La verità sulle unioni civili. Domande e risposte per capire meglio il ddl Cirinnà

unioni civiliTempi 23 gennaio 2016

Cosa sono e come si differenziano dal matrimonio? Davvero “ce le chiedono Bruxelles e la Corte costituzionale”? La stepchild adoption apre all’utero in affitto?

di Giancarlo Cerrelli

A pochi giorni dall’inizio della discussione, presso l’aula del Senato, del disegno di legge sulle unioni civili, è opportuno fare chiarezza su molti luoghi comuni, che, purtroppo, sono accettati come veri da molti italiani.

Che cosa sono le unioni civili tra persone dello stesso sesso così come previste dal disegno di legge che sarà discusso dalla fine di gennaio presso il Senato?

Le unioni civili tra persone dello stesso sesso sono una costruzione giuridica di dubbia costituzionalità e connotata da una forte valenza ideologica, con la quale s’intenderebbe dare rilevanza giuridica al rapporto affettivo tra due partner dello stesso sesso, con una disciplina simile a quella prevista per il matrimonio.

Quali sono i punti salienti del disegno di legge sulle unioni civili?

Per la costituzione di un’unione civile sarà necessaria la celebrazione di un rito davanti all’ufficiale di Stato civile, alla presenza di due testimoni e si renderà una promessa di impegno, così come nel matrimonio. Si darà, dunque, lettura degli articoli del codice civile da cui deriverà l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione, come nel matrimonio. I “civiluniti”, altresì, potranno stabilire di assumere un cognome comune scegliendolo tra i loro cognomi; avranno il diritto alla pensione di reversibilità del partner, godranno del medesimo regime patrimoniale e successorio che il codice civile riconosce ai coniugi e come se ciò non bastasse il disegno di legge stabilisce che tutte le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi», in qualsiasi disposizione legislativa ricorrano, si applicheranno anche a ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso.

L’equiparazione, però, tra unioni civili e matrimonio non solo è inopportuna e ingiusta, ma è anche dannosa, poiché la creazione giuridica di nuovi modelli “familiari” apre la strada a una ridefinizione del concetto di famiglia che depotenzia la vera famiglia: tante famiglie, nessuna famiglia. La norma, tuttavia, più controversa e inaccettabile del disegno di legge è quella che prevede la cosiddetta stepchild adoption, cioè l’adozione del figlio naturale o adottivo del partner omosessuale.

Quali sono le differenze tra le unioni civili e il matrimonio?

Sostanzialmente nessuna. Il disegno di legge, di fatto, fa continui rimandi alla disciplina che il nostro ordinamento prevede per il matrimonio. Nel disegno di legge, l’unione civile – con il pretesto di differenziarla dal matrimonio – è definita come “specifica formazione sociale”; tale definizione, però, è soltanto un elemento di facciata, perché nella sostanza la disciplina che il disegno di legge prevede per le unioni civili è identica a quella del matrimonio. Il testo che sarà all’esame del Senato, pur non prevedendo formalmente l’adozione piena, prevede come detto l’adozione del figlio naturale o adottivo del partner omosessuale. Tale istituto è inaccettabile non solo perché rafforza il business della fecondazione eterologa e apre la strada alla vergognosa pratica dell’utero in affitto, che in alcuni paesi è, purtroppo, ammessa. Ma soprattutto perché non tiene conto di quei bambini che non potranno godere della ricchezza che si è soliti ricevere dal crescere in un rapporto di complementarietà e differenza di ruoli che la natura ha voluto indicare in una famiglia costituita da un padre e una madre.

Quale scopo ha questo disegno di legge?

I promotori del disegno di legge sulle unioni civili affermano che il loro scopo è di far riconoscere alle coppie omosessuali gli stessi diritti di cui godono le coppie eterosessuali coniugate, così da rimuovere un’inaccettabile disparità di trattamento. Tale rivendicazione può apparire a molti, anche ad alcuni cattolici, innocua e persino giusta; invero tale pretesa, che non è una priorità, è profondamente iniqua e nasconde, altresì, un fine ideologico e simbolico. Infatti, essa tutela esclusivamente i desideri degli adulti, senza tener conto dei diritti dei bambini, cui è negato il diritto più naturale di questo mondo: quello di avere per genitori un padre e una madre. È triste costatare la chiara visione adultocentrica del progetto di legge. Alle coppie omosessuali si vuole dare l’agio, per via legislativa, di procurarsi un figlio. È qui chiara ed evidente la pretesa simbolica e ideologica di tali unioni. D’altra parte, chi promuove le unioni civili rifiuta categoricamente un’attribuzione ai conviventi omosessuali di meri diritti individuali – diritto all’assistenza del convivente in ospedale, in carcere e così via, già ampiamente riconosciuti dall’ordinamento giuridico – mentre esige che siano riconosciuti i medesimi diritti propri del matrimonio alle coppie omosessuali, in quanto coppie.

Che cosa cela tale pretesa simbolica e ideologica di uguaglianza?

Dietro a tale richiesta di uguaglianza si cela l’intento di voler decostruire le basi antropologiche, finora fondamento della società, per ricostruirle su basi che intendono un diritto non più orientato alla lettura del reale, ma come strumento per trasformare la realtà; che giunge a considerare diritti dei meri desideri. Il disegno di legge sulle unioni civili omosessuali risponde a un desiderio emulativo nei confronti delle coppie eterosessuali. I rapporti omosessuali ed eterosessuali, però, sono antropologicamente diversi e il diritto dovrebbe tenerne conto. Il diritto, infatti, tutela interessi sociali, non rapporti affettivi, altrimenti tutti i legami di amicizia dovrebbero essere legittimamente tutelati dall’ordinamento giuridico. Il vincolo matrimoniale è storicamente tutelato perché funzionale all’ordine delle generazioni.

La vera ragione per cui il nostro ordinamento giuridico dà rilevanza al matrimonio, non è per il fatto che due persone provino affetto l’una per l’altra, ma perché un’unione matrimoniale è potenzialmente feconda e crea un sistema di educazione e inserimento sociale delle nuove generazioni. La tutela giuridica di cui godono le coppie coniugate a differenza delle unioni omosessuali non può essere considerata una discriminazione, in quanto le due fattispecie rispondono a due situazioni differenti, che non possono essere trattate in egual modo, pena il commettere una profonda ingiustizia nei confronti dell’unica famiglia riconosciuta dal nostro ordinamento giuridico.

Un’approvazione del disegno di legge sulle unioni civili senza l’art. 5 che prevede la stepchild adoption sarebbe accettabile?

Un’approvazione del disegno di legge con lo stralcio della stepchild adoption o con la previsione dell’affido rafforzato non sarebbe accettabile, perché non muterebbe il carattere ideologico del provvedimento, che, peraltro, manterrebbe la struttura di un simil-matrimonio. Infatti: a) Saremmo di fronte a una vera e propria ingiustizia di dubbia costituzionalità, perché due fattispecie strutturalmente differenti come unioni civili e matrimonio, sarebbero disciplinate in egual modo pur essendo ontologicamente diverse. b) L’adozione, anche nel caso in cui non dovesse essere inserita in prima battuta nel disegno di legge, tuttavia non tarderebbe a essere riconosciuta legittima dalle corti di giustizia, com’è avvenuto anche in altri Stati. Due fattispecie analoghe, aventi la medesima disciplina, come il matrimonio e il disegno di legge sulle unioni civili, non potrebbero, a giudizio delle corti, essere trattate in modo differente e dunque in poco tempo le unioni omosessuali verrebbero in tutto a essere equiparate al matrimonio, anche riguardo all’adozione piena. Differente sarebbe il caso in cui il Parlamento approvasse un testo unico ricognitivo di tutti i diritti che il nostro ordinamento già riconosce ai conviventi, compresi quelli omosessuali.

Perché si teme che la stepchild adoption possa aprire la strada all’abominevole pratica dell’utero in affitto?

Perché ne è un’immediata conseguenza. In Italia l’utero in affitto è vietato dalla legge 40, ma non lo è in altri paesi. Com’è accaduto più di una volta in Italia, sono stati proprio i giudici a non punire chi è tornato dall’estero con il bimbo in braccio, frutto di un utero in affitto. Nel momento in cui ci si trova di fronte a casi di utero in affitto, il reato contestato dalle procure è solitamente l’alterazione di stato civile del minore, cioè l’aver dichiarato falsamente di essere genitori del piccolo; tuttavia i giudici prevalentemente hanno più volte ritenuto che non fosse configurabile il reato di alterazione di stato civile quando i coniugi avessero sottoscritto l’atto di nascita ottenuto nel paese estero, in qualità di genitori.

Come ho detto sopra, infatti, saranno proprio le corti di giustizia ad ammettere ciò che il legislatore non avrà ritenuto di prevedere. Basti pensare ad alcuni orientamenti giudiziari di apertura verso la pratica dell’utero in affitto, che auspicano – vedi Tribunale di Napoli del 17 luglio 2015 – che siano ammessi in Italia «progetti di genitorialità privi di legami biologici con il nato» diversi dall’adozione; ovvero la sentenza del tribunale di Varese del 7 novembre 2014 che sostiene che è divenuto irrilevante il metodo di concepimento e che dunque le false dichiarazioni rese dai falsi genitori a un pubblico ufficiale siano da ritenersi un danno innocuo e quindi non punibile.

Tutto ciò consentirà a due partner omosessuali di “procurarsi” facilmente un figlio. Vediamo come: uno dei partner omosessuali di un’unione civile si “procurerà” un figlio all’estero, comprando l’utero di una donna, poi una volta giunto in Italia con il bimbo, tramite la stepchild adoption, consentirà al proprio partner di diventare genitore adottivo. Certamente interverrà il controllo dei giudici, ma tale controllo invece di tranquillizzare preoccupa, perché se già ora che non vi è una legge che prevede la stepchild adoption alcuni tribunali (vedi ad esempio quello dei minori di Roma e Corte d’Appello di Roma) hanno ammesso l’adozione del figlio del partner omosessuale, figuriamoci cosa accadrà nel momento in cui vi sarà una base normativa di riferimento, che ammetterà la stepchild adoption. Il criterio ermeneutico “the best interest of the child”, ossia il superiore interesse del minore, che è alla base dell’istituto dell’adozione, sarà gravemente disatteso. La stepchild adoption sarà una scorciatoia legislativa per far giungere velocemente all’adozione i “civiluniti” aggirando la disciplina prevista dalla legge 184/1983.

Che peso hanno le corti di giustizia in tutto questo?

Hanno un peso notevole. Molte sentenze stanno riscrivendo il diritto di famiglia con lo scopo di privatizzare e rendere sempre più fluidi i rapporti familiari, così da favorire l’avvento di una “famiglia on demand” in cui si potrà scegliere di entrare e uscire a piacimento quante volte si vorrà da un tipo di famiglia che si potrà scegliere tra una varietà di modelli, in base ai propri desideri e ai propri gusti sessuali. Alcuni giudici si sentono artefici del cambiamento sociale facendo un uso tecnocratico e ideologico del diritto, cioè usandolo come strumento, non per leggere il reale ma per cambiare la realtà e il corso della natura; il diritto diventa, pertanto, il mezzo per propiziare una società finta e artificiale. Un elemento di viva preoccupazione desta constatare la posizione di molti giudici schierati a favore della vergognosa pratica della stepchild adoption.

Una regolamentazione delle unioni omosessuali ce la chiede l’Europa?

No. Non è per niente vero. Non esistono, infatti, disposizioni che trasferiscano all’Unione Europea le competenze in materia di diritto di famiglia nazionale. Il diritto di famiglia sostanziale è di competenza esclusiva degli Stati membri. Tuttavia, l’Unione Europea ha una competenza concorrente con quella degli Stati membri nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, dove Bruxelles ha ricevuto dai trattati l’incarico di sviluppare la cooperazione giudiziaria in materia civile (compresa la famiglia) con implicazioni transfrontaliere. Ciò, però, non significa assolutamente che l’Europa ci imponga le unioni gay.

Non esiste un consenso tra i vari Stati nazionali sul tema delle unioni omosessuali, la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo – sul presupposto del margine di apprezzamento conseguentemente loro riconosciuto – afferma che sono riservate alla discrezionalità del legislatore nazionale le eventuali forme di tutela per le coppie di soggetti appartenenti al medesimo sesso. La stessa sentenza Schalk and Kopf contro Austria, infatti, pur ritenendo possibile un’interpretazione estensiva dell’art. 12 della Corte europea dei diritti umani, che prevede il diritto di contrarre matrimonio anche alle coppie omosessuali, chiarisce come non derivi da una siffatta interpretazione una norma impositiva per gli Stati membri.

È vero che l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani perché non ha nel suo ordinamento una disciplina che regolamenti le unioni omosessuali?

È vero. La Corte europea dei diritti umani, con decisione del 21 luglio 2015 Oliari e altri contro Italia, ha condannato l’Italia, ma è anche vero che il governo italiano non ha presentato appello contro la sentenza che condanna l’Italia per il mancato riconoscimento delle convivenze omosessuali. Il termine per l’appello è scaduto il 21 ottobre 2015 e la sentenza è ora diventata definitiva. Non aver appellato la sentenza è stata una decisione incomprensibile, che tra l’altro ha come conseguenza l’obbligo per l’Italia di pagare immediatamente la multa inflitta dalla Corte, a danno dei contribuenti. Gli Stati appellano quasi sempre le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo e quella del governo Renzi è una scelta ideologica che mostra chiaramente da che parte sta. Peraltro, a fronte di interpretazioni aberranti della sentenza Oliari, occorre sempre ricordare che questa Corte non ha affatto ingiunto all’Italia di approvare leggi come la Cirinnà, che parificano le unioni omosessuali ai matrimoni. La Corte afferma che gli Stati europei sono tenuti a riconoscere i “diritti fondamentali” dei conviventi omosessuali, ma sulle forme di questo riconoscimento lascia piena libertà a ciascuno Stato. E la sentenza afferma esplicitamente che non c’è alcun obbligo d’includere in questo riconoscimento l’adozione.

È utile rilevare, inoltre, che nell’attuazione del loro obbligo positivo ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione, gli Stati godono di un certo margine di discrezionalità. Qualora non vi sia accordo tra gli Stati membri del Consiglio d’Europa, com’è il caso del matrimonio tra coppie omosessuali, in particolare quando la causa solleva delicate questioni morali o etiche, il margine sarà più ampio (si vedano X, Y e Z contro Regno Unito, 22 aprile 1997, § 44, Reports 1997-II; Fretté c. Francia, n. 36515/97, § 41, CEDU 2002-I; e Christine Goodwin, sopra citata, § 85). Il margine sarà usualmente ampio anche quando si richiede allo Stato di garantire l’equilibrio tra opposti interessi privati e pubblici o tra diritti della Convenzione (si vedano Fretté, sopra citata, § 42; Odièvre c. Francia [GC], n. 42326/98, §§ 44 49, CEDU 2003 III; Evans c. Regno Unito [GC], n. 6339/05, § 77,CEDU 2007 I; Dickson c. Regno Unito [GC], n. 44362/04, § 78, CEDU 2007 V; e S.H.e altri, sopra citata, § 94). Concludendo, si può pertanto ribadire che l’Italia è sovrana nel decidere come regolamentare le coppie di conviventi omosessuali.

La Corte costituzionale italiana con le sentenze numero 138/2010 e 170/2014 ha obbligato il Parlamento a dare regolamentazione giuridica alle unioni di persone dello stesso sesso

No. La Corte costituzionale non pone alcun obbligo al Parlamento a disciplinare le unioni di persone dello stesso sesso. Come afferma la stessa Corte «spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette». Il Parlamento è libero, pertanto, di regolamentare o meno tali unioni, senza alcun limite di tempo. La sentenza della Corte costituzionale n. 138/2010 ha, peraltro, ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis del codice civile in riferimento agli articoli 2, 3, 29 e 117 primo comma della Costituzione, nella «parte in cui, sistematicamente interpretati, tali articoli non consentono che le persone di orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso».

La nozione di matrimonio.

Con buona pace di alcuni giuristi, che vorrebbero reinterpretare il dettato costituzionale sulla famiglia, è bene precisare che durante i lavori preparatori della Carta costituzionale la questione delle unioni omosessuali rimase del tutto estranea al dibattito, benché la condizione omosessuale non fosse certo sconosciuta. I costituenti, elaborando l’articolo 29 della Costituzione, tennero conto di un istituto che aveva una precisa conformazione e un’articolata disciplina nell’ordinamento civile. Essi ebbero presente, infatti, la nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942, che stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso.

Ciò è stato ribadito sia dalle sentenze della Corte costituzionale numeri 138/2010 e 170/2014 e anche dalla recente sentenza del Consiglio di Stato del 26 ottobre 2015 n. 4.897, in cui si afferma che il matrimonio omosessuale deve intendersi incapace, nel vigente sistema di regole, di costituire tra le parti lo status giuridico proprio delle persone coniugate (con i diritti e gli obblighi connessi) proprio in quanto privo dell’indefettibile condizione della diversità di sesso dei nubendi, che il nostro ordinamento configura quale connotazione ontologica essenziale dell’atto di matrimonio.

Prova di ciò è che anche il secondo comma dell’articolo 29 della Costituzione, che afferma il principio dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, ebbe riguardo proprio alla posizione della donna cui intendeva attribuire pari dignità e diritti nel rapporto coniugale. Si deve ribadire, dunque, che la norma non prese in considerazione le unioni omosessuali, bensì intese riferirsi al matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto.