La maternità? Un trionfo L’ultima parola di Oriana

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Oriana Fallaci

Avvenire, 17 settembre

Righe incandescenti in un testo della Fallaci pubblicato postumo

Marina Corradi

«Mi pesa, sì, mi pesa non lasciare almeno un figlio, quando morirò. Ed è per questo che ai miei libri mi riferisco sempre con la parola bambini. Il mio bambino, i miei bambini. Ma i miei bambini sono bambini di carta».

Nell’intervista inedita concessa da Oriana Fallaci a Lucia Annunziata e pubblicata ieri dalla Stampa, c’è il rimpianto non consolabile di quel «bambino mai nato», perso prima che nascesse, cui la Fallaci dedicò un libro in forma di lettera, doloroso e intenso. Ma, della lunga intervista, le trenta righe dedicate alla maternità sembrano voler esclamare la meraviglia di poter dare la vita, ciò che pure la Fallaci non aveva compiuto col suo corpo.

Il simbolo della bellezza femminile, dice, per lei non è la Venere di Milo, ma una donna incinta: «C’è qualcosa di potente, di trionfante, di ineguagliabilmente bello in una donna che porta con sé un’altra vita». E quel “portare”, che da decenni da molte donne è dipinto come onere, fatica, catena di millenaria sudditanza da cui legittimamente liberarsi per rivendicare la propria autonomia, nelle parole della Fallaci viene detto “privilegio”.

«Il privilegio di tenerlo nel proprio ventre, di nutrirlo col proprio sangue, di custodire la responsabilità della sua venuta al mondo è tutto femminile», dice. In bocca a una donna cresciuta nella Resistenza, a un’atea – benché, come si definì lei stessa ultimamente, “atea cristiana” – sono parole che non dovrebbero passare inosservate.

Negli stessi anni in cui altre predicavano la liberazione dalla maternità, e un’autorealizzazione che pareva praticabile solo attraverso il lavoro quando ci si fosse tolto il peso ancestrale del procreare, Oriana Fallaci andava convincendosi che quel “portare” era invece privilegio. Non un dovere infausto, né, come si dice adesso, “diritto” da pretendere con ogni mezzo; ma “privilegio”, che è, per una non credente, la parola più simile a “dono” pronunciabile.

Perché, dice la Fallaci, «quando hai messo al mondo un altro essere non muori quando muori, perché attraverso quell’essere che è fatto della tua carne e del tuo sangue tu continui a vivere».

C’è l’ansia per cui gli uomini nei millenni hanno desiderato una discendenza, c’è l’eco della malinconia di Abramo e Sara in queste parole. Certo, i cristiani sanno che la paternità non è solo quella del sangue, e che è stato loro promesso di rinascere in Cristo. Ma gli uomini, la carne degli uomini e delle donne da sempre cerca un figlio, per non morire del tutto, per non scomparire nel buio, come confessa l'”atea” Fallaci.

Ed è così struggente in questa sorta di testamento la meraviglia di fronte alla capacità di mettere al mondo un uomo, così commossa la gratitudine per questo “privilegio” dato alle donne, che pure a lei era stato negato.

Così sincera l’amarezza di una giornalista reduce da ogni successo e ogni “realizzazione” nel parlare, vecchia, dei suoi «bambini di carta», che definisce una «ben povera illusione di maternità» (mentre Simone de Beauvoir, grande madre del femminismo, diceva: o si fanno libri, o si fanno figli, teorizzando quasi, per le donne “pensanti”, il dover liberarsi da quell’onere oscuro).

Una che non è riuscita a esser madre, che non era credente, parla alle nuove figlie di un orgoglio di cui non sanno. Quella pienezza, quell’ebbrezza che è nel pensare che metterai al mondo un uomo. Quel sentirsi, nel cogliere il bambino che scalcia impaziente di luce nel ventre, viva due volte. Come intuiva la Fallaci nell’incedere inconsapevolmente fiero delle gestanti per strada: «Le uniche donne – confessa con umiltà – che invidio»