Paleolitica Mezzaluna.

agricoltori_yemenTempi n.12 del 16 marzo 2006

Ventidue paesi arabi messi insieme producono meno della Spagna

Pil ridicoli, sottosviluppo alimentato dalla rendita petrolifera e rancore verso l’Europa. I numeri e le cause dell’abisso in cui è scivolato il mondo arabo

di Rodolfo Casadei

L’Arab Human Development Report è il più grande e coerente esercizio di autocritica che mai un gruppo di arabi colti abbia compiuto in epoca moderna. Quando nel 2002 fu pubblicata la prima edizione, sponsorizzata dal Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Pnud) e interamente realizzata da scienziati sociali di origine araba, fra i molti dati autoflagellatori portati all’attenzione generale uno in particolare fece sensazione: il Prodotto interno lordo (Pil) dei 22 paesi della Lega Araba, si diceva, era inferiore a quello di un paese europeo di media grandezza come la Spagna: 531,2 miliardi di dollari contro 595,5. Il dato si riferiva al consuntivo economico del 1999.

Abbiamo rifatto il calcolo per conto nostro coi dati più recenti degli stessi paesi, e abbiamo scoperto che nel periodo 2003-2004 le cose non risultano affatto essere cambiate, anzi il gap è aumentato: il Pil complessivo dei paesi della Lega Araba (meno l’Autorità palestinese), prodotto da 300 milioni di persone, è salito a 809,2 miliardi di dollari Usa correnti, ma quello della Spagna, prodotto da 41 milioni di persone, è balzato a 991,4 miliardi.

Il mondo arabo, nonostante comprenda alcuni dei maggiori paesi fornitori di petrolio a livello mondiale, è un nano economico. Perché allora alimenta tante turbolenze politiche? E perché l’Europa tende a chinare il capo e ad umiliarsi di fronte alle offese che da quel campo le arrivano, si tratti di ambasciate e consolati assaliti e devastati o di ricatti come quelli formulati da Gheddafi o da Hamas?

La vulgata politically correct vuole che le turbolenze dipendano dalla miseria popolare e dalla rabbia che da essa deriva e che l’umiltà europea sia il frutto del senso di colpa per quella miseria, attribuita all’eredità del passato coloniale e ad un presente di rapporti non troppo trasparenti (oltre che dell’esigenza di tenersi buoni fornitori di petrolio e metano). Una lettura molto approssimativa e ideologica.

Più assistiti che poveri

Va sfatato il mito di un mondo arabo miserabile: fra tutte le regioni del mondo in via di sviluppo, quella formata da Nordafrica e Medio Oriente è la meno afflitta sia dalla povertà assoluta che da quella relativa. La popolazione che vive con meno di 1 dollaro Usa al giorno (povertà assoluta) è appena il 2 per cento, contro il 9,3 del Sud-Est asiatico, il 10,4 dell’America latina, il 14,9 dell’Asia orientale (dove sta la Cina) e il 28,4 dell’Asia meridionale (dove sta l’India), per non parlare dell’Africa nera.

La popolazione che vive con meno di 2 dollari al giorno (povertà relativa) è il 17,3 per cento, contro il 22,2 dell’America latina, il 22,4 dell’Asia orientale, il 39 del Sud-Est asiatico e il 60,1 dell’Asia meridionale. La cosa più sorprendente è che questa dignitosa povertà si accompagna ai peggiori dati di tutto il mondo in via di sviluppo sia per quanto riguarda il tasso di disoccupazione che a proposito della produttività del lavoro.

L’insieme Nordafrica-Medio Oriente è l’area del mondo dove si lavora di meno: tasso di disoccupazione al 12,2 per cento e tasso di attività della popolazione al 46,4; in America latina i due dati sono rispettivamente 8 e 59,3, nell’Asia orientale 3,3 e 76,6; nelle economie dei paesi industriali 6,8 e 56,1. Nel decennio 1993-2003 il Pil del mondo arabo è cresciuto mediamente del 3,5 per cento all’anno, ma la produttività del lavoro è aumentata annualmente dello 0,1 appena (nelle economie industrializzate dell’1,4, in Asia orientale del 5,8).

Insomma, il panorama che si presenta ai nostri occhi non è quello della miseria, ma di un sistema sottosviluppato, caratterizzato da assistenzialismo e parassitismo. Un sistema che gli autori dello Arab Human Development Report 2004 hanno correttamente definito: «Il modo di produzione fondato sulla rendita provoca fratture nel fondamentale rapporto fra i cittadini intesi come fonte di gettito fiscale e il governo.

Quando un governo può basarsi soltanto sul finanziamento che proviene dalla base fiscale costituita dai suoi cittadini, esso è chiamato a rendere conto della destinazione delle risorse dello Stato. Nel modo di produzione fondato sulla rendita, invece, il governo può agire come un generoso procuratore che non chiede tasse o adempimenti in cambio. Questa mano che dà può anche riprendersi quel che ha dato, e pertanto il governo può pretendere la lealtà dei cittadini invocando una mentalità da clan» (p. 18).

La maledizione del petrolio

La rendita petrolifera (e quella costituita dagli aiuti internazionali, elevati soprattutto durante la Guerra fredda ma ancora oggi rilevanti) non è la benedizione, ma la maledizione dei sistemi economici e politici del mondo arabo: impedisce che la società civile, l’economia di mercato e un sistema politico democratico si sviluppino; rende “superfluo” il popolo rispetto allo Stato e alle élites che lo dirigono. Le quali, non avendo bisogno di entrate fiscali perché hanno risolto il problema del proprio sostentamento grazie all’economia di rendita, possono permettersi di reprimere l’emergere dell’economia di mercato e del conseguente profitto dei privati.

Il paese dove il capitale minimo richiesto per avviare un’attività imprenditoriale autonoma è il più alto del mondo è la Siria, che esige un capitale di partenza pari al 5.111,9 per cento del reddito medio pro capite annuale, seguita dallo Yemen (2.703,2 per cento), mentre al quinto posto troviamo i Territori palestinesi (1.409,8), al sesto l’Arabia Saudita (1.236,9) e al settimo la Giordania (1.011,6). In Germania il capitale richiesto è pari al 47,6 per cento, in Italia al 10 per cento, mentre in Francia, Regno Unito e Stati Uniti semplicemente non esiste.

A questo punto il lettore attento si chiederà: “D’accordo, l’economia di rendita non permette il formarsi della società civile con le sue benedizioni (economia di mercato e democrazia), ma questo significa che la società civile non esisteva già da prima. Perché nelle società arabe c’è questo vuoto, che determina il loro sottosviluppo?”. Generazioni di studiosi di tutte le provenienze si sono arrovellati attorno a questo problema. Qui possiamo sintetizzare alcune delle risposte più brillanti.

Secondo Muhammad Al-Houni, l’intellettuale libico riformista autore di The Arab Dilemma in the Face of the New American Strategy, il problema sta nell’egemonia che i valori della società beduina hanno continuato ad esercitare attraverso tutta la storia della civiltà islamica. Il 90 per cento della terra araba è formata da deserti, dove l’acqua e le risorse alimentari sono estremamente scarse, il che spinge le società ad organizzarsi in tribù bellicose che si combattono per il loro controllo e che al proprio interno sono organizzate secondo rigidi sistemi patriarcali e di lignaggio.

Sia nei rapporti fra le diverse tribù che in quelli all’interno della propria vale un solo concetto: o si domina, o si è dominati; lo spazio per articolare una società fatta di classi e di individui diversi, che allo stesso tempo lottano e collaborano fra loro in nome di interessi in parte coincidenti e in parte conflittuali, è completamente negato in nome delle esigenze di sopravvivenza e della cultura politica che da esse discende.

«La democrazia», scrive «può svilupparsi solo in una società civile, nella quale i legami razionali fra le persone sono più forti dei legami di sangue. Una società patriarcale governata arbitrariamente da uno sceicco tribale non può accettare in nessun modo l’idea dei partiti politici. Se gli verrà imposta, finirà che ogni tribù o gruppo etnico avrà un suo partito».

Questo monolitismo bellicoso ha permesso all’islam di passare di conquista in conquista nei suoi primi secoli, ma alla lunga ha mostrato la corda. Dopo il “sorpasso” da parte degli europei cristiani, che si può far datare al trattato di Carlowitz del 1699 fra l’Impero Ottomano e la Lega Santa, si tentò di recuperare terreno facendo spazio alle idee e soprattutto alle tecniche degli “infedeli”, ma con effetti ultimamente perversi come spiega Bernard Lewis, il celeberrimo orientalista anglo-americano-israeliano, nel suo famoso Il suicidio dell’islam.

In che cosa ha sbagliato la civiltà mediorientale: «L’effetto cumulativo della riforma e della modernizzazione fu, paradossalmente, non di accrescere la libertà, ma di rafforzare l’autocrazia: 1) rafforzando il potere centrale mediante il nuovo apparato di mezzi di comunicazione e di coercizione che la tecnologia moderna aveva reso disponibile, e 2) indebolendo o abolendo i tradizionali poteri intermedi che facevano da cuscinetto, come la piccola nobiltà e la magistratura provinciale, il patriziato urbano, gli ulema e i corpi militari di antica tradizione come il corpo dei giannizzeri. (…) Nel corso del XIX secolo questi poteri intermedi furono aboliti o messi sotto controllo» (p. 57).

Pochi monaci, troppi guerrieri

La lettura più geniale di tutte resta comunque quella del sociologo e sacerdote Franco Demarchi: «All’islam è mancata la possibilità di sostituire alle ondate dei guerrieri-asceti beduini una formula organizzativa del sufismo, come quella monastica benedettina, orientata alla traduzione dell’esperienza spirituale in lavoro produttivo e in programmi di sedentarizzazione dei nomadi» (Nord-Sud. Comprensioni ed incomprensioni, Jaca Book 1987, p. 92).

La differenza la fa l’eredità religiosa: l’ora et labora comunitario dei monaci benedettini ha prodotto effetti di civilizzazione della realtà secolare che il sufismo islamico, puramente mistico ed eremitico, non poteva in nessun modo determinare.

Senza l’applicazione del carisma religioso al lavoro, non ci sarebbe stata la civiltà occidentale. L’islam non ha potuto farlo, per ragioni eminentemente teologiche, e la sua società continua ad essere una caserma oggi come 14 secoli fa. Con una differenza inquietante, però: che, come si è recentemente premurato di farci sapere il sociologo tedesco Gunnar Heinsohn (The Wall Street Journal, 6 marzo 2006, p. 12), alla vigilia della Prima guerra mondiale i maschi musulmani “in età di combattimento”, cioè fra i 15 e i 29 anni di età, erano il 9,5 per cento del totale mondiale, mentre quelli europei rappresentavano il 27,5 per cento.

Novanta anni dopo, le posizioni si sono invertite: i maschi europei “in età di combattimento” sono appena l’8,9 per cento del totale mondiale, quelli musulmani sono il 28 per cento; e nei prossimi quindici anni l’Europa perderà altri due punti percentuali, i musulmani li acquisteranno. Ecco una seria ragione che spiega il timore reverenziale degli europei in faccia ai furori della sponda sud del Mediterraneo.