Bene della vita e controllo della morte: riflessioni giuridiche (*)

eutanasiaMichele C. del Re

1. Premessa: la vita, bene o strumento?

2. Il controllo della morte

3. Eutanasia attiva e passiva, rifiuto di terapia, rifiuto di terapia

4. Il consenso a morire

5. Limiti alla disponibilità del corpo e della vita

6. Un esempio di schema di legge per l’eutanasia

7. Morte pietosa e libera morte: il tormentato percorso

8. Leggi vigenti. Riferimenti

9. Conclusione: sanare i disagi, rispettare la vita, lenire il dolore.

1. Premessa: la vita, bene o strumento?

Non è possibile affrontare gli aspetti giuridici del problema dell’eutanasia e del suicidio, che si può raccogliere sotto il denominatore comune “controllo della morte”, senza richiamare innanzi tutto le diverse posizioni metagiuridiche assunte nei confronti della scelta per la morte.Le norme di legge vigenti hanno un senso, una portata, una lettura insomma, in forza delle ideologie sottostanti, le quali trovano, per dir così, il loro luogo operativo non soltanto nella costituzione formale, ma anche nella costituzione materiale.

Alcuni giuristi affermano  che si deve escludere ogni giudizio preliminare di carattere etico o religioso, ma poi sostengono che il diritto è bilanciamento di beni giuridici gerarchicamente ordinati: entrano  così in contraddizione perché la determinazione della qualità di bene avviene sempre sul piano metagiuridico della coscienza sociale.

La peculiarità del metodo giuridico sta piuttosto nel fatto che la “verità giuridica” si verifica per induzione, risalendo dal combinato disposto delle norme scritte, alle Grundnormen  metagiuridiche, considerando “vera” quella concezione che riesce a conciliarsi con tutte le norme del sistema giuridico.

Soltanto quando una norma appare contraddittoria col sistema si potrà tentare di espungerla dichiarandone l’incostituzionalità, ma è scorretto metodologicamente dichiarare contraria ai principi costituzionali una norma in armonia col sistema, anche se appare in contrasto con un’ideologia diffusa.

Secondo la concezione etico-religiosa che è propria della tradizione giudaico-cristiana[2] ed ha permeato tutta la cultura occidentale, la vita stessa – mistero indefinibile di per sé – è un bene, un dono,  sicché essa è sacra indipendentemente dalla quantità di felicità, di benessere che offre. Sacra e indisponibile è dunque la vita del malato sofferente quanto quella della persona sana, colma di joie  de vivre.

Se essere e bene sono identici, se essere per l’uomo è essere nell’entità totale corpo/anima, la vita, anche per il sofferente, è da considerarsi un bene. D’altronde il mistero del male nell’economia della vita, può risolversi rifiutando la propria condizione di vivente?

Per S. Tommaso [3], tre sono le ragioni che militano contro la liceità del suicidio: chi si uccide viola la legge naturale di carità che impone d’amare se stessi; offende la comunità, in quanto ciascuno è parte di essa; offende Dio, perché ciascuno non appartiene a sé stesso, ma a Dio e non può disporre di ciò che non è suo [4].

Tanto meno può disporne la società se non per ragioni di giustizia “in casi di estrema gravità” [5]. Corollario giuridico di questa posizione è logicamente quello del divieto legale del suicidio o almeno del disfavore al suicidio, e, a maggior ragione, di ogni intervento mortifero che prescinda dalla volontà del soggetto.

Concezione  soggettivistica, opposta alla precedente è quella che la vita è soltanto un mezzo per godere di beni che il mondo offre,  sicché quel che conta non è tanto la vita quanto la qualità della vita. La vita è un bene disponibile (perché è bene solo se sussiste un interesse a mantenerlo), anche al di là delle prescrizioni di legge, sicché la legge deve intervenire soltanto per disciplinare – direi, anche facilitare – l’uso del diritto alla morte.

Questa tesi si coordina con la concezione  sociologica (si potrebbe dire hobbesiana?) dei fondamenti del diritto, quale è accolta, ad esempio, in parte  della giurisprudenza e dottrina statunitense [6]; l’impostazione prescinde dal valore in sé del bene, ma si richiama agli interessi convergenti o contrastanti dell’individuo e della comunità organizzata. La comunità organizzata può interferire nella assoluta libertà dell’individuo, soltanto quando l’atto del privato crea un clear and present danger (evidente ed attuale pericolo) in un settore vitale ed essenziale della società organizzata.

Il diritto a privare un individuo della sua facoltà di rinunciare alla vita rifiutando le cure mediche o con un’azione positiva di suicidio è collegato e determinato dal bilanciamento degli interessi  in gioco: “per esempio, nei casi che riguardano pazienti con una prognosi negativa anche in caso di trattamento, l’interesse dello Stato è assai minore di quello che ha nell’ipotesi di un individuo che se curato ha un’aspettativa di vita sana e lunga” [7], sicché è ragionevole mandar esente da pena il medico che stacca, a richiesta, la spina, nei casi incurabili. n questa visione del mondo, il precetto salus aegroti suprema lex è sostituita dal precetto voluntas aegroti suprema lex.

O addirittura la società organizzata potrà legiferare tenendo conto che se lo strumento-vita funziona male il medico potrà intervenire con la campana a morte per i sofferenti, tra l’altro inutili e costosi.

Credo tuttavia che il punto di partenza per la valutazione possa prescindere da ogni concezione  filosofica e trovar fondamento sul dato obiettivo dell’istinto di conservazione, sull’impulso arazionale a conservare nel tempo la vita, il misterioso equilibrio instabile dell’organismo, che fa parte del patrimonio genetico dell’uomo.

Vivere e sopravvivere è programma fondamentale della biologia, non solo per gli uomini, sicché alla stregua di esso che deve valutarsi ogni intervento che vada contro il tabù fondamentale, indiscutibile proprio perché insito nelle strutture portanti del nostro esistere. Su questo punto la dottrina – diffusissima in tema di libertà – resta muta, perdendo di vista un fatto sociobiologico altrettanto importante della socialità, per l’uomo.

Direi che ecologia ed etologia umana debbono finalmente riscoprirsi dal giurista che spesso si chiude in un circolo di autoreferenze senza uscita. Significativa per la motivazione, che pone in primo luogo l’istinto di conservazione è la decisione nel caso  Hales v Petit (1981); in esso la Corte enunciò alcune considerazioni sulla ratio che è a fondamento delle norme sul suicidio: Il suicidio è contro natura, perché contrario a quelle regole di auto-conservazione che sono proprie di tutti gli esseri viventi.

Sotto questo profilo, non può concepirsi un diritto di estinguere il presupposto sul quale tutti i diritti si fondano. In secondo luogo, il suicidio è contro Dio, in quanto è una rottura del comandamento “non uccidere” (Dio è richiamato nella Costituzione americana, sicché l’argomentazione è considerata valida anche sub specie iuris).

Il suicidio, poi, è contro lo Stato, contro il Re, nel senso che “il Re, che ha il governo del popolo, si preoccupa del cattivo esempio che il suicida dà ai consociati”, sicché lo Stato ha il dovere di ostacolare ogni condotta che possa incoraggiare il suicidio [8]. Esposti questi orientamenti [9], vedremo che oggi le norme giuridiche vigenti in Italia, ed in particolare il nostro codice penale, rispecchiano e si fondano sul rispetto della vita, sentita come bene in sé, anche se non assoluto, coerentemente con il portato sociobiologico della lotta per la sopravvivenza da cui nasce (o con il quale è correlata) la tradizione storica [10].

2. Il controllo della morte

Il dibattito [11] tra i giuristi assume andamento tumultuoso, talvolta contraddittorio, perché le scoperte scientifiche e le innovazioni tecniche hanno persino messo in crisi la nozione di morte e di vita,  rendendo necessario stabilire un criterio oltre il buon senso, per determinare la distinzione tra il morto e il vivo [12].

L’organismo vivente riesce a ritardare i processi entropici che portano alla stasi; la morte si ha appunto quando i processi entropici riprendono il sopravvento [13]. L’identificazione intuitiva della  vita con il basso livello di entropia spiega perché sia difficile accettare l’idea che un complesso biologico che in qualche modo, sia pure con l’ausilio delle macchine, ancora “estrae ordine” dall’esterno, si sottrae dal decadimento verso l’equilibrio (cuore e polmoni attivi), sia non-vivo.

Gli interventi chimici, fisici e chirurgici hanno prospettato nuove forme per il  controllo della morte, rendendo possibile da un lato un prolungamento di  attività biologica  puramente meccanica (talvolta con accanimento terapeutico),  d’altra parte una estinzione della vita in modo quieto e atarassico, ad esempio attraverso l’agonia per aquam in venam.

Gli ordinamenti giuridici riflettono il disorientamento di fronte al problema e alle sue nuove forme, anche se si deve riconoscere nella società occidentale una tendenza forte per la tutela della vita (si pensi alla abolizione della morte come pena, alla condanna della guerra, qualora non determinata dalla stretta, attuale necessità di difendersi).

Di queste nuove raffinate forme di controllo della morte, quali sono lecite, quali sono criminose? Molte difficoltà per l’esatto inquadramento del problema vengono dall’uso variabile delle parole, a volte voluto per sostenere la propria tesi nella battaglia verbale tra sostenitori dell’una o dell’altra tesi [14]: in questo campo è particolarmente evidente che words have uses, no meanings, che l’equivocità di certi termini è soltanto velata dalla apparente scientificità [15] mentre il diritto esige una precisione di termini che escluda o limiti al massimo possibile, ogni incertezza definitoria, che rende ovviamente elastico il precetto e facile l’arbitrio del giudicante.

Nel campo del diritto penale, vista la natura afflittiva della sanzione, il principio di stretta legalità, di determinatezza del precetto  ha rango di norma costituzionale, dovendosi ricorrere per quanto possibile a elementi descrittivi e non normativi nella costruzione della fattispecie.

3. Eutanasia attiva e passiva, rifiuto di terapia, suicidio assistito.

La eutanasia passiva consiste nel non ritardare la morte di una persona, lasciando che la natura abbia il suo corso abolendo i mezzi chimici e fisici di prolungamento della vita applicati al paziente, ad esempio, sconnettendo le macchine [16] che sostengono polmoni e cuore, cessando le cure mediche, cessando il nutrimento o anche evitando di usare meccanismi per rimettere in moto il cuore che si è fermato [17].

Costituisce eutanasia passiva – ma spesso si usa l’espressione eutanasia indiretta [18] –  la somministrazione di palliativi, che possono consistere in abbondanti dosi di morfina (o altro possente antidorifico) per il controllo del dolore con eventuale ed indiretto effetto letale, effetto anche se preveduto, non  voluto dall’operatore.

Queste procedure si riferiscono al malato terminale o alla persona in uno stato vegetativo persistente, cioè all’individuo con danno cerebrale tale per cui non può la persona riacquistare coscienza. La eutanasia passiva consentita  rientra nella species del rifiuto di terapia, ma nei casi di rifiuto di trattamento medico, non sempre è l’intenzione di morire  che spinge al rifiuto.

L’unica situazione nella quale si può dire che intento della persona interessata è quello di morire – oltre al caso di eutanasia passiva del malato terminale che vuole affrettare la morte incombente –  si ha quando il soggetto rifiuti un trattamento relativamente facile, non troppo costoso, non fortunoso, e che non comporti una lesione grave (ad es. il diabetico che rifiuta l’iniezione di insulina, si può dire che cerchi la morte); certo non è facile trovare altre ipotesi nelle quali si possa considerare il rifiuto di trattamento come volontà di suicidio [19].

In caso di rifiuto di terapia, l’intervento terapeutico del medico contro la volontà del malato, è lecito, illecito o addirittura doveroso? A chi spetta il controllo della morte? La dottrina è divisa. L’art. 32 Cost. esplicitamente dichiara la salute interesse della collettività, mentre l’art. 42 e l’art. 2 Cost. prevedono un impegno sociale, attivo, nei confronti della società, prevedono, insomma, una sorta di divieto d’abbandono della battaglia della vita, sicché il medico non potrebbe rinunciare al suo compito istituzionale terapeutico.

All’opposto, secondo la prevalente dottrina il medico è esente da responsabilità se si astiene da praticare trattamenti a chi li rifiuta, salvo che non sia obbligato per legge; anche in tal caso, peraltro, non può usare la coercizione. Si invocano gli artt. 13 e 32 della Costituzione da cui si può desumere il principio di autodeterminazione terapeutica [20].

Nel codice deontologico d’altronde, all’art. 35, in applicazione di questo  orientamento, si stabilisce che l’opposizione al trattamento non ha effetto, se il trattamento è obbligatorio per legge, ma il medico non può imporre comunque “trattamenti fisicamente coattivi”.

Distinguerei le situazioni: se l’opposizione del paziente è nei confronti di trattamenti che non incidono sull’incombente destino di morte, la rinuncia all’intervento da parte del medico è obiettivamente non offensiva del bene, sicché il medico non è in nessun modo autorizzato a superare il rifiuto.

Se l’intervento medico potrebbe salvare la vita,  l’intervento è legittimo sotto il profilo del fine di evitare un danno maggiore di quello provocato con l’intervento coattivo,  ma l’intervento del medico potrebbe costituire violenza privata ex art. 610 cod. pen., sicché le considerazioni sopra svolte valgono anche per l’ipotesi di rifiuto di cure per malattia incurabile [21].

La eutanasia attiva, detta anche uccisione pietosa (mercy-killing), comporta la causazione della morte di una persona attraverso una azione diretta in risposta ad una richiesta della persona stessa o comunque col consenso del morituro (eutanasia attiva consensuale) o senza il consenso. L’attività del terzo può limitarsi ad aiutare ed agevolare il suicidio (suicidio assistito)

L’eutanasia attiva non consentita, rientra nella fattispecie dell’omicidio volontario. Soltanto una aberrante visione strumentale dell’individuo nei confronti della società può ammettere una eutanasia non consentita [22]. Per un riferimento normativo, se ce ne fosse bisogno, richiamo l’art. 32 cost. per la salvaguardia della vita, e l’art. 3 cost. che statuisce il principio di eguaglianza e di pari dignità tra gli esseri umani, che non permette  che si attribuisca ad uno o più soggetti di stabilire se un individuo anche se malatissimo debba vivere o no [23].

Per quanto riguarda invece l’eutanasia attiva consentita, il nostro sistema giuridico pone un divieto rigoroso nella vigente normativa penale e, di riflesso, nel codice di deontologia medica (art. 35 [24]). La nostra legge peraltro conosce (e punisce con pene di diversa entità), l’omicidio volontario (art. 575) cod. pen.), la fattispecie autonoma di omicidio del consenziente (art. 579 cod. pen.) e l’istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 cod. pen.) [25].

Integra omicidio del consenziente il fatto di chi provoca la morte  sostituendosi nell’attività mortifera all’aspirante suicida pur con il consenso di questi ed assume l’iniziativa non solo per la causazione materiale, ma anche nelle determinazioni volitive specifiche. Agevolazione al suicidio si verifica quando il suicida resta  dominus della propria azione  e realizza anche materialmente di mano propria l’uccisione [26].

Il suicidio assistito rientra in genere nella fattispecie dell’art. 580 cod. pen., anche se fornire la macchina suicidiaria  pone il problema dell’identificazione della fattispecie. In realtà, il nostro sistema contempla tra i principi di etica sociale il divieto di uccidere, considerandolo ineludibile;  coerentemente con tale principio si nega la concessione dell’attenuante del motivo d’alto valore morale e sociale (art. 62, n 1. cod. pen.) a chi uccide per pietà [27]. Invero non pochi autori auspicano la concessione dell’attenuante alla eutanasia anche non consentita [28].

È stata invocato lo stato di necessità, non tanto in riferimento all’art. 54 cod pen., ma alla seelische not o alla inesigibilità di un comportamento diverso da parte del familiare. Di fronte a casi limite nei quali sembra sussistere una sorta di fatale necessità, si deve tener conto che vi è “il rischio di una eutanasia incontenibile, in quanto, una volta infranto il principio di intangibilità della vita umana, si può aprire un circolo vizioso difficilmente frenabile”.

Invero, corrono proposte per la depenalizzazione dell’eutanasia attiva, consensuale [29], che non costituirebbe violazione del divieto di uccidere. Ma il principio salus aegroti suprema lex può esser sostituito da quello voluntas aegroti suprema lex? Comunque anche i promotori della liberalizzazione della eutanasia attiva, consensuale, si rendono conto che una legge permissiva potrebbe costituire “un alibi per incurie sociali che determinino il malato terminale a optare per un commiato anticipato che non crei problemi ai familiari” [30].

Gli argomenti contro l’eutanasia attiva consentita sono raccolti schematicamente così, da Peter Saunders (medico del Christian medical fellowship d’Australia, paese che ha una legge permissiva) che riporto senza commento:

1. l’eutanasia consentita non è necessaria perché esistono trattamenti alternativi.
2. Le  richieste non sempre sono libere e volontarie.
3. L’eutanasia volontaria toglie al malato la finale maturazione dei rapporti umani.
4. L’eutanasia affossa la ricerca scientifica.
5. Casi controversi portano a leggi ingiuste.
6.  L’autonomia è importante, ma non assoluta.
7.  L’eutanasia volontaria porta al “turismo eutanasico”.
8.  L’e. v. cambia la coscienza sociale.
9.  L’e. v. viola i codici storicamente accettati dell’etica medica.
10. L’e. v. dà troppi poteri ai medici.
11. L’e. v. conduce inevitabilmente alla eutanasia involontaria.

Certo, la liceizzazione della eutanasia  ha notevoli effetti sociali di cui si deve tener conto. Il riflesso sull’attività medica e in particolare sull’attività dello psicologo può assumere aspetti devastanti. Il precetto tradizionale con la forza di tabù sotto il profilo emotivo con la forza di vera e propria Grundnorm, sotto il profilo etico per il medico è il nolle iudicare, difendere la vita senza valutarne la qualità.

Eroso questo principio è facile trasformare con passaggi apparentemente insensibili il trattamento medico in un trattamento di controllo e di valutazione della vita conferendo all’uomo il supremo potere della divinità che dà e toglie la vita: “si pone in evidente discussione la identità e la credibilità morale e professionale del medico, a cui viene attribuito il tradizionale dovere di curare l’ammalato con tutte le sue possibilità e cognizioni, in piena coerenza col principio di Ippocrate: primum non nocere.

Infatti, l’eventuale possibilità per il sanitario di somministrare sostanze letali che possono abbreviare la vita dell’ammalato grave e incurabile provocherebbe a crescere tra i suoi pazienti una sfiducia di fondo, confondendo tra loro il dovere di curarli e la possibilità di ricorrere al “colpo di grazia”.

4. Il consenso a morire

Il problema giuridico del consenso a morire è drammatico quando il malato al punto si trova  in stato che ne esclude o limita la capacità mentale o gli rende impossibile di esprimere la sua volontà, sicché si deve far riferimento a dichiarazioni precedentemente espresse, a presunzioni, o a volontà di rappresentanti, per mandato o no.

Nel diritto italiano, come la Cassazione ha avuto modo di sottolineare [31] il consenso non solo deve essere serio, esplicito e non equivoco, ma dev’essere perdurante fino al momento in cui è commesso il fatto. Esso, per un bene quale la vita, non è delegabile. Il consenso può essere, beninteso, tacito[32] ma non può essere meramente presunto.

L’articolo 579 cod. pen. prevede peraltro non soltanto la invalidità del consenso per chi è in istato mentale tale da non poterlo esprimere ragionevolmente, ma  esclude dal novero dei soggetti il cui consenso è valido genericamente ogni “persona inferma di mente o che si trova in condizioni di deficienza psichica per un’altra infermità”.

Una interpretazione rigorosa [33], per taluni troppo rigorosa, afferma che appunto la malattia inguaribile che comporti un insopportabile tormento, può determinare la deficienza psichica che rende invalido il consenso, quindi chi invoca l’applicazione dell’art. 579  deve rigorosamente dimostrare che l’infermità non aveva prodotto l’effetto della deficienza psichica.

Nella  sentenza della cassazione 27.6.1991, peraltro, si discusse il problema della inesigibilità sostenendo la difesa che l’autore non avrebbe potuto tenere un comportamento diverso anche perché non aveva coscienza dell’antigiuridicità materiale (antisocialità). Questo tipo di difesa è stato invocato in altri casi in cui si è provveduto a sopprimere il parente carissimo con affezione morbosa, dolorosa einguaribile. Evidentemente la mancata coscienza dell’antigiuridicità dell’azione – comunque si intenda l’antigiuridicità – non esclude il dolo.

Importante è il testamento biologico (living will), cioè quell’atto di volontà in cui si dispone del proprio corpo nell’ipotesi di futura incapacità di liberamente decidere. La disposizione è un atto tra vivi [34], e consiste in  una dichiarazione di volontà unilaterale da eseguirsi in certe situazioni,  che può anche divenire un mandato, quale previsto dall’art. 1710 cod.civ.

Il testamento biologico come ogni altro negozio giuridico è soggetto al limite della liceità della causa, della funzione sociale che l’atto assume, oltre che dell’oggetto. Sulla validità del testamento biologico le opinioni sono contrastanti [35]; per buona parte della dottrina, il testamento biologico non è imperativo, inquantoché non è attuale la volontà del dichiarante al momento in cui v’è da dare esecuzione.

Si riconosce la validità vincolante di una dichiarazione di volontà che escluda l’uso di mezzi straordinari di mantenimento in funzione di organi, cioè che escluda l’accanimento terapeutico; dibattuto il problema se il  testamento che escluda la terapia (o una particolare forma di terapia), in base alla qualità della vita o anche  per motivi filosofici o religiosi, sia vincolante per il medico curante.

Io credo che in questo campo si debba ricorrere al criterio della ragionevolezza, canone immanente nell’ordinamento, come riconosciuto dalla giurisprudenza e dalla dottrina: quando la condotta di vita, la visione del mondo del malato non più in grado di esprimersi,  lascia supporre che non vi sia stato un mutamento di idee, la volontà espressa in precedenza deve rispettarsi (naturalmente se non contra legem); se il testatore ha affidato a parenti cari la manifestazione di volontà, credo che la legge ammetta questa dichiarazione sostitutiva che in realtà non è un substitute judgement, credo, ma una attestazione della volontà seria del morituro che non può più parlare.

5. Limiti alla disponibilità del corpo e della vita.

Nel nostro ordinamento è riconosciuto il diritto di disporre del proprio corpo ex art. 5 cod.civ.; la norma peraltro esplicitamente esclude la disponibilità quando l’atto cagioni una diminuzione permanente  della integrità fisica, o quando gli atti di disposizione siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume [36].

Beninteso la punibilità è esclusa quando l’aggressione alla integrità avviene senza intermediari da parte del titolare del bene, se non nei casi in cui la mutilazione è finalizzata alla frode in assicurazioni (642 cod pen.) o al sottrarsi al servizio militare (art 157 e 158 CPMP e 115 CPMG).

Evidentemente le espressioni usate comportano   un rinvio alla sensibilità comune, alla coscienza sociale, quindi ai principi ultimi di buon comportamento che spetta all’interprete e in particolare al giudice ritrovare ut aurum in vena. Un punto però è certo: gli atti che portano un danno grave irreversibile alla integrità personale non sono consentiti. La disciplina dunque esclude ogni disposizione della vita.

A mio avviso anche le autoaggressioni alla integrità personale possono apparire illecite quando lo scopo è riprovevole, secondo la coscienza sociale. Si pensi al caso della prostituta che si infligga sofferenze smodate per soddisfare la perversa libidine del voyeur [37].

D’altronde, il nostro sistema giuridico conosce i delitti di istigazione e aiuto al suicidio (art. 580 cod.pen.), di omicidio  del consenziente (art. 579 cod.pen.); sono vietate le pubblicazioni di ritratti di suicidi (art. 114 T.U. L.P.S.; art. 14 L.47/1948).

Evidentemente si tratta di norme che confermano la sacralità della vita tutelata dall’art. 575 cod. pen. (omicidio volontario) e seguenti, anche se  prevedono pene minori non tanto per la minore gravità del fatto ma per l’elemento soggettivo che si manifesta in una intenzione non così riprovevole come nell’omicidio volontario [38].

È reato l’omissione di soccorso nei confronti del suicida (art. 593 cod.pen.) e si applica la scriminante della legittima difesa a chi ponga in essere un fatto di reato per impedire all’aspirante suicida di realizzare il suo fine, ad esempio strappandogli l’arma (che può ben essere una siringa) violentemente mettendolo  fisicamente in condizioni di non nuocere.

Parallelamente non è riconosciuta come legittima difesa da parte di colui che compie l’azione suicida l’attività violenta nei confronti del terzo che tenta di impedire l’evento mortale. Ci sembra che de iure condito si debba concludere che il suicidio è un atto lecito, ma veduto con disfavore perché sempre espressione di disagio sociale e personale [39].

Questa considerazione, peraltro, sotto il profilo legale porterebbe a considerare punibile il tentativo di suicidio, ma giustamente il legislatore ha applicato la regola della logica giuridica per la quale sarebbe contraddittorio punire il tentativo di un fatto che non costituisce reato se consumato [40].

Attingendo alle considerazioni razionali e trascurando  il sottofondo culturale del problema,  si deve dire che, secondo logica formale, il suicida non è punibile semplicemente perché si sottrae al patto sociale eliminandone il soggetto, rendendo quindi inapplicabile qualsiasi norma che richiede la sussistenza del rapporto bilaterale. In altre parole vi è la negazione del Mitdasein.

Tale rifiuto di socialità ferisce angosciosamente l’altro, data la natura sociale dell’uomo che è tale se (e soltanto se) c’è l’altro, sicché non è accettabile nemmeno la tesi più recente secondo la quale il suicidio, come la pornografia e l’incesto, non sarebbero punibili, perché rientranti nella categoria da eliminare dei crimini senza vittima.

Si è parlato in proposito di antigiuridicità strutturale, cioè collocata sul piano stesso della  normatività, in quanto ogni dover essere presuppone il dovere di essere [41]. Ecco perché sul piano giuridico, con tutto il rispetto della libertà di Weltanschauung, non possiamo condividere le affermazioni di alcuni sul vivere e sul morire, che sarebbero oggetto di diritto potestativo, fondato su principi accolti nella costituzione, in particolare sull’art. 2 della costituzione [42].

Oggi, l’ordinamento italiano non ha questo orientamento. Certo l’odierno Zeitgeist è liberale,   ma non si può prescindere dall’attuale stato legale del suicidio che deve ricavarsi per induzione dal combinato disposto delle norme vigenti nel nostro ordinamento. “Il principio della indisponibilità della persona  umana si estrinseca in quattro proposizioni: salvaguardia della vita, della integrità fisica e psichica (art. 32 Cost., art. 5 cod. civ.), salvaguardia della dignità umana (artt. 3/1, 27/3, 32-41 Cost.), garanzia di eguaglianza degli esseri umani (art. 3 Cost.), validità del consenso del soggetto (art. 13 Cost. art. 1 L. 180/78, art. 33 L. 833/1988)[43].

6. Un esempio di schema di legge per l’eutanasia

Corrono numerosi schemi, bozze, proposte di legge sul tema. Ci limitiamo a riportare uno schema moderato,   quello elaborato dall’Associazione Libera uscita (dalla vita, beninteso!), quale Schema di disegno di legge per la depenalizzazione dell’eutanasia.

Art. 1- Non è punibile il medico, regolarmente abilitato alla professione, che provoca o agevola la morte di una persona, a condizione che:  a  la persona ne faccia, o ne abbia fatto in precedenza, espressa richiesta; b  la persona si trovi, al momento della richiesta, nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, debitamente certificate;   a giudizio unanime di due medici, regolarmente abilitati alla professione, almeno uno dei quali non deve essere il medico curante del paziente, quest’ultimo si trovi in una delle seguenti condizioni: stato di malattia terminale stato estremo di sofferenza fisica e mentale stato di malattia che comporti la perdita irreversibile delle facoltà psichiche, quando la richiesta è stata espressa in precedenza ai sensi del successivo art.2, comma 3.

2. L’immunità prevista dal comma 1 si estende alle altre persone che hanno fornito mezzi per l’eutanasia o il suicidio assistito e a chiunque abbia collaborato all’intervento sotto la direzione del medico.

Art. 2 – Requisiti e forma della richiesta 1.  L’età minima per presentare la richiesta di cui all’art. 1 è stabilita nella maggiore età. 2  La richiesta può essere verbale o scritta. 3  Nel caso la richiesta si riferisca a eventi futuri, deve essere inserita in un documento sottoscritto davanti a un notaio o ad altro pubblico ufficiale.

Art. 3 – Libertà di scelta Nessuno può essere obbligato a dare seguito, in qualunque forma, ad una richiesta di cui al primo comma dell’art.1.

Art. 4 Effetti giuridici Quando una persona muore a seguito di un atto contemplato all’art.1 della presente legge, ai fini civilistici tale evento è assimilato alla morte per cause naturali e non può essere in nessun caso considerato rottura di rapporti contrattuali o produttivo di conseguenze contrattuali sfavorevoli per la persona interessata o i suoi familiari e aventi causa.

Certo, resta insuperato il problema di fondo. La garanzia legislativa deve operare in modo tale da assicurare che
1. L’individuo sia informato a pieno;
2. Abbia disponibilità di tutti i ragionevoli mezzi di trattamento;
3. Sia esente da depressione clinica o d altre disturbi emozionali che possano influenzare la decisione;
4. Nessun sostituto possa esprimere il consenso. Quale legge riesce a tranquillare su questo punto?

7. Morte pietosa e libera morte: il tormentato percorso

La sacertà della vita è sentita dall’uomo come istinto di conservazione di sé e della specie tutta, sicché anche negli Stati meno legati alla morale tradizionale e ispirati ad ideologie che vogliono prescindere da qualsiasi trascendenza, la coscienza sociale ha posto molta attenzione ai progetti spesso dovuti a minoranze intellettuali libertarie, ma sempre rispondenti alle nuove problematiche della nostra changing society.

La prima proposta di legge fu presentata nel 1906 nell’Ohio; la proposta fu respinta senza discussioni. Nel 1935 fu fondata la prima associazione pro-eutanasia, in Inghilterra, mentre nel ’38, l’America ebbe la sua euthanasia society, che nel ’74 divenne “Associazione per il diritto a morire”.

Negli anni ‘50 delineano le posizioni:  Pio XII nel ’57 distinse i mezzi ordinari e straordinari di mantenimento in vita richiamando l’aderenza alla legge della natura come criterio per risolvere il problema che appariva sempre più rilevante della vita mantenuta sostenendo meccanicamente gli organi e vicariandoli con macchine;  tra gli studiosi del diritto penale, l’autorevole professor Glanville Williams nel ’58 destò scalpore con il suo libro “La sacertà della vita e la legge penale” proponendo l’eutanasia volontaria per i malati terminali in grado di decidere.

Nel 1967 nell’Indiana Law Journal appare il  modello di una dichiarazione di volontà per disporre la propria morte ricorrendo certe condizioni. E i tempi diventano roventi. Nel ’67 la Florida boccia una proposta di legge per il diritto a morire, nel ’69 l’Idaho boccia una proposta di legge per l’eutanasia consentita.

I dibattiti di quegli anni appaiono utili sotto il profilo della miglior definizione e della migliore determinazione del momento della morte, messo in dubbio dall’accanimento terapeutico.

Così nel ’68 la cessazione irreversibile delle funzioni cerebrali, non più quella cuore|polmoni, è considerata appunto morte. Il problema  dell’eutanasia si specifica e suddivide in diverse questioni: eutanasia attiva e passiva, diritto a morire, diritto a rifiutare il trattamento medico [44].

Nel ’76 vi è la prima pronuncia che diviene paradigmatica, della Corte suprema del New Jersey per la disconnessione della macchina respiratoria che teneva in vita artificialmente Caren Quinlan. L’aspetto beffardo in questa faccenda tragica fu che Caren (o una parte del suo organismo?) sopravvisse per altri otto anni senza aiuti meccanici. Nel ’76 la California ed altri Stati americani dichiarano la liceità dell’omissione di cure agli incurabili e si diffondono pubblicazioni su quello che viene chiamato “suicidio di buon senso” [45].

Negli anni 80, mentre l’idea di  morte pietosa lascia il posto nelle associazioni più impegnate sul fronte dell’eutanasia,  all’idea più generale di un giuridico diritto a morire azionabile, il papa Giovanni Paolo II, appunto nel 1980, condanna l’uccisione pietosa, ma dichiara conforme alla legge naturale l’uso degli antidolorifici in modo ampio e il diritto a rifiutare i mezzi straordinari per la sopravvivenza.

È un richiamo al diritto naturale, che prescinde peraltro dalla adesione ad un credo religioso e riafferma le cosiddette strutture ontiche del diritto positivo, quelle che sono patrimonio dell’umanità e che hanno impedito che la specie si autodistruggesse.

Nell’84 l’Olanda dichiara lecita l’eutanasia volontaria sotto certe condizioni. Nell’86 Roswel Gilbert viene condannato in Florida a 25 anni senza condizionale per aver ucciso con un colpo di pistola la moglie malata terminale. Nello stesso anno alla signora Bouvia (malata inguaribile) che aveva visto rifiutata dal Giudice la sua pretesa di lasciarsi morire di inedia, è riconosciuta in appello la sua pretesa a lasciarsi morire. Ma per la signora Bouvia è la vita a decidere, piuttosto che il diritto: la Bouvia non ha fatto uso della facoltà riconosciutale [46].

La battaglia di idee per la vita e per la morte si scatena  nella grande rete, appena essa si apre. Grande  è il fiorire di siti sul problema del diritto di vivere e del diritto di morire[47]. Nel ’90 l’autorevole associazione medica americana si esprime nel senso che un medico può interrompere il trattamento col consenso informato del paziente vicino alla morte e può, come si dice, staccar la spina al paziente in coma permanente.

E gli anni ’90 sono quelli del dottor Kevorkian, noto alle cronache come dottor Morte, definito Wohltätiges Monster[48]; Kevorkian con la sua macchina per il suicidio (thanatron)[49] ha ucciso,  a loro richiesta, oltre 120 malati finché, con sentenza 13.4.1999 di un giudice del Michigan, è stato condannato a 25 anni di reclusione dopo aver mostrato in TV la morte per suicidio di un suo paziente [50].

Nel ’90 l’Oregon respinge un progetto di legge in materia di eutanasia. Così nel ’91 lo Stato di Washington respinge un progetto per legalizzare il suicidio assistito dal medico, ma nel 1994, nel caso Compassion versus Washington, la Corte dichiara incostituzionale la norma che incrimina il suicidio assistito dal medico quando il soggetto, malato terminale,  sia libero, informato e consenziente.

Peraltro l’anno successivo la Corte d’Appello, nello Stato di Washington ristabilisce la Legge antisuicidio; non è finita, poiché nel 1996 il nono circuito della Corte d’Appello riiprende in esame il caso Compassion e afferma il diritto al suicidio assistito. Anche il caso Quill viene riveduto in sede d’Appello ammettendosi il suicidio assistito.

Nel ’97, finalmente interviene la Corte Suprema la quale riconosce il principio di liceità dell’effetto indiretto, affermando che la morte affrettata da trattamento palliativo non costituisce condotta proibita se e in quanto la finalità del trattamento sia la riduzione del dolore. Nel ’97 il Parlamento inglese respinge ogni riforma sul tema della scelta per la morte, mentre nello stesso anno l’Oregon vota con un referendum contro l’annullamento della Legge del 94 sulla morte decorosa, tanto che al 2000 sono 31 i morti in Oregon per suicidio assistito dal medico.

Se cerchiamo di dare un senso a questo percorso tenendo conto della sua influenza sulla coscienza sociale in ordine al precetto vivi e aiuta a vivere, direi che la tendenza pro-eutanasia ha avuto dalla sua l’adfirmative action dei suoi operatori, che talvolta hanno accettato il rischio di gravi condanne, come nei casi del dott. Kevorkian e del dott. David Moor [51], ma gli anni stanno lentamente facendo superare il dissenso polarizzato e estremista a favore della ricerca di soluzioni che tengano conto delle reali esigenze dell’uomo.

La battaglia contro l’eutanasia sul piano legale, si svolge anche su questioni che sfuggono al pubblico ma in fondo sono assai importanti perché impediscono che certe prassi – magari condizionate da interessi esclusivamente economici – entrino nell’uso, senza che la gente se ne renda nemmeno conto: l’Associazione Mut zur Ethik (impegno per l’etica), ad esempio, agisce legalmente perché non venga concesso il brevetto  europeo per l’uso di prodotti mortiferi, da utilizzarsi per l’eutanasia,  in Europa; nel Kansas è in vigore una Legge (2000) che ammette l’obiezione di coscienza da parte dei farmacisti che non vogliano vendere sostanze che violino le loro convinzioni religiose e morali quindi anche quelle relative al suicidio assistito, alla eutanasia.

Nella causa Sampson vs Alasca (corte sup. dell’Alasca) del 1999 sono state invocate le garanzie costituzionali di privacy, di libertà e di uguaglianza per sostenere il diritto al suicidio assistito dal medico.  L’istanza è stata respinta.

In Cooley vs Granholm (Giudice del Michigam) è stato invocato il 14° emendamento della Costituzione contro il divieto di suicidio assistito del Michigam.

Nel caso Sanderson vs People (Corte suprema del Colorado), l’aspetto particolarmente interessante è che l’impugnativa avverso la Legge del Colorado che criminalizza il suicidio assistito, era fondata sulla affermazione che la libera volontà, quindi la libera disponibilità del corpo, è una credenza religiosa e pertanto viola la clausola costituzionale del libero esercizio religioso [52]. La Corte d’Appello e poi la Suprema Corte del Colorado hanno respinto nel 2000 questa richiesta.

In Cooley vs Granholm (Giudice del Michigam) è stato invocato il 14° emendamento della Costituzione contro il divieto di suicidio assistito del Michigam.

8. Leggi vigenti. Riferimenti

La polemica ha trovato un punto diciamo così di coagulo, quando il senato olandese nel 1999 ha approvato la legge che legalizza l’eutanasia. E’ il sì definitivo alla normativa, passata con 46 voti a favore e 28 contrari.

Durante il dibattito in aula migliaia di persone hanno manifestato nella piazza centrale dell’Aja contro il provvedimento. La legge approvata in via definitiva dal Senato olandese non elimina dall’ordinamento i reati di eutanasia e suicidio assistito – che continuano ad esistere e restano quindi punibili – ma li depenalizza nei casi in cui vengono rispettate le condizioni previste dallo stesso provvedimento.

Ecco, in sintesi, cosa prevede il provvedimento: Per non essere perseguibile, un medico che pratica l’eutanasia o presta assistenza in un suicidio deve essere persuaso che  il paziente “ha fatto una scelta volontaria e ben meditata” e che ha di fronte a sé “sofferenze insopportabili”. Inoltre, deve aver informato il malato sulla sua situazione e su ciò che lo attende e condividere la valutazione “che non esiste alcuna ragionevole soluzione” alternativa alla “dolce morte”.

Il medico è tenuto inoltre, prima di accogliere la richiesta del paziente, a consultarsi con un collega indipendente, che deve verificarne le condizioni e dare per iscritto il suo consenso. La dichiarazione di volontà: la legge riconosce in modo esplicito la validità di una dichiarazione scritta del paziente in cui si esprime  l’intenzione di ricorrere  all’eutanasia.

Il medico, peraltro, non può esimersi dalle valutazioni e dal rispetto delle condizioni fissate dalla normativa, sia che la richiesta giunga da un malato ancora lucido, sia che venga da un paziente non più in grado di intendere e di volere che pure abbia in precedenza compilato una dichiarazione di volontà.

I minori: una prima versione della legge – poi emendata – prevedeva che i ragazzi di età superiore ai 12 anni potessero scegliere in modo autonomo la “dolce morte”. La soglia è stata poi elevata a 16 anni. Per i giovani fra i 12 ed i 16 anni, è necessaria l’approvazione dei genitori o del tutore.

Le commissioni di verifica: già esistenti nell’attuale legislazione, sono composte a livello regionale da almeno tre specialisti in campo legale, medico ed etico. Saranno questi organismi a verificare il rispetto di tutte le condizioni previste nei casi di eutanasia o suicidio assistito e, in caso negativo, a far entrare in campo la magistratura.

Le procedure conservano comunque il potere di aprire indagini nei casi in cui sospettano che sia stato commesso un reato. Resta in discussione il suicidio assistito che dovrebbe esser lecito secondo i promotori non solo nell’ipotesi di morte con dignità del malato terminale atrocemente sofferente,  ma anche quando risponda alla scelta autodistruttiva di chi senta invincibile il disagio dell’esistere [53].

La legge australiana è in questo senso piuttosto permissiva mentre la legge dell’Oregon sotto il titolo di “Morte con dignità” ha avuto una applicazione piuttosto limitata e lo Stato ha cercato di stabilire delle linee-guida; Nell’Oregon, comunque, in applicazione di tale legge permissiva, 39 malati hanno affrettato la morte attraverso il suicidio assistito nel 2000 [54]. È prevista una iniziativa legislativa governativa, contro la Legge della morte con dignità in base al fatto che prescrivere medicine mortali non risponde al legittimo scopo medico (sanare) che richiede la Legge (vedi oltre).

In Svizzera la legge ammette che il medico prepari, a richiesta, la pozione mortifera. La condotta necatoria è riservata al suicida. L’istigazione e l’aiuto al suicidio sono delitti, segua  la morte o no. Il delitto è più grave se commesso per motivi egoistici (lucro e/o desiderio di liberarsi  di un carico pesante di cure). In assenza di  motivo egoistico l’aiuto al suicidio non è reato.

Il Codice penale svizzero, art. 114, prevede l’omicidio del consenziente come crimine, ma la pena ha un massimo di tre anni di prigione: chiunque per motivi apprezzabili (honorables), in particolare per pietà, accetta la richiesta meditata e “pressante” d’una persona e l’aiuta a metter fine ai suoi giorni, subisce pena di prigione. Gli atti di eutanasia consentita sono equiparati all’omicidio grave o meno grave. La disciplina svizzera merita attenzione poiché come si vede sposta il presupposto della punibilità dal fatto al motivo che è il fattore essenziale per determinare la colpa.

La ragione di politica criminale di questa normativa è certamente il fatto che chi ha aiutato a morire per pietà non delinquerà in futuro. Nelle Haway, infine, è stata approvata una legge (19 gennaio 2001) che autorizza la morte con dignità (induzione della morte indolore da parte di un medico) purché vi sia una richiesta o una autorizzazione scritta in precedenza di un paziente che abbia una infermità incurabile che si ritiene causerà grave dolore o renderà il paziente  incapace di resistenza secondo ragione.

Quest’ultima Legge è coerente con la linea evolutiva che un rapido survey lascia intravvedere per il prossimo futuro.

9. Conclusione: sanare i disagi, lenire il dolore, rispettare la vita.

L’esigenza di una riforma della disciplina per l’eutanasia (e più in genere per il suicidio) in Italia è sostenuta da significativa parte dell’opinione pubblica e degli studiosi [55].

Ritengo che si debba far certezza, in questo campo che impegna la coscienza dell’uomo, ma  il punto di partenza per rispondere a chi chiede di essere aiutato a morire  non è tanto quello della libertà in senso astratto, quanto la constatazione che chiunque chiede di morire è in gravissimo disagio fisico e/o mentale. Invece di ridurci a chiederci come può la società aiutare il disagiato ad uccidersi?, ci dobbiamo porre il compito prioritario di rispondere alla domanda quali mezzi la società può offrire per ridurre il disagio di quel vivere e prevenire così la richiesta?

Lascio qui da parte il problema del suicidio per disagio sociale (che pure diventa rilevante tra i giovani e giovanissimi) e mi riferisco soltanto alla morte cercata per le situazioni patologiche terminali attuali o eventuali.  Per l’eutanasia non consensuale evidentemente si deve mantener fermo il  riferimento all’art. 575 cod. pen., ma riterrei ragionevole e giusta una  novella che preveda un attenuante per l’uccisione pietosa del congiunto sorretta dal dolo specifico del solo scopo di por fine alla sofferenza [56].

Difficile posizione, quella del medico, spesso implorato di dar la morte. Ma forse pericoloso sotto il profilo criminologico farlo arbitro dell’altro, al quale non è legato da quella identificazione che ha lo stretto congiunto, sicché potrebbe essere animato talvolta da motivi egoistici [57]. È inutile sottolineare che la decisione fatale del malato o dei congiunti, nei casi di aiuto o agevolazione al suicidio o più in genere di eutanasia attiva, è connessa e condizionata dalle informazioni e dall’atteggiamento del medico, tanto che qualcuno ha parlato di “illusione della scelta del paziente [58]”.

Ma il problema autentico – quello da risolvere, non da eludere con la morte – è quello della sofferenza e del dolore del malato [59]. Forse la scelta per la morte dice soltanto che il dolore fisico o la sofferenza morale è divenuta intollerabile [60]. La medicina sempre più specializzata, il carattere impersonale delle cure, l’insistenza sui trattamenti di breve durata, l’accento posto sulla lotta alla malattia piuttosto che su un approccio sistematico ai bisogni della persona, hanno reso particolarmente drammatico il problema della sofferenza e del dolore del malato.

La medicina attuale, dimentica talvolta – ed è il risvolto negativo della sua meravigliosa efficienza – che “il nostro approccio dev’essere sempre diverso da paziente a paziente in relazione al particolare significato della malattia”, come scrive Callieri. Spetta al diritto farsi strumento sociale della lotta contro le sofferenze e il dolore. E io credo che il precetto metagiuridico,  la via d’obbligo per il legislatore futuro, che si induce dalla sintesi del sistema giuridico italiano, dai riferimenti al sistema internazionale, dalle indagini demoscopiche, dai contributi scientifici, sia quello di rispettare la vita, lenire il dolore che poi è l’antico precetto dei medici.

Tale precetto diviene principio costituzionale (abbiamo richiamato alcune norme chiave). E qui la scienza può essere veramente ancella dell’etica e del diritto donando alternative tecniche praticabili, da imporre per legge agli operatori, al desolante varco verso la morte.

I progressi delle cure palliative [61] possono eliminare l’argomento principale a favore dell’eutanasia, che, si sostiene, è l’unica opzione per i pazienti la cui qualità della vita è infima. Se e in quanto l’eutanasia proclama di avere il fine di far cessare la sofferenza, essa può essere sostituita dalle cure palliative che possono eliminare o ridurre fortemente il dolore, anche se in taluni casi, tali trattamenti portano poi alla estinzione del soggetto.

Il dolore è una malattia che può e deve obbligatoriamente essere curata [62]. A mio avviso il passo più importante (portato avanti negli Stati Uniti), è la Legge per la promozione del sollievo dal dolore e la Legge per il superamento del dolore.

La Legge americana (sul presupposto che abbiamo  detto per il quale Il dolore è una malattia che può e deve obbligatoriamente essere curata), autorizza una spesa di milioni di dollari sia per l’informazione sul trattamento del dolore alla famiglie, ai medici e per fornire i servizi di terapia antidolore. Forse una svolta in senso lenitivo e non distruttivo si prospetta per l’Oregon: è prevista una iniziativa legislativa da parte dell’attuale amministrazione contro la Legge della morte con dignità in forza del principio che prescrivere medicine mortali non risponde al legittimo scopo medico (sanare) che richiede la Legge, potenziando al massimo l’intervento e la ricerca contro il dolore [63].

La sensibilità al problema da parte dei giuristi è rilevante: il 13 giugno 2001 la Corte Superiore della Contea di Alameda ha concesso un  risarcimento di un milione e mezzo di dollari a un certo Bergman a carico di un medico che non aveva prescritto adeguate medicine contro il dolore. La giuria ritenne  che la mancata terapia un medico che non aveva prescritto adeguate medicine contro il dolore. La giuria ritenne  che la mancata terapia del dolore costituisce  condotta   negligente, quindi una lesione colposa risarcibile, mentre la Corte stessa escluse il comportamento doloso del medico.

Il problema del dolore è certamente da affrontarsi da parte dello Stato legislatore con interventi ad ogni livello.  Una  ricerca condotta in tutti i ricoveri degli Stati Uniti durante il 1999 ha dimostrato che il 14,7 dei residenti erano in stato di dolore persistente e il 41,2 dei residenti dopo due mesi di residenza erano in stato di grave sofferenza.

Così Stefan G. Weis in un articolo in The lancet riferisce che di 978 malati terminali da lui intervistati, il 50% dei pazienti dichiarava moderato o forte dolore. È tale massa di dolore un male che la legge – se la scienza lo permette – può tollerare, o la legge incurante viola lo stesso precetto costituzionale della salvaguardia della salute proclamato all’art. 36 Cost.?

Sul punto in Italia siamo agli inizi. Allora, dunque, a questo punto, credo che l’ordine giuridico debba mantenere le barriere penalistiche alla eliminazione del sofferente, confermare in modo chiaro la artificiosità dannosa dell’accanimento terapeutico che non dona altra vita ma soltanto sofferenza, e facilitare al massimo, invece, attraverso interventi medici e paramedici di ogni tipo, attraverso anche il finanziamento alla ricerca e l’educazione del personale sanitario e dei cittadini, un miglioramento attraverso le cure palliative della qualità della vita dei soggetti.

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