Cronaca di una mattinata

tratto da: http://spaces.msn.com/noaborto/ febbraio 2006

Di fronte a certi fatti, ormai comuni nelle cliniche, non si riesce a non riflettere. Il disagio ti si avvinghia addosso come l’edera alla pianta. Ti guardi attorno, vedi tanta umanità diversa che piange, che ride, che sospira, che ha fretta, che ha paura. Ecco la cronaca di una giornata. Cronaca vera

Valeria Battimiello, (ostetrica)

Una mattina come tante..la sveglia, la metro, la pioggia. Gli esami sono finiti, la laurea è alle porte, in reparto già mi chiamano dottoressa. Potere del camice bianco! Mi avvio al Policlinico, oggi è il mio turno per il tirocinio in Ginecologia ed Ostetricia, mi sento ancora nelle braccia di Morfeo, indubbiamente avrei preferito rimanere tra le coperte del mio accogliente letto, ma no: preferisco arrivare prima così da guadagnarmi un posto in prima fila in sala parto. Sono emozionata, sento il potere della natura femminile che mi pervade, il mistero della vita che comincia. La situazione è però tranquilla, nessun nuovo esserino sta bussando alle porte di questo mondo e, almeno per questa mattina, starò come gli altri giorni in ambulatorio.

INVECE NO!

Invece no! Oggi si sale all’ultimo piano dall’ascensore sul retro, l’unico che arriva al 5° piano, e porta dritto nel settore chirurgico. Il corridoio è lungo e lo sembra ancora di più per via di quella pittura data di fresco che lo inonda di un bianco abbagliante. Le stanze sono tutte vuote, non è più un reparto di degenza, adesso è dedicato ai regimi di Day Hospital. Un ragazzo intorno ai diciotto anni, tutto trafelato, mi chiede notizie di una certa paziente, la sua ragazza e crudamente scopro dove sono. Questa è l’entrata per l’IVG una sigla per non spaventare, una delle tante, ormai che in qualche modo sembrano nascondere la realtà. IVG è Interruzione Volontaria della Gravidanza, ma in realtà è di aborto che si parla.

UN VIA VAI PARTICOLARE

Non ci sono molte persone qui, le pazienti entrano da una porta secondaria per il rispetto della privacy, mi spiegano. La sala operatoria è piccola e spartana. Un corridoio adiacente è già occupato da barelle in dolce attesa. Qui entro i 3 mesi una donna ha il diritto legale di imporsi alla vita e di rinunciare al dono della maternità. Ed è proprio qui che si garantisce l’idoneità a usufruire di questo diritto con l’ausilio di un’assistente sociale e di un ginecologo che, previa ecografia, ne stabilisce i tempi. Mi aspettavo di trovare una maggioranza di ragazzine sprovvedute, quattordicenni spaurite, donne indigenti. In realtà, camice a parte, sono proprio come me, con i miei jeans, le mie scarpe da ginnastica, la mia coda di cavallo.

C’è Federica. Lei ha 28 anni e un bel viso, fa la commessa, ma adesso un bambino non era proprio il caso. Entra Anna, 42 anni. Leggo in cartella che è sposata e ha già tre bambini e due aborti alle spalle. La guardo, discretamente non sembra turbata, lei è di casa qui, e ride di gusto all’invito dell’amica che è con lei, di comprarsi un televisore per avere qualcos’altro da fare, la sera!

Sabrina ha 22 anni. Lei è venuta qui solo per un controllo, infatti ha già abortito circa un mese fa, ma avverte dei dolori quando fa il rapporto, ed è spaventata, perché sa che l’aborto non è una passeggiata e può comportare anche complicanze molto serie non solo a livello fisiologico ma anche – ed è pure peggio – psicologico.

Alessia è invece accompagnata da Arturo, il suo ragazzo. Belli da copertina, vestiti alla moda, caschi da motocicletta. Fanno tenerezza: lui le tiene la mano con amore e le chiede continuamente se va tutto bene, ma lei con gli occhi perlati di lacrime non riesce neanche a guardare il monitor. Ha solo una gran fretta di uscire da quel luogo e di rifiorire con i suoi vent’anni.

Con Alina, 35 anni, è più difficile comunicare. Lei viene dall’Ucraina, ha già una figlia e una grossa necessità di lavorare, non può permettersi una gravidanza adesso, ma neanche l’aborto visto che ha superato i 3 mesi, termine legale per l’IVG, e a nulla valgono le lacrime con cui ci spiega che con la vita che fa è andata su spiaggia con uomo che poi sparito.

È il turno di Carmela, 30 anni. Lei e suo marito questo figlio lo volevano, lo aspettavano da tanto, ma purtroppo la natura è stata crudele: la diagnosi è di feto anencefalico, non compatibile con la vita extra-uterina. Ma Carmela è una donna coraggiosa, avrebbe comunque portato a termine la gravidanza, se solo non avesse scoperto quel grave problema cardiaco.

IL BISOGNO DI USCIRE

Ci sono altre donne ancora in fila, ma a questo punto sento l’esigenza di uscire da questa che mi sembra una rappresentazione macabra, una specie di Giudizio Universale in cui si decide la sorte di un condannato che nemmeno sa di esserlo, e che perciò non ha avvocati difensori: è soltanto un paziente, totalmente inerme che non può che obbedire. La preoccupazione più grande non sembra essere la coscienza quanto piuttosto il certificato di non specificata visita medica ginecologica da portare sul lavoro.

Più in là ci sono le operate di questa mattina che si stanno risvegliando e la mamma di Tiziana, 14 anni, non smette di vantarsi di quanto sua figlia non si sia per nulla lamentata dei dolori, esortandola a sbrigarsi in modo da tornare a casa per pranzo. Sì, infatti, una vita umana può cominciare in un attimo di passione e terminare in mezza giornata, in tempo per l’ora di pranzo.

Intanto in sala operatoria c’è Gabriella. Non è assopita del tutto, infatti, mi dimostra che il dolore si sente eccome; urla forte, non sembra cosciente ma il suo inconscio lo è forse più di lei, e le fa gridare disperata un nome: Emanuele. La scena è straziante; pensiamo sia il nome del marito, e invece no, è il suo istinto di donna e di madre che prende il sopravvento, sta chiamando suo figlio, il fratello maggiore di quel bambino a cui ha impedito di venire al mondo.

Questa è cronaca. Cronaca di una giornata come tante, qui in ostetricia.