La resistenza cannibale

don Icardi

don Virginio Icardi

pubblicato su Avvenire del 19 febbraio 2004

INCHIESTA/7 In più casi la lotta per la liberazione non ha avuto pietà dei suoi stessi aderenti. È successo anche in Piemonte, dove almeno una dozzina di preti (alcuni erano cappellani delle formazioni ribelli) vennero assassinati per odio di parte politica Ecco le loro storie

di Roberto Beretta

Il frate fu ucciso dai suoi. Padre Squizzato militava in un gruppo antifascista e fu attirato in una trappola dai «colleghi» comunisti. Forse perché aveva deciso di smettere con la clandestinità

Frate, cappellano militare degli alpini, quindi partigiano militante; eppure massacrato dagli stessi partigiani. È possibile? La vicenda di padre Eugenio Squizzato è emblematica di quanto la contrapposizione ideologica, forse l’odio, seppero sovrapporsi agli ideali della lotta per la libertà e la democrazia.

Padre Squizzato era un semplice francescano veneto, partito per il fronte come tanti altri cappellani militari; se aveva una particolarità, era quella che la sua famiglia – ben 16 figli, di cui due divenuti sacerdoti e due suore – si meritò un paio di colonne nella cronaca di un giornale come detentrice del record di fratelli arruolati contemporaneamente: ben 7. Padre Eugenio, nato a Piombino Dese (Pd) nel 1915, era il più giovane; fu mandato come cappellano degli alpini a Mondovì nel 1941, quindi in Croazia e infine in Francia: dove l’ha colto l’8 settembre.

Ma il frate – che non possa farlo oppure non ritenga evangelico abbandonare i suoi commilitoni – non rientra al convento. Negli archivi francescani sono rimasti alcuni dei rari biglietti che riusciva a inviare ai superiori; per esempio questo del gennaio 1944: «Mi fu scritto che voi siete in pensiero per me, cioè per la mia sicurezza corporale e molto più per la mia vocazione sacerdotale. Molte cose qui mi è impossibile riferirle… Circostanze impensate mi hanno messo nella condizione di dover continuare la mia missione. Quindi non attribuite a mancanza di volontà o di vocazione il mio ritardato ritorno. Appena sarò libero, non solo ritornerò, ma volerò».

Anche altra corrispondenza testimonia con le sue stesse reticenze che padre Eugenio era entrato nella clandestinità delle montagne piemontesi, probabilmente al seguito di compagni d’arme collegatisi alla resistenza. Secondo una relazione compilata dopo la morte del francescano, era un colonnello dell’aviazione – con legami nelle alte sfere repubblichine – a indirizzare da Ciriè i movimenti di quella formazione, che si era acquartierata a Piano d’Audi (una località sopra Corio Canavese).

A novembre 1943 tuttavia i tedeschi sferravano un’offensiva nella zona e disperdevano il gruppo. Pare che padre Squizzato riparasse a Forno Canavese con altri, comandati dal maggiore degli alpini Nicola, e che ne sia seguito un periodo di tacita non belligeranza con i nazifascisti. A Corio però operava un’altra formazione partigiana, diretta da un comunista slavo. Fu lui, il 13 aprile 1944 – era appena passata la Pasqua -, a invitare il maggiore Nicola a un abboccamento per riunire le forze dei due gruppi.

Era invece un tranello. Il militare si presentò all’incontro, in un’osteria presso il Ponte dell’Avvocato a Corio, accompagnato da padre Squizzato e da un sergente. Alla fine del pranzo – sostiene la relazione – fu provocato un diverbio, durante il quale i comunisti estrassero le armi ed uccisero sia il maggiore Nicola che il francescano.

Un’altra versione dei fatti sostiene che il duplice assassinio fu dovuto invece alla voce che sia il comandante, sia il religioso avevano espresso il desiderio di smobilitare e tornare alle loro case, per cui i partigiani decisero di sopprimere prima l’ufficiale e quindi – la notte tra il 15 e il 16 aprile, quando il frate si mosse per cercarne il corpo – anche il cappellano, a pugnalate in un bosco.

Tanta discordanza di versioni forse oggi stupisce; ma all’epoca persino i confratelli dovettero spedire un frate a condurre di persona un’indagine sul posto per saperne di più. Del resto, l’unica sorella ancora vivente di padre Squizzato ricorda soltanto di aver visto la salma del fratello – che dopo la guerra sarà traslata a Piombino Dese (la città natale ha dedicato anche una piazzetta al martire)- col volto fasciato attraverso una finestrella praticata nella bara; e il solo documento che conserva di lui è un «certificato patriottico» del Cln che testifica la partecipazione del frate alla resistenza dal 9 settembre 1943. Partigiano dunque, e ucciso dai partigiani.

Da parroco a «bandito»

Don Icardi lasciò la veste per la lotta armata. Idealista e generoso, favoriva lo scambio di prigionieri tedeschi Ma probabilmente tale impegno umanitario gli costò la vita Un prete morto con le armi in pugno. Un partigiano ucciso dai partigiani. Un uomo della Resistenza sepolto in un cimitero «repubblichino».

Chi fu davvero don Virginio Icardi? Non è stato semplice nemmeno per i contemporanei dipanare la vicenda umana di questo sacerdote piemontese, classe 1908, diocesi di Acqui; figurarsi per noi, che disponiamo di versioni lontane nel tempo e contrastanti ideologicamente. «Esuberante, idealista, generoso, forse la vita chiusa di un ambiente ristretto non gli si addiceva», scrive lo storico e confratello monsignor Giovanni Galliano; «Amante della vita movimentata, quasi avventurosa, dopo l’8 settembre in una lettera inviata al suo vescovo esprimeva il desiderio di partecipare alla lotta», annota l’articolo di un periodico di destra.

Di certo don Icardi era parroco a Squaneto, presso Spigno Monferrato, da ormai una decina d’anni quando l’armistizio venne a disorientare gli animi anche nella sua remota canonica. Per alcune fonti furono i nazifascisti i primi a creargli difficoltà, inducendolo a lasciare la casa parrocchiale; secondo altri invece fu lui a «trasformare la parrocchia in luogo di ritrovo dei partigiani». Per cui, il 21 maggio 1944, di fronte all’ispezione di una pattuglia tedesca che bussa alla sua porta, il sacerdote si spaventa e fugge da una finestra sul retro, dandosi alla macchia. È il vescovo a interessarsi presso il comando tedesco perché don Icardi possa rientrare alla sua chiesa.

I contatti coi partigiani tuttavia continuano, anche per promuovere lo scambio di prigionieri tra le due parti in lotta, finché all’inizio di ottobre don Icardi non decide di lasciare la parrocchia e fors’anche la veste per mettersi a capo di una banda di partigiani. «Richiamato ed invitato varie volte dal vescovo – scrive monsignor Galliano -, il suo sbaglio fu quello di non aver risposto e non essersi incontrato» con lui.

Qui ancora una volta le notizie divergono: per gli uni l’attività del prete (che assume il nome di battaglia di «Italicus») consiste in azioni «brigantesche», nel corso delle quali «molestava armi alla mano i parroci della zona», assaltava treni alla stazione di Spigno e ne depredava i viaggiatori, mettendo con tutto ciò le popolazioni del luogo a rischio di rappresaglie; per gli altri invece (o insieme, chissà) «fu merito suo se si poterono liberare i 42 prigionieri di Malvicino e Roboaro, incarcerati e destinati alla fucilazione se non fossero stati liberati i tre ufficiali tedeschi catturati sul ponte di Cartosio… Fu don Icardi ad ottenerne la liberazione».

Fu quest’ultimo gesto di generosità troppo umanitaria, agli occhi di altri partigiani, a risultargli fatale? Pare che lo stesso sacerdote l’abbia confidato a un confratello. Altre versioni sostengono invece che i componenti della banda di «Italicus» si siano stancati del suo modo d’agire, in particolare abbiano perso la fiducia nel comandante allorché gli venne affidato un ufficiale repubblichino prigioniero e il sacerdote se lo lasciò scappare. Di fatto la sera del 2 dicembre 1944, ad appena due mesi dal suo passaggio in clandestinità, don Icardi fu ucciso a revolverate in strada presso Pareto da tre compagni che l’avevano accompagnato in visita al parroco di quella località.

Il corpo venne trovato il giorno dopo e deposto in una cappellina di campagna. Intervenne poi il generale della Rsi Amilcare Farina il quale, forse indotto a ciò dal fatto che il sacerdote fosse stato assassinato dai partigiani, lo fece trasferire nel cimitero delle vittime della guerra civile ad Altare; anche il vescovo si recò laggiù a rendere omaggio al suo irrequieto sacerdote, mentre a celebrarne le esequie fu il cappellano di una formazione militare repubblichina. Strano fino in fondo il destino di un prete che sembra riunire, nella sua stessa persona, le contraddizioni della resistenza.

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Le altre puntate dell’inchiesta:

1 – Stragi partigiane: il triangolo dei preti

2 – Partigiani all’assalto del don

3 – Ombre rosse in canonica

4 – E Peppone sparò a don Camillo

5 – Brigate contro il Biancofiore

6 – Falce & coppola, la repubblica del Sud

8 – Quei preti martiri del 18 aprile

Nota: Leggi anche:

Dimenticati Paolo De Marchi, Il Timone – n. 11 Gennaio/Febbraio 2001

Una pagina rimossa della nostra storia. Centinaia di cattolici, sacerdoti e laici, uccisi dai partigiani comunisti nell’immediato dopoguerra. In odio alla fede e alla Chiesa. I testimoni tacciono. I libri di testo nascondono la verità. Viltà, paura o complicità?