Fecondazione e diritti

per Rassegna Stampa

University Hospital of Walesdi Gianfranco Amato

(Presidente di Scienza e Vita di Grosseto)

Facili profeti sono stati coloro che ammonivano sui rischi etico-giuridici che sarebbero potuti derivare dal ricorso alla fecondazione in vitro. L’ultimo caso clamoroso giunge, tanto per cambiare, dal Regno Unito.

Una coppia non più giovanissima, Deborah e Paul, si rivolge all’University Hospital of Wales di Cardiff per “regalare una sorellina” al proprio figlio di 6 anni, anch’esso ottenuto attraverso la fecondazione medicalmente assistita.

Dopo vari tentativi falliti, Deborah, ormai quarantenne, ha la possibilità di diventare madre attraverso l’impianto dell’ultimo degli embrioni rimasti. Del tutto inaspettatamente, però, la Direzione della clinica le comunica la ferale notizia: l’embrione, a causa di un incidente di laboratorio, è stato gravemente danneggiato. Pochi giorni dopo viene scoperta una diversa e drammatica verità.

L’embrione, in realtà, era stato impiantato per errore nell’utero di un’altra donna, errore che è costato la vita ad un essere innocente. Sì, perché quella donna, avvertita del disguido,  ha poi deciso di abortire.

La clinica si è scusata ed ha offerto a Deborah un ciclo gratuito di trattamenti per ritentare l’inseminazione artificiale, ottenendo la comprensibile risposta di un secco no, unitamente ad una citazione per danni.

Questa incredibile vicenda apre inquietanti interrogativi morali e giuridici.

Qual è, per esempio, la motivazione con cui è stata autorizzata la soppressione dell’embrione impiantato per errore? Anche un incidente di laboratorio può ora assurgere a criterio per eliminare un essere innocente? Quali sono i diritti dei genitori biologici di quell’embrione? E’ giusto non averli messi al corrente della soppressione? Si può davvero ridurre tutto, come è accaduto, ad un semplice risarcimento di danno? Si sarebbe forse potuto tentare di salvare una vita innocente consentendo, almeno, la possibilità di proporre una maternità surrogata? La donna che ha abortito, se messa al corrente delle circostanze, avrebbe forse accettato di portare a termine la gravidanza e consentito a Deborah e Paul di avere un figlio? Si può davvero disporre di embrioni con tale disinvoltura, all’insaputa dei genitori naturali?

Tali interrogativi mostrano che quando la scienza corre più velocemente della ragione e del cuore dell’uomo si dischiudono scenari inimmaginabili.

Ma, del resto, è lo stesso principio della fecondazione in vitro che è messo in discussione.

Una visione consumistica della vita, in cui dilaga ogni forma di egoismo interiore, fatica a percepire che paternità e maternità non possono essere ridotti ad un mero fenomeno biologico, e che l’uomo è, in realtà, capace di una fecondità infinitamente più grande di quella carnale.

Non può esistere un “diritto” di avere figli a ogni costo. Questo assunto non deriva né da una concezione religiosa né da una prospettiva politica, è semplicemente una questione antropologica legata al senso stesso della vita di ogni essere umano, in quanto ciascun essere umano è inevitabilmente madre, padre o figlio, ed al nesso tra questo senso e il significato di tutto, di ogni rapporto con la realtà.

«È per questo» come scriveva don Luigi Giussani «che un uomo e una donna che non hanno figli e che ne adottano sono veramente padri e madri nella misura in cui educano un figlio. Molto più della grande maggioranza che getta fuori dal ventre il figlio e non si cura del suo destino». Ma di questa “tecnica” così poco scientifica, così poco costosa e così profondamente umana parlano in pochi.