Il Popolo della Libertà: un partito al di fuori e contro le ideologie

PdlCristianità n.353 luglio-settembre 2009

di Marco Invernizzi

Il 27-28 marzo 2009 è nato il Popolo della Libertà (PdL), un nuovo partito politico. Esso sorge nell’epoca «post-ideologica» apertasi con la rimozione del Muro di Berlino nel 1989 e con la fine dell’Unione Sovietica, nel 1991, dopo la Terza Guerra Mondiale, la cosiddetta Guerra Fredda (1946-1991), che ha contrapposto l’Occidente al sistema comunista insediatosi in Russia dal 1917 e nell’Europa Orientale dopo la fine del secondo conflitto mondiale (1939-1945) [1].

Non essendo ideologico, come dichiara esplicitamente, il PdL non è dunque un partito destinato a incidere nella vita della società italiana nella maniera invasiva tipica dei «partiti di massa» [2] del secolo XX, anzi di questo suo essere un partito di moderati contrari alle ideologie e, in particolare, alle loro creature, ovvero ai totalitarismi del secolo XX, si fa un punto di onore e questa caratteristica ha conquistato a esso molti consensi.

Addirittura si potrebbe sostenere che voglia essere una sorta di «cintura protettiva» dalle ideologie per l’Italia che sta oggi governando, un movimento-partito che privilegia la «cultura del fare» rispetto al «politichese», al linguaggio ipertecnico e criptico della politica moderna, come ha ribadito il suo leader, on. Silvio Berlusconi, durante il congresso costitutivo.

La sua nascita costituisce un fatto molto importante, anche in ragione del consenso che il partito riesce a raccogliere in quanto fusione del primo partito italiano — Forza Italia (FI) — e del terzo — Alleanza Nazionale (AN).

Le origini prossime

Le origini del PdL si possono far risalire al 1993, quando Silvio Berlusconi, imprenditore di successo nel settore immobiliare e delle televisioni non statali, decide di scendere in campo, fondando — il 18 gennaio 1994 — Forza Italia, che si definisce un movimento politico piuttosto che un partito. La formazione, infatti, non assomiglia né al partito di notabili che precede i partiti ideologici di massa nati in seguito alla Grande Guerra (1914-1918), né, naturalmente, a questi ultimi, in qualche modo allargamento alle masse del modello «giacobino» di partito, che ha origine negli anni della Rivoluzione del 1789 [3].

Forza Italia nasce dopo l’abbattimento del Muro di Berlino, nel 1989, e dopo «Tangentopoli» — l’inchiesta della magistratura milanese contro la corruzione dei partiti svoltasi agli inizi degli anni 1990 —, avvenimenti strettamente legati fra loro, che portarono al disfacimento delle forze politiche protagoniste della Prima Repubblica: il Partito Socialista Italiano (PSI) e la Democrazia Cristiana (DC). Forza Italia ha origine dall’intuizione di un «nonpolitico» anticomunista, convinto che per impedire la vittoria elettorale della «gioiosa macchina da guerra» [4] del segretario del Partito Democratico della Sinistra, on. Achille Occhetto, nel vuoto di rappresentanza creato dai due fenomeni menzionati, bisognasse «inventare» qualcosa di nuovo.

Occhetto infatti guidava un partito nuovo, sorto dalle ceneri del Partito Comunista Italiano (PCI) dopo la fine dell’Unione Sovietica, un partito di sinistra, postcomunista ma che continuava a fruire del formidabile apparato creato dall’on. Palmiro Togliatti (1893-1964) negli anni della Guerra Civile (1943-1945) e del Comitato di Liberazione Nazionale, il CLN, fra il 1943 e il 1947. Una forza, dunque, che non poteva garantire tranquillità agl’imprenditori e, in particolare, un futuro nella libertà politica ed economica a chi aveva introdotto in Italia la televisione commerciale contro quella monopolistica dello Stato e che aveva sempre professato una profonda avversione per il comunismo.

Berlusconi non aveva mai nascosto — e continua a non nascondere — la sua amicizia con il segretario socialista on. Benedetto «Bettino» Craxi (1934-2000), morto durante il suo esilio, volontariamente scelto per sfuggire alle condanne inflittegli dalla magistratura di Milano, e spera, nel 1994, che sia il politico già democristiano on. Mario Segni — promotore del referendum che modificava il sistema elettorale in senso parzialmente maggioritario — a guidare una coalizione moderata che si opponga alle sinistre. Ma Segni rifiuta questo ruolo e sceglie di presentarsi come «terza forza» politica di centro, insieme al Partito Popolare nato dalla frantumazione e dalla scomparsa della DC, che aveva cessato di esistere nello stesso giorno in cui nasceva Forza Italia.

Il partito berlusconiano si forma utilizzando i quadri di un’azienda del fondatore, la Fininvest, e affronta il nuovo sistema elettorale alleandosi al Nord con la Lega del sen. Umberto Bossi e al Sud con il Movimento Sociale Italiano (MSI) dell’on. Gianfranco Fini, oltre che con il Centro Cristiano Democratico (CCD) dell’on. Pierferdinando Casini, un altro «spezzone» della DC. La reale e profonda novità di FI stava anche nel fatto che per la prima volta metteva alcune forze partitiche, fino ad allora escluse, in condizione di «contare» politicamente.

E con esse i milioni di elettori che il sistema politico della Prima Repubblica, il cosiddetto «arco costituzionale», modellato sull’unità antifascista del CLN, aveva sempre ghettizzato, a volte anche fisicamente. Ma tutto in quei giorni tendeva alla novità: l’intero mondo occidentale era in continua trasformazione per adeguare le proprie strutture politiche al mutamento epocale di scenario seguito al 1989 [5].

Berlusconi vince inaspettatamente le elezioni politiche del 27 e 28 marzo 1994 e produce un cataclisma politico, che si può leggere come una vera e propria insorgenza popolare contro il rinnovato pericolo che il Paese venisse conquistato dalla sinistra, anche se essa non era più presente nello scenario politico sotto la sigla del PCI.

Berlusconi, «il Cavaliere» della Repubblica, l’uomo venuto dalla gavetta, l’imprenditore di successo, il presidente della più vincente delle squadre di calcio dell’epoca, il Milan, colui che aveva sfidato e vinto il monopolio dello Stato sull’informazione televisiva e che prometteva una rivoluzione liberista che avrebbe affrancato la società civile dalle lungaggini burocratiche e dalla corruzione statalista «romana», diventa Presidente del Consiglio. Qualunque sia il giudizio che se ne abbia, bisogna prestare attenzione a questo autentico evento politico e di costume perché segnerà la storia almeno dei successivi vent’anni.

La vittoria non è merito del solo Berlusconi, ma anche del radicamento localistico della Lega Nord, espressione di una parte non irrilevante del Paese reale: quello delle valli alpine, dei piccoli comuni della Pianura Padana, del «ventre» del Veneto. Gli italiani, che avevano già trovato nell’autonomismo dei leghisti una possibilità di partecipare alla gestione del potere locale contro i partiti, tutti in qualche modo dipendenti da Roma e perciò ritenuti estranei agli interessi locali, grazie alla Lega e poi al governo presieduto da Berlusconi, nel 1994 consolidano la loro forza locale e contemporaneamente si ritrovano al governo di tutto il Paese.

Con il neofederalismo di Bossi torna altresì di attualità il problema politico lasciato aperto dall’unificazione nazionale, perché nel 1861 si volle creare uno Stato centralizzato, copiando il modello francese e imponendolo a tutta l’Italia, dal Sud al Veneto e alla Lombardia.

Se l’alleanza con la Lega al Nord porta buoni risultati, altrettanto bene va al Centro e al Sud l’intesa con il MSI, che Berlusconi aveva indicato quale possibile futuro alleato politico già in occasione delle elezioni comunali di Roma, nel novembre 1993. In quella circostanza, infatti, il Cavaliere aveva pubblicamente dichiarato che, se avesse dovuto votare, avrebbe scelto il segretario del Movimento Sociale Italiano, on. Gianfranco Fini — candidato contro l’on. Francesco Rutelli —, che stava allora trasformando un partito nato neofascista in una formazione conservatrice, Alleanza Nazionale, che rompeva con l’eredità ideologica del Ventennio (1922-1943).

Anche l’elettorato di destra, che aveva come riferimento obbligato il MSI — un voto conservatore che poco o nulla aveva a che fare con il fascismo-regime e con il neofascismo, ma che non si fidava di una DC che si spostava costantemente verso sinistra —, rappresentava una parte del Paese «reale». Si trattava di un elettorato che non aveva mai avuto in Italia una rappresentanza politica autenticamente di destra, a causa dell’identificazione forzata fra destra e fascismo operata strumentalmente dai partiti di governo del dopoguerra, in particolare dal PCI, soprattutto a partire dalla caduta del governo dell’on. Fernando Tambroni (1901-1963) dopo i «fatti di Genova» dell’estate del 19606, e dal successivo avvio dei governi di centrosinistra.

Grazie alla scelta di Berlusconi milioni d’italiani tornavano così a essere protagonisti, sia come elettori sia come attori della vita politica. Pure l’alleanza con il CCD ha un buon esito. Ed è questo un avvenimento molto rilevante perché, anche qui, per la prima volta nella storia repubblicana, un settore significativo della DC si stacca dal tronco principale «da destra», spostandosi verso la parte conservatrice dell’elettorato, mentre fino ad allora si era sempre assistito a un progressivo scivolamento del partito d’ispirazione cristiana verso sinistra, prima attraverso l’ostilità della classe dirigente democristiana verso i Comitati Civici di Luigi Gedda (1902-2000), poi con l’abbandono di Tambroni nel mezzo della crisi del suo governo, nel 1960, per favorire l’«apertura» ai partiti di centro-sinistra; poi, infine, con i governi neociellenisti detti di «solidarietà nazionale», aperti al PCI, susseguitisi fra il 1976 e il 1979.

Il precedente della «maggioranza silenziosa»

In effetti, andando a ritroso nella storia italiana, il primo fenomeno politico simile a quello che oggi rappresenta il Popolo della Libertà è la cosiddetta «maggioranza silenziosa» [7] — espressione coniata dal presidente americano Richard Nixon (1913-1994) in un discorso del 1969 —, ossia quel movimento di reazione a base popolare contro la Rivoluzione culturale del Sessantotto e i suoi strascichi violenti [8], che porta in piazza a Milano il 13 marzo 1971 decine di migliaia di persone in una grandiosa manifestazione, svoltasi nonostante il clima da guerra civile instaurato dagli extraparlamentari comunisti e tollerato dalle autorità cittadine — addirittura gli attivisti rossi filmavano il corteo allo scopo d’individuare e poi d’intimidire i partecipanti.

Una maggioranza di uomini e di donne comuni, di orientamento conservatore o moderato, esasperati dalla violenza che infuriava nelle scuole e nelle fabbriche per iniziativa del movimento studentesco e dei molteplici gruppi rivoluzionari della sinistra estremista.

La «maggioranza silenziosa», come accadrà a Forza Italia e come era accaduto ai Comitati Civici nel 1948, nasce nello spazio di poco tempo — qualche mese — come risposta a un’oggettiva emergenza e riesce a unire forze politiche e culturali molto eterogenee fra loro. L’estendersi della violenza rossa degli anni 1970 e la probabile vittoria elettorale degli ex comunisti nel 1994 furono due pericoli analoghi, che produrranno reazioni analoghe.

Queste tre forme reattive non oppongono al socialcomunismo un’ideologia, ma solo quel «senso comune» che rifiuta il sovvertimento dei valori tradizionali, e che, soprattutto, si oppone alla penetrazione dell’ideologia marxista nelle strutture della Repubblica e nella vita quotidiana della nazione. Come farà specie allora, in quel sabato pomeriggio del 1971, osservare la presenza non di rivoluzionari muniti di caschi e di bastoni, ma di signore «normali» sfilare — magari un po’ imbarazzate — per le vie di Milano, così, allo stesso modo, verranno guardati con stupore i dipendenti, gli avvocati o gli amici di Silvio Berlusconi che «scendevano in piazza» con il Cavaliere, anch’essi non privi di un imbarazzo che traspariva dal loro modo di affrontare la scena politica.

Naturalmente fra queste realtà vi sono anche non poche differenze. Anzitutto il fenomeno «maggioranza silenziosa» dura pochissimo come espressione organizzata perché viene travolta dalle provocazioni di diverse forze istituzionali e politiche e dalle sue divisioni interne. Il fallimento è conseguenza della violenza dell’epoca ma, soprattutto, della mancanza di un forte punto di riferimento organizzativo e politico, che invece vi sarà sempre chiaramente in Forza Italia e poi nel Polo delle Libertà e nella successiva Casa delle Libertà, con l’indiscussa leadership di Berlusconi. La «maggioranza silenziosa» fu un fenomeno prettamente milanese, che avrebbe peraltro potuto estendersi nel resto d’Italia con una certa facilità, almeno nel Nord, dove vi erano condizioni culturali e politiche simili.

Il comitato promotore era composto da esponenti delle diverse «destre»: quella missina, quella liberale e quella monarchica, ma coinvolse parte della DC — per esempio il consigliere comunale on. Massimo De Carolis — e soprattutto tanti giovani anticomunisti che nelle scuole e nelle università si battevano, come potevano, contro la violenza rossa. Essa non aveva altro progetto che quello di difendere la libertà di espressione e di agibilità politica sempre più minacciate.

I partiti avrebbero beneficiato elettoralmente di questo movimento, se avessero aspettato le elezioni. Invece non ebbero l’intelligenza politica di starne il più lontano possibile e le loro divisioni si ripercossero anche dentro la «maggioranza silenziosa». Ovviamente furono anche e soprattutto altri i motivi dell’insuccesso del movimento, a cominciare dall’atteggiamento delle istituzioni, anche se la maggioranza silenziosa difendeva la polizia e i carabinieri e, in senso lato l’autorità dello Stato.

Già la seconda manifestazione di piazza, il 17 aprile, venne proibita, con grave ritardo — la mattina stessa del giorno in cui era stata convocata e precedentemente autorizzata —, in modo che la gente non poté essere avvertita in tempo. Vi furono scontri fra manifestanti e polizia, con feriti, ma soprattutto quel giorno molti benpensanti che erano andati in piazza per difendere lo Stato e la libertà cominciarono a credere che nelle istituzioni qualcosa non andava, o meglio, che nelle istituzioni la simpatia per la sinistra e soprattutto l’astio per chi era esplicitamente anticomunista era assai elevato.

Si viveva male nell’Italia di allora, avvelenata dal diffondersi d’ideologie che rifiutavano il senso comune e si schieravano contro le radici del Paese, e, in particolare, dalla violenza fisica e morale quasi quotidiana, nelle scuole e nelle università, nelle fabbriche e nelle strade, ma soprattutto nel modo di affrontare i problemi, non soltanto quelli politici, un modo quasi sempre segnato dall’uso polemico della dialettica, dall’odio per l’avversario, dal bisogno del nemico di classe o di qualcosa d’altro.

Così lo storico Giuseppe Mammarella descrive quel clima, e certamente si tratta di una descrizione che non esprime tutta la drammaticità di quei giorni: «Nella valutazione storica di quegli avvenimenti non si può prescindere dall’atmosfera e dal clima di quel periodo. Lo stillicidio di manifestazioni e di contromanifestazioni che nelle grandi città impegnava le forze dell’ordine quasi quotidianamente, atti di terrorismo politico, aggressioni e sequestri, il dissenso ideologico che, partito dalle università, si estese a tutti gli ambienti della vita associata fino a investire la chiesa e la famiglia, sconvolgendo convinzioni e valori profondamente radicati, sono gli elementi di una condizione drammatica che sembra non avere sbocco. […] Questo il quadro che caratterizzò gli anni dal 1969 al 1972. Essi sembrarono tra i più drammatici della storia della repubblica e tali da giustificare i timori di una crisi di regime. In realtà era solo il preludio degli “anni di piombo”» [9].

Tuttavia, come espressione popolare, la «maggioranza silenziosa» sopravvivrà al fallimento organizzativo e, per esempio, influirà in maniera determinante sulla forte avanzata del Movimento Sociale Italiano — denominatosi nel frangente anche Destra Nazionale (DN) — nelle elezioni politiche del 1972 e, soprattutto, caratterizzerà la resistenza degli anni 1970 sia contro il «compromesso storico» fra DC e PCI [10], sia contro il terrorismo comunista. Questi italiani continueranno a votare senza alcun entusiasmo per la DC, la «grande diga» contro il possibile avvento di un regime comunista in Italia, a volte premiando il più deciso anticomunismo del MSI-DN.

Un altro precedente: il 18 aprile 1948

Ma, tornando ancora più indietro nel tempo, si può trovare un altro antecedente delle due realtà evocate: le elezioni politiche del 18 aprile 194811. Anche in questo caso la decisione di costituire lo strumento che farà la differenza durante la campagna elettorale, cioè i Comitati Civici, viene presa solo tre mesi prima del 18 aprile per iniziativa di Papa Pio XII (1939-1958), che chiede al presidente degli Uomini di Azione Cattolica Italiani, Luigi Gedda, di predisporre uno strumento operativo per porre rimedio alla debolezza organizzativa della DC.

Ovviamente, la più evidente delle differenze fra allora e oggi sta nella diversa condizione del corpo sociale italiano, allora molto più omogeneo quanto ai valori di riferimento. Se oggi i cattolici praticanti sono intorno al trenta per cento, a quel tempo erano molti di più e questo contribuisce a spiegare il ruolo determinante dei Comitati Civici e della Chiesa nel positivo esito elettorale. Ma anche allora si trattò di mettere insieme forze cattoliche e non cattoliche, anche se, per diversi motivi, esse pure profondamente anticomuniste, ossia i socialdemocratici, i liberali e i repubblicani.

Oggi la società è molto più frastagliata, quasi «coriandolizzata» [12], e in Forza Italia, come negli altri partiti del centro-destra, la difesa dei «[…] principi che non sono negoziabili» [13] viene fuori soprattutto nelle emergenze, com’è avvenuto con il «caso» di Eluana Englaro (1970-2009) nei primi mesi del 2009.

Sarebbe ovviamente ridicolo paragonare Berlusconi a Gedda, e anche ad Alcide De Gasperi (1881-1954), per le troppe differenze personali e culturali fra i tre personaggi. Ma gli episodi di cui furono protagonisti si assomigliano, nella genesi e nel risultato, oltre che nel significato culturale e politico. Se i personaggi sono molto diversi, altrettanto però non si può dire della parte di popolo protagonista dei due episodi.

L’«insorgenza» come categoria politica permanente

Come accennato, si può dire che nel 1994, duecento anni dopo, si manifesti una specie di nuova insorgenza popolare — sul modello remoto di quelle contro Napoleone Bonaparte (1769-1821) — nei confronti di quei poteri e di quelle forze progressiste di natura ideologica pronte a plaudire alla «inevitabile» vittoria elettorale degli ex comunisti. Infatti, intellettuali e giornalisti — con rare eccezioni —, grande industria e burocrazia, dirigenti e dipendenti pubblici — il Paese «legale» —, stavano allora dalla parte della sinistra, oppure del centro di Mario Segni e del nuovo Partito Popolare.

Anche molte curie episcopali non nascondevano la loro preferenza, né lesinavano il loro impegno per il centro o per la sinistra, in un trend durato almeno fino alla Nota dottrinale sull’impegno dei cattolici in politica pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nel 2002 [14], che stabilisce criteri oggettivi e ragionevoli per il comportamento elettorale — eletti ed elettori — dei cattolici.

Il termine «insorgenza» non è casuale, ma significa qualcosa di concettualmente e di storicamente preciso. Come scrive Giovanni Cantoni, «Insorgenza» è un fenomeno storico e anche una categoria politica — per cui è lecito scriverla con l’iniziale maiuscola, come, per esempio, Resistenza —, con cui si può denominare la reazione di parti consistenti del corpo sociale di fronte al disagio indotto dal modo in cui si viene articolando il mondo moderno dopo il 1789.

Una sorta di malessere «dentro» la modernità, originato in particolare dal tentativo dello Stato moderno di costruire ideologicamente una società nuova e radicalmente difforme da quella pre-moderna. «Mi pare lecito ipotizzare — scrive Cantoni — l’esistenza di una “legge” storica — meglio, di un “ritmo” storico — per cui la società, cioè ogni società storica, dopo aver resistito all’inverosimile, reagisce all’imposizione di un abito organizzativo e istituzionale inadeguato e/o al tentativo di snaturarla per renderla docile a tale imposizione. Come pure ipotizzare, quindi, che l’Insorgenza sia l’espressione incarnata, socio-politica, quasi motus primo primus, “moto primo primo”, del corpo sociale, dell’―eterno ritorno del diritto naturale [15], un eterno ritorno da intendersi non come periodica ripresentazione ciclica, ma come potenziale, permanente reattività di un diritto naturale, che non può essere trascurato, compresso oltre un determinato limite» [16].

La nozione d’insorgenza si ricollega storicamente alle numerose insurrezioni antirivoluzionarie e antinapoleoniche avvenute in Italia e in numerosi Paesi europei nel periodo 1796-1799 — il cosiddetto Triennio Giacobino — e nel periodo imperiale, fino alla sconfitta definitiva di Napoleone. Di esse la storiografia italiana non si è occupata e, quando lo ha fatto, lo ha fatto perché costretta, liquidandole come episodio antimoderno, come disperato e anacronistico tentativo di riportare indietro la storia di un Paese proiettato nella modernità [17].

Ora, non vi è nulla di più moderno dei due esempi che ho portato: sia i Comitati Civici, sia Berlusconi e il partito nato dalla sua vicenda politica si sono sempre autorappresentati come soluzione moderna ai problemi posti dalla modernità. In effetti, lo stile propagandistico, le parole e i mezzi utilizzati, in entrambi i casi sono stati profondamente innovativi. Ma questo uso dei mezzi moderni è messo in gran parte, non sempre tematicamente, al servizio di quel diritto naturale di cui scrive Cantoni, ossia di quei princìpi che anche nell’epoca moderna sono rimasti, magari assopiti o contraffatti, nel cuore di una parte del popolo italiano e sono stati a lungo in cerca di qualcuno che avesse le capacità e l’opportunità di dare loro visibilità e forza organizzata.

Si tratta di princìpi che non sono né vecchi né moderni, ma semplicemente perenni, ovvero presenti nella natura umana creata a immagine e somiglianza di Dio e non completamente sradicati dal peccato di origine. Essi si ritrovano anche nel comune sentire dei popoli occidentali, residui presenti e vivi, pur se allo stato latente, magari in modo parziale e a volte confuso, a dispetto dell’inondazione ideologica che si apre nel 1789 e dura per due secoli fino al 1989, in parti significative della società.

Nel tempo di quella forma dominante di modernità, caratterizzata dall’egemonia culturale della sinistra, sono sentimenti di cui è rimasto custode e promotore il magistero della Chiesa e, per alcuni aspetti, hanno trovato spazio anche in quella che è stata definita «cultura di destra».

La destra autentica, nella storia dell’Italia moderna, a livello politico non avrà mai la possibilità di essere veramente e genuinamente rappresentata: tuttavia i suoi valori di riferimento non scompariranno. Scrive il politologo Roberto Chiarini: «La destra in buona sostanza si trova ad operare nell’Italia repubblicana come un fiume carsico» [18]; e ancora: «[…] ad occhio nudo un osservatore può pensare che non esista, se non fosse per le sparute schiere dei nostalgici. Ma nelle pieghe della società civile essa è presente» [19]. E così è avvenuto.

Le insorgenze popolari antinapoleoniche, i Comitati Civici di Luigi Gedda, la «maggioranza silenziosa» e, infine, la discesa in campo — e la sua permanenza alla ribalta da quindici anni — di Silvio Berlusconi sono cose diversissime fra loro, ma esprimono tutte un idem sentire popolare, che si esprime in forma rudimentale nel rifiuto, che nasce dentro il Paese profondo, di ogni tentativo d’imposizione, da parte dello Stato o di un’autorità superiore, di un modo di concepire la vita pubblica ideologico e radicalmente ostile alle radici storiche del Bel Paese.

Sempre Chiarini ha messo bene in luce questo tratto, che accompagna tutta la storia dell’Italia contemporanea: «Il fatto è che questa impronta giacobina, lungi dal rientrare una volta cessata l’emergenza della rivoluzione risorgimentale, dura nel tempo e si consolida fino a divenire uno stabile tratto caratterizzante della cultura e dello stile politico dei gruppi dirigenti partitici italiani, con una produzione a cascata di conseguenze nel lungo periodo. La più rilevante sul fronte della dinamica politica intercorrente tra istituzioni e cittadini è la presunzione, che sarà pressoché di tutti i partiti futuri, di essere portatori di una “verità”, ideologica o morale, da far calare sulla società civile ritenuta assiomaticamente immatura per governarsi da sola. La seconda è l’investitura degli intellettuali di una funzione politica privilegiata quanto strategica: quella di essere “costruttori di valori”. La terza è la torsione progressista che resta impressa in Italia alla politica, costretta solo a guardare avanti e a considerare destituita del benché minimo fondamento storico, oltre che morale, qualsiasi idea che attinga o si richiami in qualche misura a patrimoni morali, valoriali o politici premoderni in quanto intrinsecamente regressivi» [20].

I problemi del nuovo partito

È difficile dare una valutazione anche soltanto approssimativa di una realtà appena nata come il Popolo della Libertà. Ho cercato di descriverne il caratteristico anti-ideologismo perché — insieme all’altra proprietà di essere l’aggregato di forze culturali e sociali disomogenee — mi è sembrato uno dei suoi aspetti principali. Indubbiamente il PdL è un partito che opera nell’epoca successiva alle ideologie e assume i connotati, sia positivi sia negativi, di quest’epoca.

Tuttavia è necessario capire che cosa significhi essere un partito postmoderno e postideologico. Per molti, politologi e storici di sinistra soprattutto, l’epoca nella quale stiamo vivendo si potrebbe intitolare il «ventennio di Berlusconi» (1993-2013) e qualcuno — lo storico Nicola Tranfaglia — ha espressamente titolato così un suo libro, che inizia con Tangentopoli e con la fine della Prima Repubblica e si conclude nel 2013, con la fine della legislatura che ha visto la terza vittoria elettorale di Berlusconi [21].

Un ventennio che richiama quello fascista perché caratterizzato da un regime populista, che prescinde dai partiti come appunto quello del Ventennio, anche se per altri aspetti è molto diverso dal regime di Benito Mussolini (1883-1945). Un periodo che ha visto la sconfitta delle sinistre, addirittura la loro estinzione secondo Tranfaglia. In qualche modo gl’intellettuali progressisti come Tranfaglia rimpiangono il periodo precedente la rimozione del Muro di Berlino, perché allora la rivoluzione era in moto, in Italia soprattutto, ed era così possibile costruire una «nuova sinistra» postcomunista che coniugasse i «diritti civili» — divorzio, aborto, identità di genere, ingegneria genetica — con un socialismo ripulito dalle scorie dell’impresentabile comunismo sovietico.

Una delle accuse rivolte a Berlusconi è di essere populista, cioè di disprezzare in diversi modi le regole della democrazia parlamentare nata dalla Costituzione del 1948, e di essere, come poi effettivamente appare, un uomo spesso sopra le righe, incapace di contenere il suo «privato» anche nelle circostanze ufficiali. Il populismo di Berlusconi sarebbe simile a quello, paradigmatico, del militare e uomo politico argentino Juan Domingo Perón (1895-1974) ed esprimerebbe una concezione della politica carismatica che prevede un rapporto diretto fra il leader e il popolo.

Sarebbe, per di più, consumista, cioè ostenterebbe la sua ricchezza personale e inviterebbe implicitamente tutti a imitare la sua parabola individuale, che lo ha portato a diventare ricco e famoso attraverso la «cultura del fare», il lavoro costante e metodico.

Sul populismo può essere utile qualche considerazione. Certamente il popolo non è la fonte del vero e del bene: questa polemica oppose la Chiesa all’ideologia ugualitaria nata dalla Rivoluzione del 1789 che appunto attribuiva al popolo, inteso come maggioranza, la sovranità anche su quei princìpi che oggi il Magistero definisce «non negoziabili». Ma la dottrina sociale della Chiesa ha sempre valorizzato la partecipazione del popolo alla gestione del potere.

In sintesi, se una maggioranza non trasforma in bene un male e non fa diventare vero un errore, ciò non significa che non sia un bene che abbia la massima possibile voce in capitolo nelle decisioni inerenti al bene della comunità. E questa forma di partecipazione politica può esprimersi attraverso i partiti, come avviene nelle società democratiche occidentali caratterizzate dal pluralismo ideologico, che la Chiesa ha sempre difeso contro il totalitarismo degli Stati comunisti, ma può prevedere anche altre forme di partecipazione politica. Quanto sta accadendo dopo il 1989 in Occidente, con la trasformazione dei partiti e la loro sempre minore influenza a vantaggio di altre forme organizzative sorte all’interno della società, va in questa direzione.

Invece, esistono forze ideologiche che amano definirsi democratiche ma disprezzano quel popolo che «non capisce» di dover accettare l’ideologia del progresso di cui si ritengono in qualche modo depositarie: così il popolo che si ribella all’imposizione dei regimi giacobini negli anni di Napoleone è ottuso e manovrato da preti e monarchi, così come quello che sconfigge le sinistre nel 1948 o che dà vita alla «maggioranza silenziosa» è clericale e reazionario.

La stessa sorte è capitata a coloro che, democraticamente, hanno affidato il governo dell’Italia al centro-destra nel 1994, nel 2001 e nel 2008. Sarebbe un popolo «populista», simile al sottoproletariato che Karl Marx (1818-1883) disprezzava perché non aveva una coscienza di classe: «[…] se l’elettorato non vota per le forze di centrosinistra, l’espressione politica del popolo perde la qualificazione di “consenso democratico” e viene quasi automaticamente stigmatizzata come populismo» [22].

Indubbiamente la capacità mediatica di Berlusconi, il suo ottimismo e i suoi successi personali costituiscono in gran parte quella immagine vincente che gli ha permesso di superare le due sconfitte elettorali, e le evidenti pressioni — o persecuzioni — giudiziarie e mediatiche. Nella «civiltà dell’immagine» apparire è assolutamente importante. Ma non è tutto e forse non è stata neppure la componente decisiva delle vittorie di Berlusconi. Esse sono venute perché hanno dato risposta a un reale disagio ideologico, culturale, politico ed economico.

Tuttavia, proprio mentre l’avversario politico veniva sconfitto sono cominciati i problemi di Berlusconi e del Popolo della Libertà. Perché, se è vero che quest’ultimo non è il partito «di plastica» di cui si è molto scritto negli anni passati a proposito di Forza Italia, non è neppure un partito, e neanche un movimento politico profondamente radicato nella cultura del popolo italiano.

Da questo punto di vista è solo uno dei partiti dell’epoca del «pensiero debole». Un po’ perché è così geneticamente, un po’ perché è costretto dal sistema elettorale a cercare il massimo dei consensi in quasi tutte le direzioni: il PdL raccoglie molto, ma potrebbe anche facilmente e velocemente perdere il suo cospicuo raccolto. Esso è qualcosa di più di un partito liberale, seppure di massa. Così non può essere definito semplicemente il partito dei moderati, né, tanto meno, dei conservatori.

Molti cattolici lo hanno votato anche perché Berlusconi, con tutto il governo, si è schierato a favore della vita di Eluana Englaro, minacciando uno scontro istituzionale con il Quirinale, così come non è uscito di casa per andare a votare durante il referendum sulla legge 40 del giugno 2005, quando la Chiesa italiana aveva scelto di far fallire il referendum [23] — peggiorativo di quella legge già in sé poco chiara — invitando gli italiani a non andare a votare, perché non si raggiungesse il quorum.

Tuttavia, pur manifestando grande attenzione verso la Santa Sede, non ha mai lasciato neppure intendere di voler essere un leader cattolico, sia per il fatto che non lo è, sia perché questo gli nuocerebbe all’interno del partito; al contrario si è espresso tempo fa, con una frase certamente infelice per la sensibilità dei cattolici, dicendo di guidare un partito anarchico quanto ai valori [24].

Ciò, sebbene la Carta dei Valori del nuovo partito reciti testualmente: «Le radici giudaico-cristiane dell’Europa e la sua comune eredità culturale classica ed umanistica, insieme con la parte migliore dell’illuminismo, sono le fondamenta della nostra visione della società» [25].

Il PdL è forse un partito conservatore sui generis, anche se questo termine non viene utilizzato ordinariamente dagli uomini politici che ne fanno parte, con l’eccezione del sottosegretario di Stato all’Interno, on. Alfredo Mantovano, che rivendica la pertinenza e anche l’opportunità dell’uso del termine [26]. O forse un analogo del Partito Repubblicano statunitense, contenitore di svariati gruppi e correnti culturali.

Un progetto per unire gl’italiani?

Nella debolezza del PdL s’incunea il progetto dell’on. Gianfranco Fini, un disegno sempre più ideologico, di cui è strumento soprattutto la sua Fondazione Farefuturo. Almeno dal 2005 l’ex presidente di AN e ora presidente della Camera dei Deputati non perde occasione per distinguere, anche poemicamente, la sua posizione culturale e politica da quella del presidente del Consiglio e della maggioranza del PdL, soprattutto, ma non esclusivamente, quando sono in questione temi di natura etica.

Così è accaduto in occasione del referendum sulla legge 40, così quando l’on. Fini ha accusato il disegno di legge sul fine-vita approvato dal Senato nella primavera del 2009 di essere proprio di uno «Stato etico», che cioè imporrebbe una propria visione del mondo, religiosa, al corpo sociale. Ma l’on. Fini si è smarcato anche in tema d’immigrazione, questa volta sembrando sposare le tesi della componente più di sinistra del mondo cattolico, naturalmente incontrando così il plauso delle diverse posizioni di sinistra, sia culturali sia politiche.

Gianfranco Fini non è mai stato un intellettuale ed è esperienza comune che le sue posizioni culturali preludano sempre, legittimamente, a un suo diverso percorso politico. Per decenni ha costruito la sua carriera politica esaltando la difesa dei valori e dell’identità nazionale e cristiana del partito che dirigeva, pur non essendo personalmente un credente e tantomeno un praticante.

Poi si è verificato in lui un cambiamento repentino, insistito, ripetuto, a volte contro i suoi stessi interessi politici a breve termine, quasi per voler dimostrare a qualcuno la veridicità del suo cambiamento. Non vuol essere questa una insinuazione, ma la semplice constatazione che non c’è stato tema, dopo il 2005, che non abbia visto l’on. Fini sostenere pubblicamente posizioni laiciste, dalla fecondazione assistita, alla questione omosessuale e al fine-vita.

Che cosa abbia spinto l’on. Fini a mutare così radicalmente le proprie posizioni non mi è dato di sapere, né mi pare che alcuno glielo abbia mai chiesto, almeno pubblicamente. Ricordo una drammatica assemblea nazionale di AN trasmessa in diretta da Radio Radicale nel luglio successivo al referendum sulla legge 40, nel 2005, quando il presidente Fini si trovò in palese difficoltà a sostenere la posizione filo-referendaria, da lui assunta nel mese precedente, di fronte alla quasi totalità del partito schierato invece, e con convinzione, contro ogni peggioramento — dal punto di vista del diritto naturale — della legge 40. Ma l’assemblea non seppe o non volle approfittare di quel frangente di debolezza e non presentò un ordine del giorno che avrebbe ufficialmente sconfessato la politica del presidente, che se la cavò con qualche scalfittura.

Certamente il suo cambiamento ha molto nuociuto a chi ha continuato a sostenere posizioni culturali simili a quelle da lui indossate in precedenza. Si è avuta infatti l’impressione, forse esagerata ma così è stata percepita, che le posizioni fedeli al diritto naturale non possano arrivare ai vertici delle istituzioni europee, troppo intrise d’ideologia laicista, come è accaduto con l’on. Rocco Buttiglione, costretto a rinunciare alla nomina nella Commissione Europea nel 2004, o più recentemente all’on. Mario Mauro, che nel 2009 sembrava il candidato italiano «scontato» per la Presidenza del Parlamento Europeo, ma è stato escluso all’ultimo momento a favore del polacco Jerzy Buzek.

Tuttavia, la mia impressione è che le posizioni assunte dall’on. Fini negli ultimi anni non mirino soltanto a ritagliarsi una posizione autonoma da Berlusconi, per esempio, cercando consensi anche al di fuori del suo partito, il che potrebbe un domani permettergli di essere eletto da un nuovo Parlamento alla massima carica dello Stato, o addirittura immaginando una nuova realtà politica trasversale, fatta di spezzoni dei due maggiori partiti, quando lo stesso Berlusconi dovesse lasciare la scena. Pur essendo un discorso al quale tutti pensano, anche se non ne parlano, questo approccio al futuro politico rischia di diventare di poca importanza se non si cerca invece di riflettere su scenari di maggiore durata e profondità.

Intervenendo al congresso di fondazione del PdL, del resto, l’on. Fini non ha fatto mistero di questo aspetto, evocando la necessità di dare un’anima al partito e soprattutto di trovare il modo di stringere un patto che faccia diventare l’Italia una comunità che si riconosca nello stesso sistema di valori. Intenzione importante e tuttavia bisognosa di diverse considerazioni.

La prima è che non si costruisce nulla prescindendo dalle radici, le quali, in Italia, sono profondamente intrise di cristianesimo, qualunque rapporto personale si abbia con esso. Da questo punto di vista, è inutile evocare un grande patto sui valori o richiamare il patriottismo costituzionale, perché i primi non s’inventano — salvo ricadere nel processo che ha portato alla tragedia delle ideologie —, mentre il secondo può servire per stabilire regole condivise e non certo per fornire i motivi «alti» che fondano una comunità civile.

Gl’italiani non sono abituati a riconoscersi in alcun progetto ideale semplicemente perché non esiste alcun evento autenticamente fondativo nella storia moderna del Paese: qualcosa che assomigli ai grandi episodi dell’epica greca e che hanno un indubbio rilievo culturale in Occidente. Singolare, da questo punto di vista, è quanto si è potuto leggere sui giornali del 22 luglio 2009 a proposito della mancanza di fondi e/o di progetti per celebrare il 150° anniversario dell’Unità d’Italia nel 2011: l’impressione è che non importi quasi a nessuno di questo anniversario, ma non direi per mancanza di spirito patriottico o di fondi.

I problemi relativi al modo con cui è stata fatta l’unità italiana ormai sono stati messi a fuoco da una serie di libri recenti di diversa portata scientifica. Questi studi non mettono in discussione l’unità politica del Paese, ma mostrano comunque che sia la questione meridionale, sia quella settentrionale hanno la loro origine, quantomeno problematica, l’una nella guerra civile del decennio successivo al 1860, il cosiddetto brigantaggio [28], l’altra nel mancato federalismo.

Il successo di consensi della Lega Nord è in ragione della sua proposta di una soluzione federalista ai problemi dello Stato, quello Stato unitario che nel 1861 impose a tutta la Penisola il centralismo statalista sulla base del modello francese. In pratica, l’Italia nasce attraverso una guerra civile al Sud e con l’imposizione di uno Stato centralista a popolazioni diverse: due ferite alle quali, nel 1870, si aggiunge l’occupazione militare dello Stato pontificio da parte dell’esercito italiano.

Ora, nessuno vuole ritornare alla situazione precedente il Risorgimento, tanto meno la stessa Chiesa, ma è evidente che non c’è nulla di epico da celebrare con clamore, bensì solo ferite da medicare e problemi su cui riflettere.

Risorgimento e Resistenza miti inservibili?

Il politologo Gian Enrico Rusconi, autore certamente non revisionista, ha dato alle stampe recentemente un libro sul 1915, l’anno in cui l’Italia decise il suo ingresso nella Grande Guerra (1914-1918), la quale rimane uno dei miti più diffusi del nostro sentimento nazionale [29]. L’opera, scritta anche alla luce di nuovi documenti, penetra in profondità in questo episodio e ne mette in luce l’inservibilità ai fini di un’apologetica nazionale.

Come possiamo fondare la nostra italianità sul fatto così evidentemente intriso di profonda ingiustizia di un governo, quello italiano, che nel giro di soli dodici mesi rinnega l’alleanza con gl’Imperi Centrali, Germania e Austria-Ungheria, e dopo meno di un anno di neutralità si scaglia contro gli ex alleati con il proprio esercito? Per le terre irredente ci è stato ripetuto, ma forse non erano irredente anche Nizza e la Savoia?

E perché bisognava fare la guerra a tutti i costi quando il Trentino sarebbe potuto diventare italiano senza spargimento di sangue? E chi ha deciso per la guerra, e in quel modo, contro la maggioranza del Parlamento e degl’italiani, chiamati a morire in oltre cinquecentomila, per un territorio nel quale vi era una città, Bolzano, dove si parlava esclusivamente tedesco? E ancora: era nel giusto l’Italia che per trent’anni è stata alleata di Austria e Germania oppure quella che in pochi mesi è passata con la coalizione che faceva la guerra ai suoi alleati?

Non erano certamente soltanto gl’italiani a ragionare con il metro del nazionalismo, che anzi aveva ormai avvelenato tutta l’Europa: quello che voglio mostrare è l’inservibilità morale, epica, della Grande Guerra come coronamento di un Risorgimento già di per sé assai problematico.

L’altro grande tema evocato per unire gl’italiani è la Resistenza contro il fascismo e i tedeschi, avvenuta nel 1943-1945 ma continuata ben dopo la fine della guerra e diventata una sorta di alternativa, fatta abortire, per un diverso possibile sviluppo del Paese. Infatti, la Resistenza vide l’alleanza fra i tre partiti ideologici di massa, il PCI, il PSI e la DC. Secondo alcuni, anche cattolici come don Giuseppe Dossetti (1913-1996), quest’alleanza era il simbolo di un’Italia che si doveva costruire in discontinuità con la vecchia Italia liberale prefascista.

E quando questa alleanza finì, nel 1947, e l’Italia si dispose allo scontro elettorale e di civiltà del 18 aprile 1948, grande fu l’amarezza che s’impadronì di Dossetti, perché sembrava andare in frantumi il progetto di un’Italia nuova, nata dall’abbraccio fra le due grandi ideologie progressiste, la cattolica e la comunista, che si temevano ed erano assai diverse fra loro, ma avrebbero potuto costruire insieme, in concorrenza però unite contro il conservatorismo occidentalista, una società nuova e diversa da quella liberale pre-fascista.

La Resistenza aveva diviso gl’italiani nel Nord, ma era anche profondamente divisa al suo interno. Essa diverrà l’evento vessillare per chi vorrà fare la Rivoluzione in Italia, come le Brigate Rosse, oppure per chi vorrà portare i socialcomunisti al governo. La sua mitizzazione fu ripresa dopo il 1960 dalle forze di sinistra, ma nel clima post-ideologico successivo al 1989 verrà meno la sua capacità di assurgere a mito politico e, come tale, diventerà sempre meno utilizzabile. Che la Resistenza fosse divisa, lo hanno dimostrato fra l’altro le opere di due giornalisti provenienti dalla stessa sinistra filosocialista, Ugo Finetti [30] e Giampaolo Pansa [31].

Il patriottismo costituzionale

Rimane la Costituzione. Anch’essa espressione della collaborazione fra i tre partiti di massa, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, è diventata il simbolo ideale di tutti i «post»: comunisti, azionisti e democristiani.

La Costituzione è un po’ come il vestito di un Paese, confezionato dallo Stato attraverso i suoi organi costituenti, nel caso italiano l’Assemblea Costituente eletta nel 1946. Essa è certamente importante perché indica i modelli di riferimento dello Stato e dell’azione dei governi e le modalità con cui si articolerà la vita pubblica, sociale e politica. Tuttavia, bisogna anche ricordare le osservazioni dell’uomo politico e pensatore savoiardo Joseph de Maistre (1753-1821) sulla debolezza delle costituzioni scritte quando è venuto meno il consenso su quella costituzione non scritta che però esprime il generale consenso degli abitanti di un territorio su alcuni valori fondamentali [32].

Perduti questi ultimi, i cittadini hanno cominciato a dividersi su temi sempre più rilevanti mettendo così in discussione la possibilità stessa della convivenza. Come dire che quando due o più persone cominciano a rivolgersi all’avvocato per mettere per iscritto le loro rispettive posizioni significa che un rapporto fiduciario si è interrotto o non c’è mai stato.

Ma una Costituzione non detta soltanto le regole, come fa la seconda parte della Costituzione italiana, ma esprime anche i princìpi di fondo a cui s’ispirano gli attori politici che appunto stipulano il cosiddetto patto costituente, quello sancito nella prima parte della nostra Carta. Ora gli attori italiani che hanno dato vita al patto costituzionale nel secondo dopoguerra non ci sono più. Rimangono alcuni singoli partecipanti all’Assemblea Costituente, come i senatori a vita Giulio Andreotti e Oscar Luigi Scalfaro, ma i partiti dell’epoca costituente si sono estinti. Questo significa molto per una Repubblica parlamentare nella quale i partiti hanno un ruolo essenziale.

Basti pensare che il partito più antico fra quelli oggi rappresentati in Parlamento è la Lega Nord, ossia quello che presenta maggiori riserve circa le caratteristiche giuridiche e politiche dello Stato italiano. Suscita così forti perplessità la diffusa affermazione da parte delle forze politiche e degl’intellettuali, generalmente di centro-sinistra, circa l’inviolabilità della Costituzione, soprattutto della sua prima parte, quella nata da un compromesso fra forze politiche che avevano un ruolo importante nell’epoca precedente la fine del Muro di Berlino, ma che oggi non esistono più.

Dopo il 1989, oltretutto, non sono cambiati soltanto i soggetti politici rappresentati in Parlamento, ma si è conclusa a livello internazionale quella fase di contrapposizione fra ideologie così centrale nel secondo dopoguerra. Per esempio, che la Repubblica sia fondata sul lavoro, e non sulla persona o sulla famiglia, appare un’evidente concessione all’ideologia marxista che considera l’uomo esclusivamente come produttore, non come persona, indipendentemente dal fatto che lavori o no.

Suscita maggiori perplessità il richiamo al patriottismo costituzionale che unisce figure pubbliche così lontane come don Dossetti e il presidente della Camera Fini, il primo per difendere un mito all’origine del suo antico impegno culturale e politico, mentre il secondo forse — come detto — per portare a termine un percorso politico conquistando il consenso di componenti significative della sinistra.

Comunque sia non può sfuggire, e non sfugge neppure a sinistra, se non si vogliono chiudere gli occhi e se non si vuole cadere nel ridicolo, l’anacronismo di simili posizioni politiche. Ma allora perché tanta enfasi su una Costituzione che palesemente, al di là di ogni contrapposizione ideologica, non rappresenta più il comune sentire del Paese?

Il ruolo di Dossetti

Un libro recente, scritto a due mani da Pier Paolo Saleri e, ultima fatica della quale non ha potuto vedere l’esito cartaceo, da don Gianni Baget Bozzo, attribuisce a don Dossetti e all’influenza che ebbe durante i lavori dell’Assemblea Costituente e anche dopo, soprattutto all’interno della DC e del mondo cattolico, il fatto che il testo della Carta sia diventato molto di più che il «vestito» della nazione, addirittura un mito e un compito, un progetto da costruire nei decenni successivi alla sua entrata in vigore [33].

Secondo quest’opera, la Costituzione è diventata una sorta d’ideologia politica fondata sulla collaborazione fra cattolici democratici e comunisti, mirante a costruire una nuova società appunto frutto di questo incontro ideologico: una società radicalmente diversa dall’Italia liberale pre-fascista e ostile a una collocazione italiana all’interno dell’alleanza occidentale guidata dagli Stati Uniti.

Per descrivere come si sia radicata in Italia questa cultura, nel libro viene ricostruita la biografia culturale e politica di Dossetti. Ma in realtà bisogna cominciare da più lontano, cioè dalla rottura che avviene all’interno del movimento cattolico nelle giornate del 1898, quando il generale Fiorenzo Bava Beccaris (1831-1924) dà ordine alle truppe dell’esercito di sparare sulla folla milanese scesa in piazza per protestare contro il rincaro del prezzo del pane.

L’esito del conflitto è drammatico per i morti che provoca e per l’odio che scatena, un odio che provocherà fra l’altro la morte del re Umberto I di Savoia (1844-1900), assassinato due anni dopo a Monza dall’anarchico Gaetano Cresci (1869-1901) proprio per vendicare i «fatti del 1898». Queste vicende spingono cattolici e liberali a riflettere sulla situazione politica del Paese e a prendere alcune decisioni che avranno conseguenze importanti.

Mentre fra i liberali al governo matura la convinzione, che sarà specialmente di Giovanni Giolitti (1842-1928), di non poter governare da soli il Paese, i cattolici intransigenti si convincono della necessità di difendere le istituzioni minacciate dall’avanzata dei socialisti e dunque di allearsi con i liberali moderati per difendere lo Stato unitario a condizione che quest’ultimo rinunci ai suoi propositi anticattolici — non solo anticlericali — in tema di famiglia e di libertà scolastica. Nascono gli accordi clerico-moderati e prende corpo quell’Italia moderata o conservatrice «ufficiosa» che si coagulerà spesso nei decenni successivi ogni qual volta un pericolo sembra minacciare l’equilibrio del Paese.

L’enciclica Il fermo proposito [34] del 1905, del nuovo Pontefice san Pio X (1903-1914), assume formalmente questa posizione. Ma nasce anche all’interno del movimento cattolico un’altra posizione, irriducibile a ogni concessione verso lo Stato liberale, che non legge la Rivoluzione come un processo ma vede positivamente la reazione antiliberale dei socialisti.

Il giornalista don Davide Albertario (1846-1902) è il campione di questo antiliberalismo irriducibile che darà vita alla prima democrazia cristiana. Nonostante il pensiero di don Giuseppe Dossetti non sembri essere maturato all’interno di una riflessione sui problemi inerenti alla storia del movimento cattolico, credo si possa affermare che la sua collocazione sia in un certo senso ascrivibile a questa posizione irriducibilmente contraria al liberalismo, che non vede come questa dottrina sia una delle componenti culturali attive all’interno del processo rivoluzionario.

Secondo tale concezione, lo Stato, nella costruzione della società, svolge una funzione non soltanto sussidiaria: ed è una prospettiva che si ritrova anche all’interno dell’esperienza fascista, quella durante la quale avviene la formazione intellettuale di Dossetti.

Con i «professorini» Amintore Fanfani (1908-1999) e Giuseppe Lazzati (1909-1986) respira questa cultura antiliberale nell’Università Cattolica del Sacro Cuore, attraverso il rettore Agostino Gemelli O.F.M. (1878-1959)35. Essa sopravvivrà alla caduta del fascismo e si ritroverà nella sinistra della DC, la corrente guidata nel dopoguerra da Dossetti, che si raduna intorno alla rivista Cronache sociali [36].

Il libro di Baget Bozzo e di Saleri descrive le caratteristiche ideologiche dello scontro di questa corrente con De Gasperi e con gli altri ex popolari che guidavano la DC, ma anche con i Comitati Civici di Luigi Gedda, che di fatto esprimevano la posizione di Papa Pio XII. Le riflessioni degli autori meriterebbero un’analisi più approfondita, però favoriscono una riflessione e comunque aiutano a mettere a fuoco alcuni dei principali problemi e mali della storia dei cattolici in Italia.

Dossetti criticava radicalmente la società liberale nata dalla Rivoluzione Francese e giudicava positivamente la reazione antiliberale dei socialisti e dei comunisti. Così, anziché allearsi con chi impersonava la malattia che affliggeva il corpo sociale ma a uno stadio meno avanzato, egli nel secondo dopoguerra ritenne utile un’alleanza con le forze più radicali. Quest’alleanza si realizzò nella Resistenza prima e prese corpo poi nell’Assemblea Costituente, che produsse finalmente il «testo della speranza», la Carta costituzionale.

Quest’ultima ha assunto così un significato metapolitico o ideologico, come recita il titolo del libro di don Baget Bozzo e di Saleri. Tuttavia la maggioranza del popolo non stava con la sinistra democristiana e non voleva alcun accordo con i socialcomunisti. Così almeno si espresse la maggioranza degl’italiani con le elezioni del 18 aprile 1948, che videro la vittoria della posizione di Gedda e di De Gasperi. Questi ultimi erano gli uomini più significativi del tempo, entrambi uomini d’azione ben radicati in una formazione cattolica.

La loro elaborazione culturale non risaliva alle radici della crisi, ma si preoccupava di dare soluzione ai maggiori problemi del tempo, pur avendo posizioni diverse fra loro. Entrambi furono attaccati da Dossetti e dagli uomini della sua corrente ed è sintomatico notare come tutti i principali personaggi politici democristiani dell’epoca confermino nelle rispettive memorie l’avversità presente nel partito verso i Comitati Civici, che di fatto esercitavano un controllo sul partito stesso nell’interesse dell’elettorato cattolico. Tuttavia l’effetto del 18 aprile finì presto, anzi forse non cominciò neppure.

Già nel 1953 De Gasperi venne sconfitto elettoralmente non riuscendo a raggiungere per pochi voti l’obiettivo del premio di maggioranza alla lista vittoriosa nelle elezioni politiche — la cosiddetta «legge truffa» — e l’anno successivo morì, mentre i Comitati Civici vennero «silenziati», anche se resistettero come presenza e come attività ancora per decenni, nel tentativo di formare una classe dirigente capace d’intervenire nel campo civile, politico, per difendere e promuovere i princìpi della dottrina sociale della Chiesa.

Intanto Dossetti, nel 1951, aveva abbandonato la DC e la politica attiva — fece solo una breve ricomparsa nel 1956 per concorrere, senza successo, alla carica di sindaco di Bologna —, perché riteneva che non si potesse cambiare nulla senza un mutamento culturale e religioso. Fondò così a Bologna, negli anni successivi, l’Istituto di Scienze Religiose [37] e poi partecipò ai lavori del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) come perito al seguito del card. Giacomo Lercaro (1891-1976), arcivescovo di Bologna, diocesi della quale divenne anche vicario generale, essendo stato ordinato sacerdote nel 1959, dopo avere fondato — tre anni prima — la comunità monastica della Piccola Famiglia dell’Annunziata. Ma non abbandonò mai l’interesse e l’attenzione per la politica, mentre la sua corrente, affidata all’on. Mariano Rumor (1915-1990)38, prese il nome di Iniziativa Democratica e divenne quella principale nel partito, che sarà allora guidato da un altro uomo politico cresciuto accanto a Dossetti, l’on. Fanfani.

Ecco perché la sua influenza sul partito rimase forte, mentre cresceva quella culturale e religiosa all’interno del mondo cattolico. La DC conosceva un dossettismo senza Dossetti, come ricorda Saleri, e si trasformava sotto l’impulso di Fanfani, «occupando» lo Stato e svincolandosi dal mondo cattolico attraverso la costruzione di un partito d’iscritti e di militanti, di sezioni e di massa, che aveva sempre meno bisogno dell’Azione Cattolica e delle strutture parrocchiali, e che chiese invano alla gerarchia ecclesiastica lo scioglimento dei Comitati Civici. Nacquero così i presupposti di una crisi morale che sfocerà prima nella secolarizzazione sempre più marcata del partito e poi nella crisi finale di Tangentopoli.

Quest’ultimo episodio, che segnerà la fine della Prima Repubblica e che i nostri autori definiranno un autentico colpo di Stato legale promosso dalla magistratura, poté avvenire soltanto dopo il 1989, in seguito allo smantellamento del Muro di Berlino e alla disintegrazione dell’Unione Sovietica. Ma la fine della DC non spiacque a Dossetti e al suo ambiente, i quali la ritenevano ormai troppo corrotta.

Così, paradossalmente, mentre il comunismo finiva, i suoi adepti in Italia avevano la possibilità di andare finalmente al governo con i cattolici democratici, realizzando l’antico sogno di Dossetti. Ma ciò non avvenne anche e soprattutto per l’iniziativa di Silvio Berlusconi, che dal 1994 divenne il principale ostacolo al progetto dossettiano. Ecco perché il monaco Dossetti uscì allora dalla sua comunità, ruppe il silenzio e fondò nel 1994 i Comitati per la Difesa della Costituzione e tenne a battesimo l’Ulivo, l’alleanza politica fondata principalmente sui cattolici democratici e sugli ex comunisti, dopo le diverse scissioni nella DC e nel PCI.

L’Ulivo, sotto la guida del suo discepolo Romano Prodi, avrebbe vinto le elezioni nel 1996 — e lo farà ancora dieci anni dopo pur con il nome di Unione — lasciando credere che il sogno di Dossetti si stesse veramente realizzando, magari prendendo un corpo definitivo nel Partito Democratico, nato dall’esperienza dell’Ulivo, con le elezioni primarie del 2007.

I problemi di un nuovo partito dopo le ideologie

Attraverso un lungo e tortuoso percorso sono ritornato al punto di partenza delle mie considerazioni. La tortuosità è soltanto apparente perché in realtà vi è un filo conduttore, nella modernità, che in qualche modo unisce la storia della resistenza popolare di molti italiani attraverso gli episodi accennati, cioè le insorgenze antinapoleoniche, il 18 aprile 1948, la «maggioranza silenziosa» e infine la discesa in campo di Berlusconi nel 1994, mentre contemporaneamente esiste un tentativo di altri italiani d’imporre al Paese un progetto ideologico mirante a far uscire l’Italia dalla presunta arretratezza culturale che ha origine nella mancata Riforma e nello spirito controriformistico o tridentino che avrebbe egemonizzato la penisola.

A partire dal modernismo, all’inizio del secolo XX, il tentativo di sradicare il Paese dalle proprie radici penetra anche nel mondo cattolico e arriva fino ai nostri giorni. Le posizioni di Piero Gobetti (1901-1926) e del Partito d’Azione, fondato nel secondo dopoguerra, esprimono la stessa volontà di riformare il Paese, facendolo uscire dall’arretratezza culturale: nasce così la contrapposizione fra l’Italia delusa per la mancata Riforma e in totale sintonia con l’Illuminismo razionalista e deista dei secoli XVIII e XIX, e quella cattolica, legata al Concilio di Trento (1545-1563), mistica e missionaria, che difende le radici cristiane dell’Europa e porta la fede nelle Americhe e che esprime un numero impressionante di santi canonizzati.

Questa contrapposizione prosegue nei secoli successivi, come già visto, davanti all’invasione napoleonica, in occasione delle prime elezioni a suffragio universale maschile nel 1913, con il cosiddetto Patto Gentiloni [39] — così chiamato dal nome del conte Vincenzo Ottorino Gentiloni (1865-1916) —, e poi ancora nel 1915 di fronte all’ingresso nella Grande Guerra, così come il 18 aprile 1948 e di fronte alla contestazione nel 1968. Per arrivare al 1994 e ai nostri giorni.

Naturalmente la semplice resistenza all’imposizione di un progetto ideologico non basta, soprattutto oggi. Se vogliamo cogliere una verità nel pensiero di don Dossetti, la troviamo nella sua considerazione relativa alla fine della cristianità occidentale. Da questa constatazione nasceva il suo progetto astratto, che univa il desiderio di porre fine alla secolarizzazione in atto — Dossetti non ebbe parte ai progetti ideologici nati sulla scia del Sessantotto — attraverso un’alleanza con le forze politiche che avevano egemonizzato il movimento operaio, cioè socialisti e comunisti.

Il fallimento di questa prospettiva, in Italia, con la profonda sconfitta politica del Partito Democratico nelle elezioni del 2008, non deve tuttavia far credere che il processo di scristianizzazione si sia fermato. Esso conosce una situazione politica in cui è più facile tentare una resistenza, così come si è potuto verificare con l’atteggiamento tenuto dal governo di Berlusconi a favore del diritto alla vita di Eluana Englaro nei primi mesi del 2009, ma andare oltre questa resistenza non è compito dei partiti politici. La nuova evangelizzazione ha bisogno di altri attori

Note

1) Cfr. un’analisi dei mutamenti dei partiti italiani in Luciano Bardi, Piero Ignazi e Oreste Massari (a cura di), I partiti italiani. Iscritti, dirigenti, eletti, EGEA, Milano 2007. Cfr. pure una cronaca-testimonianza della «discesa in campo» dell’on. Silvio Berlusconi in Maria Latella, Come si conquista un paese. I sei mesi in cui Berlusconi ha cambiato l’Italia, Rizzoli, Milano 2009; e una cronaca della nascita del PdL in Laura Della Pasqua, La svolta del predellino. Svolta, segreti e retroscena della nascita del Popolo della Libertà, con una Prefazione di Gianni Baget Bozzo (1925-2009), Bietti, Brescia-Milano 2009.

2) Cfr. Paolo Mazzeranghi, Il partito politico moderno, in IDIS. Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale, Voci per un «Dizionario del Pensiero Forte», a cura e con Un «Dizionario del Pensiero Forte» di Giovanni Cantoni e con Presentazione di Gennaro Malgieri, Cristianità, Piacenza 1997, pp. 185-190.

3) Cfr. Paolo Pombeni, Partiti e sistemi politici nella storia contemporanea (1830-1968), il Mulino, Bologna 1994; e Luigi Compagna, L’idea dei partiti da Hobbes a Burke, Città Nuova, Roma 2008.

4) Cit. in Francesco Verderami, Parte la «gioiosa macchina da guerra», in Corriere della Sera, Milano 2-2-1994; cfr. in proposito il mio «Dal PCI al PDS»: le tappe e i contenuti di una metamorfosi rivoluzionaria, in Cristianità, anno XXII, n. 225-226, Piacenza gennaio-febbraio 1994, pp. 5-9.

5) Cfr. G. Cantoni, Fra crisi e «ristrutturazione»: ipotesi sul futuro dell’imperosocialcomunista, in Cristianità, anno XVIII, n. 187-188, novembre-dicembre 1990, pp.13-19, e Idem, Il «problema politico italiano» e il «problema politico dei cattolici italiani»: no al «fronte popolare» versione anni 1990, ibid., anno XXI, n. 223, Piacenza novembre 1993, pp. 3-6.

6) Cfr. il significato di quanto accaduto nel luglio del 1960 a Genova, in Marco Invernizzi e Paolo Martinucci (a cura di), Dal «centrismo» al Sessantotto, Ares, Milano 2007.

7) Richard Nixon, Address to the Nation on the War in Vietnam, del 3-11-1969, in Public Papers of the Presidents of the United States. Richard Nixon. Containing the Public Messages, Speeches, and Statements of the President. 1969, United States Governmente Printing Office, Washington 1971, pp. 901-909 (p. 909).

8) Cfr. Enzo Peserico (1959-2008), Gli anni del desiderio e del piombo. Dal Sessantotto al terrorismo, Sugarco, Milano 2008.

9) Giuseppe Mammarella, L’Italia contemporanea (1943-2007), il Mulino, Bologna 2008, pp. 330-331.

10) Cfr. G. Cantoni, La «lezione italiana». Premesse, manovre e riflessi della politica di «compromesso storico» sulla soglia dell’Italia rossa, con in appendice l’Atto di consacrazione dell‟Italia al Cuore Immacolato di Maria, Cristianità, Piacenza 1980.

11) Cfr., a mia cura, Il 18 aprile 1948. L’«anomalia italiana», Ares, Milano 2007; Luigi Gedda, 18 aprile 1948. Memorie inedite dell’artefice della sconfitta del Fronte Popolare, Mondadori, Milano 1998; e il mio 18 aprile 1948. Memorie inedite dell’artefice della sconfitta del Fronte Popolare, in Cristianità, anno XXVI, n. 281, Piacenza settembre 1998, pp. 13-16.

12) Cfr. la «coriandolizzazione» della società, in CENSIS. Centro Studi Investimenti Sociali, 41° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese 2007. Considerazioni generali, Franco Angeli, Milano 2007, p. 7: «[…] la frammentazione progressiva di tutte le forme di coesione e appartenenza collettiva ha creato una molecolarità che […] sta creando dei “coriandoli”».

13) Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al Convegno promosso dal Partito Popolare Europeo, del 30-3-2006, in Insegnamenti di Benedetto XVI, vol. II, 1, 2006 (Gennaio- Giugno), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006, pp. 382-384 (p. 384), trad. it. in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 31-3-2006.

14) Cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, del 24-11-2002, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2003, trascritto con lo stesso titolo in Cristianità, anno XXXI, n. 315, Piacenza gennaio-febbraio 2003, pp. 8-14; cfr. ibid., G. Cantoni, Le radici dell’ordine morale e il loro riconoscimento nella vita politica grazie all’impegno e al comportamento dei cattolici, pp. 3-7; card. Giacomo Biffi, arcivescovo di Bologna, Cultura cattolica per un vero umanesimo, pp. 15-17; e card. Joachim Meisner, arcivescovo di Colonia, La missione politica del laicato cattolico: per la regalità di Cristo nella postmodernità, pp. 17-19.

15) Cfr. Heinrich Albert Rommen (1897-1967), L’eterno ritorno del diritto naturale, trad. it., con Prefazione di Giovanni Ambrosetti (1915-1985), Studium, Roma 1965.

16) G. Cantoni, L’Insorgenza come categoria storico-politica, in Cristianità, anno XXXIV, n. 337-338, Piacenza settembre-dicembre 2006, pp. 15-28 (p. 28).

17) Cfr. una sintesi, in Oscar Sanguinetti, La Chiesa e le insorgenze popolari controrivoluzionarie, in Franco Cardini (a cura di), Processi alla Chiesa. Mistificazione e apologia, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1994, pp. 373-407; fra le opere di carattere generale, Giacomo Lumbroso (1897-1944), I moti popolari contro i francesi alla fine del secolo XVIII (1796-1800), a cura e con Premessa alla seconda edizione e Bibliografia di O. Sanguinetti, Minchella, Milano 1997, e O. Sanguinetti (a cura di), Insorgenze antigiacobine in Italia (1796- 1799). Saggi per un bicentenario, Istituto per la Storia delle Insorgenze, Milano 2001.

18) Roberto Chiarini, Destra italiana dall’Unità d’Italia ad Alleanza Nazionale, Marsilio, Venezia 1995, pp. 76-77.

19) Ibidem.

20) Ibid., p. 25.

21) Cfr. Nicola Tranfaglia, Vent’anni con Berlusconi (1993-2013). L’estinzione della sinistra, con la collaborazione di Teresa De Palma, Garzanti, Milano 2009.

22) G. Cantoni, Il popolo fra consenso, democrazia e populismo, in Cristianità, anno XXVIII, n. 299, Piacenza maggio-giugno 2000, pp. 3-4 e 30.

23) Cfr. Idem, «Referendum» sulla Procreazione Medicalmente Assistita e ubbidienza all’autorità ecclesiastica, ibid., anno XXXIII, n. 328, marzo-aprile 2005, pp. 17-18.

24) Cfr. Ugo Magri, Berlusconi: io, un monarca ma sull’etica siamo anarchici, in La Stampa, Torino 28-2-2008.

25) Testo in www.ilpopolodellaliberta.it/speciali/carta_valori_pdl.pdf (consultato il 3- 9-2009).

26) Cfr. Alfredo Mantovano, Ritorno all’Occidente. Bloc notes di un conservatore, Spirali, Milano 2004.

27) L’unica eccezione sembra essere l’intervista rilasciata da Francesco Storace, segretario nazionale de La Destra, a Maurizio Giannattasio, Storace: l’ex leader di An si vergogna del passato, in Corriere della Sera, Milano 28-8-2009.

28) Cfr. Francesco Pappalardo, Perché «briganti». La guerriglia legittimista e il brigantaggio nel Mezzogiorno d’Italia dopo l’Unità (1860-1870), Tekna, Potenza 2000, e Il brigantaggio postunitario. Il Mezzogiorno fra resistenza e reazione, D’Ettoris Editori, Crotone 2004.

29) Cfr. Gian Enrico Rusconi, L’azzardo del 1915. Come l’Italia decide la sua guerra, il Mulino, Bologna 2009.

30) Cfr. Ugo Finetti, La Resistenza cancellata, Ares, Milano 2003.

31) Le opere di Pansa sulla Resistenza sono numerose: accanto ai romanzi I tre inverni della paura, Rizzoli, Milano 2008, e Il revisionista, Rizzoli, Milano 2009, lo scrittore ha compiuto un lungo percorso all’interno della Resistenza, storico ma in un certo senso anche personale, scrivendo numerosi saggi che hanno contribuito in modo importante a smitizzarla; cfr. per esempio Idem, Il sangue dei vinti. Quello che accadde in Italia dopo il 25 aprile, Sperling & Kupfer, Milano 2003; La grande bugia, Sperling & Kupfer, Milano 2006; e I gendarmi della memoria, Sperling & Kupfer, Milano 2007.

32) Cfr. Joseph de Maistre, Saggio su il principio generatore delle costituzioni politiche. Studio sulla sovranità, con una Presentazione di don Luigi Negri e un’Introduzione di F. Cardini, Cantagalli, Siena 2000.

33) Cfr. G. Baget Bozzo e Pier Paolo Saleri, Giuseppe Dossetti. La Costituzione come ideologia politica, Ares, Milano 2009; cfr. anche il mio Nota su Dossetti e sul dossettismo, in Cristianità, anno XXV, n. 263, Piacenza maggio 1997, pp. 3-6.

34) Cfr. san Pio X, Enciclica «Il fermo proposito» circa l’istituzione e lo sviluppo dell’Azione cattolica, dell’11-6-1905, in Enchiridion delle Encicliche, vol. IV, Pio X. Benedetto XV. (1903-1922), ed. bilingue, EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1998, pp. 131-145.

35) Cfr. Maria Bocci, Oltre lo Stato liberale. Ipotesi su politica e società nel dibattito cattolico tra fascismo e democrazia, Bulzoni, Roma 1999, e Idem, Agostino Gemelli rettore e francescano. Chiesa, regime, democrazia, Morcelliana, Brescia 2003.

36) Cfr. Paolo Pombeni, Le «Cronache sociali» di Dossetti. Geografia di un movimento di opinione 1947-1951, Vallecchi, Firenze 1976.

37) Cfr. Giuseppe Alberigo (1926-2007) (a cura di), L’«officina bolognese» 1953-2003, EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 2004.

38) Cfr. Mariano Rumor, Memorie 1943-1970, a cura di Ermenegildo Reato e Francesco Malgeri, introduzione di Gabriele De Rosa, Neri Pozza, Vicenza 1991.

39) Cfr. il mio L’Unione Elettorale Cattolica Italiana. 1906-1919. Un modello di impegno politico unitario dei cattolici. Con un’appendice documentaria, Cristianità, Piacenza 1993.