giornate, individualismo, fretta, e anche perdita del gusto che, insieme ad altri fattori, stanno uccidendo l’arte del mangiare e del fare/dare da mangiare.

Effetti inevitabili di queste scissioni e disfunzioni del mangiare sono le dipendenze, le disarmonie e le patologie in rapida crescita in tutti i Paesi occidentali: obesità, anoressia, bulimia, disturbi alimentari di vario tipo.

Anche se Moulin si è sempre definito un “agnostico”, è stato indubbiamente uno dei maggiori “apologeti” del cristianesimo e della civiltà europea del XX secolo. Segnalo, in tal senso, il suo libro-capolavoro “La vita quotidiana secondo San Benedetto” (trad. It. di Giuliana Aldi Pompili, Jaca Book, Milano 2008). Ai monaci dobbiamo in effetti molto del nostro modo di vivere e di mangiare. Sono loro che hanno inventato lo champagne, la birra e la maggior parte dei formaggi. Forse anche per il suo studio del monachesimo europeo lo studioso belga divenne un profondo conoscitore della cucina europea.

Cresciuto nel più assoluto laicismo, Moulin riteneva di essere uno storico oggettivo e, a partire da questa oggettività, non riusciva a comprendere come i cristiani si fossero ridotti così male da vergognarsi della loro storia gloriosa. «Date retta a me, vecchio incredulo che se ne intende: il capolavoro della propaganda anti-cristiana è l’essere riusciti a creare nei cristiani, nei cattolici soprattutto, una cattiva coscienza; a instillargli l’imbarazzo, quando non la vergogna, per la loro storia – declamò durante una celebre conferenza -. A furia di insistere, dalla riforma sino ad oggi, ce l’hanno fatta a convincervi di essere i responsabili di tutti o quasi i mali del mondo. Vi hanno paralizzato nell’autocritica masochista, per neutralizzare la critica di ciò che ha preso il vostro posto».

Moulin aveva avuto modo di conoscere l’Italia fin da giovane e, forse per questo, da storico si è occupato della cultura del “bene-vivere” e, quindi, anche della tavola (è stato fra l’altro vicepresidente dell’Association belge des chroniqueurs de la gastronomie et du vin). Dobbiamo a lui la scoperta della gastronomia come importante fattore culturale. «Non mangiamo con i denti – ha scritto – e non digeriamo con lo stomaco; mangiamo con la mente e assaporiamo i cibi secondo norme culturali legate al sistema di scambi reciproci che è alla base della vita sociale».

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leo_moulinLÉO MOULIN – Nato a Bruxelles nel 1906, ha studiato lettere all’Università di Bologna, filosofia, lettere e scienze politiche a Bruxelles. Ha insegnato al Collège d’Europe a Bruges, alla Faculté Notre-Dame de la Paix a Namur e all’Università cattolica di Lovanio. Membro dell’Académie Luxembourgeoise e del comitato esecutivo dell’Institut International de Philosophie Politique, è stato visiting professor in varie università, dal Canada (Sudbury, Laval) al Brasile (Rio de Janeiro), dalla Polonia (Lublino) all’Italia (Torino, Bologna, Padova, Roma). È morto a Bruxelles l’8 agosto del 1996.