Afghanistan, parla il convertito. ‘Pronto a morire per la mia fede’

Abdul Rahman

Abdul Rahman

La Repubblica 26 marzo 2006

Dal carcere Abdul Rahman racconta: “Sono stato denunciato dalla famiglia” Nella preghiera del venerdì i muezzin hanno pregato per la sua esecuzione Abdul Rahman rischia la pena di morte per la sua conversione al cristianesimo

dal nostro inviato Daniele Mastrogiacomo

KABUL – “Non voglio morire. Ma se Dio lo deciderà, sono pronto ad affrontare le mie scelte. Fino in fondo”.

Dicono che lei non sia sano di mente.

“Sono sanissimo. E soprattutto convinto di essere cristiano”.

Rischia di essere impiccato.

“Conosco la legge afgana. Lo prevede la sharia. Ma nessuno è giudice del proprio credo. Soprattutto religioso. Solo lui, Dio, il Dio di tutti, può giudicarci. Se sarò condannato gli affiderò la mia anima”.

L’uomo che rischia di isolare l’Afghanistan dal resto del mondo, l’ultimo simbolo della battaglia per i diritti umani e delle libertà universali nel paese che l’America di George Bush e l’Occidente hanno traghettato verso le moderne democrazie, da mercoledì scorso è rinchiuso in una cella d’isolamento nel carcere di Pulicharkhy: un vecchio forte isolato in mezzo ad una pianura spoglia, 40 chilometri a sud di Kabul, lungo la grande arteria piena di sassi e avvolta dalla polvere, che porta verso Jalalabad e il Kyber pass. Motivi di sicurezza, dicono le alte sfere del Palazzo di Kabul. C’è da credergli se si dà retta a quello che la gente invoca a gran voce.

Lo odiano, lo detestano, lo disprezzano tutti. Lo vogliono morto. Subito. Non c’è un bambino, un vecchio, una sola donna, disposti a perdonarlo. Peggio di un appestato. E’ un traditore, un apostata. Ha rinnegato l’islam. E’ diventato un cristiano. E soprattutto, reato dei reati per la sharia, non si vuole pentire. Quasi tutti i muezzin del paese hanno chiesto venerdì nella loro preghiera la sua esecuzione.

Abdul Rahman, 41 anni da poco compiuti, due figlie di 12 e 14, è un uomo testardo, ostinato, deciso. Ma riesce ad essere perfino solare di fronte alla prospettiva di finire davanti alla forca. Incontrarlo personalmente è impossibile. Il presidente Hamid Karzai ha vietato qualsiasi contatto con l’esterno. Troppo scompiglio, troppa tensione.

L’Afghanistan vive momenti delicati, con l’offensiva dei Taleban in tutto il sud e un pericoloso distacco tra società politica e sfere religiose che rischia di dividere il paese. Ma attraverso il rappresentante di un’organizzazione dei diritti umani siamo riusciti a fargli avere delle domande. Ecco le sue risposte.

Come si sente in queste ore?

“Sono sereno. So di essere nel giusto. Non ho fatto nulla di che pentirmi. Rispetto la legge afgana, come rispetto l’islam. Ma ho scelto di diventare cristiano e questo, per me, per la mia anima, non è una colpa”.

Una scelta che può pagare con la vita. Ne è cosciente?

“Certo. Non immaginavo che finisse in questo modo. Ma sono pronto ad affrontare tutte le conseguenze. Non ho rinnegato nulla, perché continuo a credere in un Dio. L’unico che esiste, per tutte le religioni

Chi l’ha denunciata?

“La mia famiglia. La mia ex moglie, le mie due figlie, mio zio e i miei due nipoti”.

Quando e perché?

“Tre settimane fa. Una mattina è arrivata la polizia, quella del distretto 15, a casa, mi ha arrestato e portato in Tribunale. Non sapevo neanche perché. L’ho chiesto ai poliziotti, ma loro zitti. Mi guardavano torvi. Uno, ad un certo punto, ha cominciato ad insultarmi. Diceva che ero uno senza religione, che non meritavo di vivere, ero la vergogna dell’Afghanistan e di tutti i musulmani. A quel punto ho capito”.

E cosa ha pensato?

“Che non avevo nulla di che vergognarmi”.

Sua moglie cosa ha detto alla polizia?

“Dice che sono un apostata. Che l’avevo abbandonata, che non avevo più dato notizie, che non mi ero mai occupato delle nostre due bambine, che ero fuggito e che ora volevo riaverle. Ma soprattutto diceva che ero diventato cristiano”.

Ed è vero?

“Sono fuggito dall’Afghanistan 16 anni fa. C’era la guerra tra i mujaheddin, poi erano arrivati i Taleban. Era impossibile vivere nel nostro paese. Sono andato prima in Pakistan, poi in Germania. Ho tentato di avere un visto in Belgio. A Peshawar ho lavorato per una organizzazione umanitaria. Erano cattolici. Ho iniziato a parlare con loro di religione, ho letto la Bibbia, mi ha aperto il cuore e la mente”.

Il Corano non le aveva trasmesso la stessa pace?

“Certo. Ma la mia è stata una scelta meditata, fatta di piccoli passi. Quando ho deciso di diventare cristiano l’ho fatto pienamente convinto”.

E le sue due bambine, cosa dicono?

“Le stesse cose delle madre. Quando sono andato in Pakistan avevano quattro mesi e due anni. Oggi ne hanno 14 e 16. Forse sono condizionate, ma anche loro dicono che sono un apostata. Di più: sostengono che ho impedito loro di essere delle brave musulmane, che le obbligavo a leggere la Bibbia e a recitare le preghiere cristiane. Non è vero. Quando sono tornato ho spiegato a tutti quale era stata la mia scelta”.

Perché l’ha fatto?

“Non era una provocazione. Vedevano che non pregavo con loro, che leggevo la Bibbia. Me l’hanno chiesto e io ho detto la verità. Sono diventato cristiano”.

Come la trattano in carcere?

“Adesso meglio. All’inizio ero rinchiuso nella prigione provinciale, nel centro di Kabul. Dividevo la cella con altri 24 detenuti. Molti erano nigeriani, stavano dentro per traffico di droga. Loro erano gentili, ma distaccati”.

E gli altri?

“Afgani. Mi insultavano in continuazione. Facevo finta di niente, ma più volte ho pensato che volessero uccidermi”.

Perché?

“Forse volevano solo impressionarmi. Ma una volta ho sentito che si rivolgevano alle guardie e proponevano: ammazzatelo così ci beviamo il suo sangue”.

Si sente in pericolo di vita?

“Adesso no. Sono trattato con molto riguardo. Mi hanno messo in isolamento per evitare qualche aggressione”.

Ha ricevuto delle visite?

“Questa è la prima. Uno dei detenuti, un afgano, mi ha regalato 10 dollari. Mi ha detto: prendi, per le sigarette. Io ero diffidente. Gli ho chiesto perché lo faceva. Ho pensato che fosse il prezzo per pentirmi. Faccio attenzione a tutto. So che il mio caso ha sollevato un putiferio”.

Come pensa di difendersi?

“Da solo. No, non voglio un avvocato. Nessuno accetterebbe. Basto io, li convincerò”.

Abdul Rahman indossa gli stessi vestiti che aveva il giorno in cui è stato prelevato a casa dalla polizia. Ha la barba lunga, il viso segnato, sul corpo porta ancora i lividi del pestaggio che ha subito più volte dalle guardie. Il direttore del carcere lo assiste personalmente. Ha avuto ordini precisi dallo stesso presidente Karzai. Massimo riguardo, ma grande fermezza. Il Consiglio degli Ulema di Ningarhar ha emesso una fatwa nella quale si chiede di applicare la sharia e di condannare a morte Rahman.

E” vero che le hanno chiesto di pentirsi?

“Più volte. La prima davanti al magistrato. Lo prevede la legge. Ma io ho risposto di no”.

Potrebbe morire come un martire.

“Non sono un eroe. Sono nato e cresciuto in una famiglia poverissima. Ma l’esperienza all’estero mi ha arricchito e fatto capire molte cose. Le ripeto: sono sereno. Ho la piena coscienza di quello che ho scelto. Se dovrò morire, morirò. Qualcuno, molto tempo fa, lo ha fatto per tutti noi”.

Andrebbe all’estero?

“Forse. Ma se fuggissi di nuovo significherebbe che il mio paese non è cambiato. Significherebbe che hanno vinto loro, i nostri nemici. Senza diritti umani, senza rispetto di tutte le religioni, hanno vinto i Taleban”.