Sui temi etici si combatte una battaglia culturale oltre che politica

Roccella

Eugenia Roccella

L’Occidentale, 24 Febbraio 2008

intervista a Eugenia Roccella

di Paola Liberace

È passato qualche giorno dall’ufficializzazione della candidatura di Eugenia Roccella nelle liste del Popolo della Libertà  ma sembra che la sua campagna elettorale sia già nel vivo.

Ex radicale, femminista, portavoce del Family Day. Ti riconosci in questa definizione, considerando che mentre tu sei nel PdL i radicali sono freschi di accordo con Veltroni, il femminismo è finito nel motto della Sinistra critica di Turigliatto insieme all’ecologismo e al comunismo, e Savino Pezzotta è presidente della Rosa Bianca?

Per quel che riguarda i radicali, non mi riconosco più in loro da moltissimo tempo, da quando ho lasciato il partito. (Ma non avevi detto che “essere radicali è un metodo che resta per sempre”? “un metodo, appunto, non un’ideologia” ). Non so poi a quale femminismo si riferisca Turigliatto.

La galassia femminista è molto ampia: in genere la sinistra tende ad essere schiacciata su un’impostazione emancipazionista, egualitaria, che non coincide con quella del femminismo italiano, orientato storicamente piuttosto al pensiero della differenza. In quest’ottica, l’emancipazionismo non si può veramente definire una forma di femminismo, sebbene venga solitamente identificato come tale.

Il legame con l’ecologismo potrebbe anche calzare (con il comunismo già meno): se non fosse che in Italia chi si schiera nettamente contro gli OGM è poi disposto a transigere su quelli che io chiamo i BGM, i bambini geneticamente modificati. Come dire: grande cautela sui pomodori, nessuna cautela sulla procreazione umana. In alltri paesi accade il contrario: gli ecologisti tedeschi hanno manifestato la loro solidarietà in occasione delle polemiche sulla nostra legge 40. “

E da noi Veltroni  fa entrare i radicali nel Pd. Che significato politico ha?

Qualunque sia l’esito della trattativa con il Pd, Pannella è già riuscito a mettere Veltroni in un angolo. Le candidature proposte dai radicali hanno ciascuna un significato e un obiettivo preciso: Mina Welby, l’eutanasia, Maria Antonietta Coscioni, la ricerca fondata sulla distruzione di embrioni umani, Silvio Viale, l’aborto fai-da-te, Maurizio Turco, la campagna europea contro la Chiesa.

Il tentativo del Pd di tenere i temi etici ai margini dalla campagna elettorale è già fallito: non è la presenza dei radicali a rendere la vita difficile ai cattolici del Pd, ma la volontà politica di Pannella, evidente nella proposta delle candidature, di far entrare dalla finestra, attraverso i nomi dei candidati, le questioni che Veltroni ha cercato di chiudere fuori dalla porta. A questo punto, conta poco cosa sarà scritto nel programma: non credo che Mina Welby o Silvio Viale in Parlamento si occuperanno di liberalizzazioni.

Questo a sinistra. Ma ora più che in passato si deve parlare della politica del centro. Tu e Pezzotta dopo il Family Day avete preso strade opposte. Secondo te nel mondo cattolico si continua a pensare a soggetti politici come la Rosa Bianca o l’UdC come interlocutori privilegiati?

No, non lo credo affatto: la diaspora dei cattolici nei vari partiti è ormai un dato acquisito. La CEI bada piuttosto che i cattolici impegnati in politica siano fedeli alla dottrina sociale della Chiesa, senza interpretarla con eccessivo margine discrezionale. L’essenziale è che i candidati che si richiamano al cattolicesimo non siano poi disposti a transigere sui valori non negoziabili: che non lascino correre sui temi eticamente sensibili, su quelli sociali, sull’emergenza educativa. Non vedo un’ingerenza della Chiesa sui partiti, piuttosto una preoccupazione reale sulle questioni di riferimento, quelle che le stanno più a cuore.

Berlusconi ha detto che la battaglia di Giuliano Ferrara doveva restare fuori dalla campagna elettorale. Qual è invece la tua battaglia, e perché nel PdL è stata la benvenuta?

In realtà anche Ferrara sarebbe stato il benvenuto, se avesse voluto condurre la sua battaglia nel Pdl.  Ha preferito presentare una lista di scopo, con parlamentari eventualmente eletti per un mandato preciso. Ma è una separazione parziale: la nostra è una battaglia “sorella”, come l’ha definita lui, e ci ritroveremo nei fatti.

Per me la questione dell’aborto è una parte della battaglia: quando ho lanciato la campagna per le linee guida della legge 194 volevo anzitutto che l’invito ad applicarla nella sua interezza diventasse una proposta articolata. Per questo non ho nulla da dire a quanti (la Federazione degli ordine dei medici, ndr) affermano che quella legge è una legge che va ancora bene purché venga attuata in tutte le sue parti.

Quali parti, in particolare?

Penso soprattutto alla prima parte della legge, che parla di prevenzione; penso al sostegno alle maternità difficili; penso all’applicazione dell’art. 7, che prevede il divieto di abortire quando  il feto  abbia ormai “possibilità di vita autonoma”,. Saggiamente, la legge non esplicita qual è il limite temporale, per poter seguire le acquisizioni scientifiche sulla sopravvivenza dei neonati prematuri; ma questo non può voler dire che ogni regione interpreta la cosa a suo modo, serve un’indicazione ministeriale centralizzata che preveda un limite unico per tutte le strutture che praticano l’interruzione di gravidanza.

D’altro canto, c’è il complesso dei temi eticamente sensibili, sui quali credo la politica non possa e non debba tacere. Vorrei che sull’aborto si inneschi un dibattito pubblico in cui emerga forte e chiara la voce delle donne; d’altra parte, l’aborto è solo una delle questioni in gioco, il problema è molto più vasto.

I temi sono molto più che etici: preferirei chiamarli temi di biopolitica, perché ormai c’è in ballo una vera e propria manipolazione dell’umano, impossibile da fronteggiare armati della sola libertà di coscienza, come vorrebbe chi invita a lasciarli fuori dalla campagna elettorale.

Problemi simili implicano una visione antropologica, che riguarda l’uomo com’è e come vogliamo che sia. La questione dei confini della vita e della morte, che pure c’è, si staglia su una domanda di fondo: fin dove si può spingere la manipolazione delle relazioni primarie che fondano la convivenza degli uomini?

Ormai in molti paesi è legale avere due madri; tecnicamente è possibile persino avere tre madri (una donatrice di ovocita, una che affitta l’utero e la cosiddetta “madre sociale”) oppure nessuna. La terminologia genitoriale è del tutto cambiata: i tradizionali “madre e padre”, dopo essere scomparsi dai testi degli organismi internazionali, come l’ONU e l’Unione Europea, sono spinti ai margini anche nella prassi dei singoli paesi: dalla Spagna che introduce i concetti di “genitore A” e “genitore B”, alla Gran Bretagna dove si parla di “guardian” e “tutor”.

La stessa sperimentazione sul concepimento di bambini con due madri è una novità solo dal punto di vista tecnico: di fatto esistono già bambini portatori del patrimonio genetico di due donne, che non prestano l’una l’utero e l’altra l’ovocita, ma forniscono entrambe il loro corredo genetico, grazie alla manipolazione dell’ovocita.  Dove vogliamo arrivare?

Ma una politica davvero liberale può occuparsi di questioni simili e tuttavia restare tale?

La politica liberale deve anzitutto sapere cos’è l’individuo. Pensiamo a quello che è accaduto nel parlamento inglese, in occasione del dibattito sulla questione delle “chimere” – embrioni interspecie umani al 99%, ibridati con ovociti di mucca -. Per stabilire le competenze delle varie Authority sulla faccenda, i parlamentari sono giunti a discutere di cosa fosse l’umano.

Finendo per impantanarsi, com’è logico: perché una volta abbandonata l’evidenza originaria, legata alla procreazione naturale e ai concetti di padre e madre, trovare una definizione tecnica soddisfacente di “umano” diventa impossibile.

In generale, quando si sente il bisogno di ricorrere a una definizione – vale per il concetto di “genitore” come per quello di “embrione umano” – si è già in un vicolo cieco. Non tutto può essere ridotto a convenzione: anche se abbiamo difficoltà culturali nei confronti dell’ancoraggio naturale dell’identità umana, non possiamo abbandonarlo senza rinunciare alla stessa prospettiva liberale.

L’approccio dei diritti individuali di fronte a questo scenario si rivela insufficiente, se il concetto stesso di individuo umano è in discussione. La selezione genetica operata nei confronti delle generazioni future svela un enorme problema di potere, che oltrepassa di gran lunga i limiti del diritto individuale, tracima la categoria della “libera scelta”: un pensiero autenticamente liberale non può permettersi di ignorarlo.

Di quali iniziative sarà fatta la tua politica liberale in Parlamento?

Prima di tutto, di iniziative per la famiglia. A partire dall’equità fiscale: oggi c’è una vessazione nei confronti delle famiglie, in particolare quelle con più figli, che tradisce il mancato riconoscimento del ruolo che le famiglie rivestono, sostituendosi di fatto allo Stato sociale. Il risparmio che l’organizzazione familiare consente allo Stato è incalcolabile, e va quantificata concretamente.

In secondo luogo, di provvedimenti per la valorizzazione culturale e sociale della maternità: dal sostegno alle maternità difficili, all’organizzazione di servizi di supporto psicologico e pratico per le puerpere, che dopo il parto restano inevitabilmente sole. Con la scomparsa delle antiche famiglie allargate, di fatto, si è lacerato il tessuto connettivo che permetteva di fare affidamento sulle altre figure femminili – dalle nonne alle zie -, specialmente in un momento delicato come quello che coincide con i primi giorni di vita del bambino.

In Francia a questa mancanza sopperisce un servizio di assistenza domiciliare qualificata, a disposizione delle donne che ne abbiano bisogno: penso a qualcosa di analogo anche per il nostro paese. Infine, gli interventi sulla dimensione lavorativa: oggi nel nostro paese, che conosce a malapena il part-time, le donne devono costruirsi una flessibilità fai da te, specialmente se hanno bambini da allevare o anziani da accudire.

Io stessa ho fatto questa scelta anni fa, a discapito di un lavoro stabile e dei contributi: è la via obbligata per chi di noi voglia dedicarsi anche al lavoro extradomestico, nell’ottica di un mondo lavorativo ancora largamente orientato al maschile, nel quale le donne si adeguano, o restano a casa.

Le donne sono alla ricerca di una flessibilità che non sia penalizzante, con tempi e modi compatibili con la maternità: che non deve, non può essere un lusso privato, come accade oggi in Italia, dove la maternità si paga, sia in termini di reddito che di carriera.

Infine, mi occuperò dei temi biopolitici, tra i quali rientrano la legge 40, la selezione genetica, l’applicazione della legge sull’aborto. In realtà sono tutti strettamente interconnessi: se l’obiettivo è ridurre il numero degli aborti, il sostegno alle maternità difficili diventa imprescindibile.

Qualche tempo fa hai detto al Foglio che ti eri allontanata dalla politica per essere madre, moglie, figlia e nipote. Oggi perché torni?

Per quindici anni ho cercato di dedicarmi a un lavoro extradomestico il più possibile compatibile con il lavoro di cura; ma da quando le persone di cui mi occupavo non ci sono più, o sono cresciute, sono tornata a intensificare la mia attività pubblica. Una volta ascoltai da Gad Lerner una badante di origine africana raccontare quanto le sembrasse strano che le donne italiane oggi affidano alle straniere ciò che hanno di più prezioso, i figli e gli anziani.

A me non sembra strano, anzi: capisco benissimo perché cerchino aiuto, visto che fanno l’impossibile per tenere insieme tutti i lembi della loro vita. Ma per quanto asili nido, baby sitter e badanti siano supporti utili, non spengono il desiderio di avere i figli vicini, di poter stare accanto ai propri genitori negli ultimi momenti. Se oggi torno a fare politica è anche per permettere alle donne che sentono questo desiderio, che è stato anche il mio, di non reprimerlo, di assecondarlo il più possibile senza rimpianti.

(A.C. Valdera)