Thanatos ed eutanasia

mortepubblicato in Cristianità n. 249 (1996)

di Lorenzo Cantoni, Giovanna Fravolini

La morte “selvaggia”. Rifiutata, nascosta, truccata

“L’antico atteggiamento, in cui la morte vicina e familiare è, al tempo stesso, rimpicciolita e sdrammatizzata, è troppo in contrasto col nostro; della morte noi abbiamo tanta paura da non osar più pronunciare il suo nome. “Perciò, quando diciamo di questa morte familiare che è addomesticata, non intendiamo dire che prima era selvaggia e che in seguito è stata addomesticata. Vogliamo dire, al contrario, che è diventata selvaggia oggi” (1).

La società moderna ha il terrore della morte. E a buon diritto.

Una volta rifiutato ogni senso trascendente alla vita umana, ridotta a vita biologica di un corpo-macchina (2) , la morte si è trovata a essere — insieme ed enigmaticamente — la banale interruzione della funzionalità di una macchina, e la fine inappellabile e senza senso di ogni uomo. E perciò viene anzitutto nascosta, con tutto quanto a essa richiama, a cominciare dal luogo-cimitero.

Una delle più importanti modalità con cui questo nascondimento viene attuato è certamente l’ospedalizzazione della morte e la sua medicalizzazione: il malato detto “terminale” — una delle numerose strategie linguistiche di occultamento della realtà della morte e del morire — viene isolato dal resto della comunità, frequentemente abbandonato da famigliari e da amici, e affidato alle sole cure del personale sanitario.

I medici e — soprattutto — gli infermieri si trovano così a dover gestire la maggior parte delle morti, tacitamente investiti da una società che fugge la morte e che le rifiuta ogni senso, dell’insostenibile compito di rispondere alle angosciate domande degli agonizzanti, domande sul senso della loro vita e della loro morte sì, ma anche richieste di affetto, di compassione e di calore.

I membri del personale sanitario, cui la cultura diffusa consente di percepirsi solo come “tecnici della salute” di corpi-macchina, si trovano allora a dover costantemente fronteggiare — e fuggire — il fallimento completo e definitivo della loro attività. Se i recenti fenomeni della medicalizzazione e dell’ospedalizzazione della morte costituiscono una delle condizioni storiche più importanti per inquadrare l’attuale dibattito sull’eutanasia, un’altra strategia — accanto a quelle del rifiuto e della fuga — merita un cenno: è quella della morte truccata.

Infatti, la diffusione panica della fobia delle morti reali — anzitutto della mia morte — si accompagna a un’ostentazione altrettanto panica di morti fittizie: la celebrazione televisiva e cinematografica del rito crudele di morti tanto numerose quanto finte e orribili costituisce un ossessivo sforzo di esorcizzazione delle morti vere, prive — queste — di effetti speciali, ma pur dotate di quell’effetto naturale di porre radicalmente la domanda sul senso, escludendo insieme ogni risposta parziale, fittizia o evasiva. Lo spettatore di un film non è chiamato a rispondere di fronte alle domande che l’agonizzante pone — e alla magna quaestio che egli stesso è diventato (3) —, è anzi del tutto irresponsabile di fronte alle morti fittizie (4).

La “morte dolce” procurata

In questo contesto culturale si pone oggi il problema dell’eutanasia (5). Si pone anzitutto come problema di comprensione e di definizione, non semplicemente di parole, ma della realtà che esse indicano: che cosa è l’”eutanasia”?

Eutanasia e suicidio medicalmente assistito: cenni definitori

Dopo aver già da tempo abbandonato il legame con l’etimo greco — eu-thánatos, “morte buona” —, il termine eutanasia viene usato nell’attuale dibattito in sensi spesso molto diversi.

Frequentemente si distingue fra eutanasia attiva — o positiva, o diretta —, là dove il medico, o chi per lui, interviene direttamente per procurare la morte di un paziente, ed eutanasia passiva — o negativa, o indiretta —, dove si ha invece astensione da interventi che manterrebbero la persona in vita.

Si distingue inoltre fra eutanasia volontaria, quella esplicitamente — e reiteratamente — richiesta dal paziente, ed eutanasia non volontaria, quando la volontà del paziente non può essere espressa, perché si tratta di persona incapace; in lingua inglese la distinzione è fra voluntary e nonvoluntary, ed esiste anche il caso di un’eutanasia involuntary, quella cioè praticata contro l’espressa volontà del paziente.

Eutanasia si oppone talora a distanasia, a indicare invece l’astensione da interventi medici di prolungamento della vita non rispettosi della dignità del paziente. Prossimo concettualmente e fattualmente all’eutanasia, benché distinto da essa, è poi il suicidio medicalmente assistito — physician assisted suicide o, eufemisticamente, p.a.s. —, in cui la morte è conseguenza diretta di un atto suicida del paziente, ma consigliato e/o aiutato da un medico.

Si tratta, come si vede, di una mappa di significati tutt’altro che omogenea e definita, e assai sensibile alla prospettiva teorica adottata. Una definizione completa e precisa — che verrà seguita in questo testo — è quella contenuta nella Dichiarazione sull’eutanasia “Iura et bona”, pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nel 1980: “Per eutanasia s’intende un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati” (6).

Sofferenza, trattamento del dolore ed eutanasia

Una delle caratteristiche definitorie dell’eutanasia è il suo obiettivo di ridurre la sofferenza. Talora si ritiene che la richiesta di un intervento eutanasico o di un’assistenza al suicidio da parte dei pazienti sia direttamente proporzionale alla gravità della loro malattia, e alla loro sofferenza. Si tratta, invero, di una semplificazione indebita.

Se prendiamo in esame i casi di suicidio, per esempio, “i malati terminali costituiscono solo una piccola porzione del numero totale di suicidi. In effetti, la maggior parte delle persone che si uccidono gode di una buona salute fisica. Fra tutti i suicidi solo tra il due e il quattro percento sono malati terminali [7].

Uno studio condotto su adulti oltre i cinquant’anni ha mostrato che persone erroneamente convinte che stavano morendo di cancro si suicidarono in un numero maggiore rispetto a quelle che avevano effettivamente una malattia terminale. Questo studio supporta la stima secondo cui due terzi degli anziani che muoiono per suicidio godono di una salute relativamente buona [8].

“Gli individui con una grave malattia cronica e terminale hanno un rischio di suicidio maggiore — alcuni studi suggeriscono che il rischio per i pazienti di cancro è di circa due volte quello della popolazione globale. Alcuni esperti però hanno osservato che molti pazienti terminali sperimentano un fenomeno chiamato cancer cures psychoneuroses. Questo fenomeno si ha quando i pazienti si rendono conto di avere un cancro o un’altra malattia progressivamente terminale, e quando il processo con cui fanno fronte e dominano la loro paura della morte dissolve molte altre ansie o nevrosi. Come spiegato da uno psichiatra, “quando l’attenzione di una persona si allontana dai divertimenti banali della vita, può emergere un apprezzamento più pieno dei fattori elementari dell’esistenza” [9].

“Perciò alcuni pazienti terminali possono presentare uno stress psicologico inferiore a quanto ci si possa aspettare. A parte le circostanze in cui i pazienti sono depressi, i malati terminali hanno spesso capacità di ripresa, e lottano per la vita attraverso le loro malattie. Gli studi indicano che su molti pazienti con grave sofferenza, sfiguramento o disabilità, la grande maggioranza non desidera il suicidio. In uno studio su pazienti malati terminali, fra quelli che espressero una volontà di morire, tutti soddisfacevano i criteri di diagnosi della depressione endogena [10]. Come gli altri suicidi, i pazienti che desiderano il suicidio o una morte anticipata durante una malattia terminale soffrono solitamente di una malattia mentale che può essere trattata, per lo più di depressione [11] (12).

L’esperienza degli hospice, cliniche il cui scopo è l’umanizzazione dell’assistenza ai pazienti in fin di vita e il trattamento del dolore — le cosiddette cure “palliative” —, infirma ulteriormente questa correlazione sofferenza-desiderio di morire apparentemente così ovvia (13).

“Pazienti con una sofferenza non controllata possono vedere la morte come l’unica fuga dalla sofferenza che stanno sperimentando. In ogni caso, la sofferenza non è solitamente un fattore di rischio indipendente. La variabile significativa nel rapporto fra sofferenza e suicidio è l’interazione fra sofferenza e sentimenti di disperazione e depressione. Come affermato da uno psichiatra: “La sofferenza gioca un ruolo importante nella vulnerabilità al suicidio; comunque l’associazione di un disagio psicologico e di un disturbo dell’umore sembrano essere co-fattori essenziali nell’alzare il rischio del suicidio del malato di cancro” [14] (15).

Eliminato il pregiudizio di cui s’è detto, è possibile ora far cenno ad alcuni aspetti giuridici dell’eutanasia. Benché il parlamento inglese avesse discusso già nel 1936 una proposta di legalizzazione dell’eutanasia, e con l’eccezione della legislazione nazionalsocialista, fino a un periodo molto recente essa non ha avuto posto nella legislazione come fattispecie a sé: le pratiche eutanasiche venivano ricondotte, a volta a volta, ad altre fattispecie esistenti, solitamente all’omicidio e al suicidio. In questo contesto giuridico si situa, con effetti la cui portata non è ancora pienamente prevedibile, la depenalizzazione dell’eutanasia avvenuta nel Regno dei Paesi Bassi nel 1994. Con questo caso — e con l’ancor più recente caso australiano — deve ora confrontarsi la ricerca; tale confronto servirà a offrire, oltre che preziosi elementi di fatto, anche ulteriori coordinate per una valutazione etica dell’eutanasia.

Il caso olandese

Il tema dell’eutanasia ha assunto un posto di primo piano nei mezzi di comunicazione sociale in seguito alla definitiva approvazione nel Regno dei Paesi Bassi della modifica all’articolo 10 del Regolamento di Polizia Mortuaria — e non di una legge sull’eutanasia, come i mass media hanno divulgato —, che stabilisce, a partire dal giugno del 1994, la non punibilità dei medici che abbiano aiutato a morire i propri pazienti, ma siano in grado di dimostrare di aver rispettato una serie di condizioni estremamente precise, come puntualizzato nel comunicato stampa del ministero della Giustizia del Regno dei Paesi Bassi nel novembre del 1993.

Infatti l’eutanasia non è stata depenalizzata come reato, ma è stata introdotta fra le cause di morte che devono comparire obbligatoriamente nel certificato di decesso. Come dimostra l’approvazione definitiva della modifica al Regolamento da parte della prima Camera avvenuta con 37 voti favorevoli contro 34 contrari, si è trattato di un passo che il Regno dei Paesi Bassi ha compiuto fra estremi contrasti, non destinati a finire dal momento che il provvedimento in esame introduce misure di controllo sull’operato dei medici (16).

Infatti, affinché un medico possa praticare eutanasia e non essere poi sottoposto a procedimento penale, occorre che il paziente sia affetto da malattia incurabile, vi siano sofferenze insopportabili nonché la richiesta reiterata da parte del malato di essere eutanasizzato e, infine, la conferma delle condizioni sopra richiamate da parte di un collega. L’atto eutanasico deve essere documentato da una relazione scritta da cui risultino non solo gli elementi di cui sopra, ma anche la storia clinica del paziente nonché i mezzi utilizzati per l’eutanasia (17).

La relazione viene poi notificata dal medico curante a un pubblico ufficiale con funzioni giudiziarie, il coroner (18), con il compito d’indagare sulle morti non naturali, il quale, se ne ravvisa gli estremi, trasmette la pratica alla pubblica accusa, che deciderà se archiviare il caso o aprire un procedimento penale che si concluderà con una sentenza di condanna qualora vengano riscontrati gli estremi del reato previsto dall’articolo 293 del codice penale olandese: “È prevista la reclusione fino a 12 anni per chi toglie la vita a una persona su espressa richiesta di quest’ultima”, o del reato previsto dall’articolo 294 del medesimo codice: “Chi deliberatamente incita un altro a commettere suicidio, lo assiste in questo o gli fornisce gli strumenti per commetterlo è punito, se il suicidio viene commesso, con la detenzione fino a tre anni”.

Le premesse culturali del caso olandese e alcuni rilievi giuridici

A questo punto, è allora lecito chiedersi, data la vigenza degli articoli 293 e 294 del codice penale, in che modo il legislatore olandese abbia previsto la possibilità per i medici di sfuggire alla condanna penale nell’ipotesi in cui questi contribuiscano a facilitare la morte del paziente.

Ricorrendo all’articolo 40 del medesimo codice, che prevede la discriminante della forza maggiore: “Non è punibile chi viene costretto a commettere un reato sotto una coercizione cui non è in grado di resistere”. Il dolore, la sofferenza, la disperazione che si identificherebbero con la forza maggiore nel Regno dei Paesi Bassi costituiscono, allora, base di una diversa cultura della morte.

Infatti, si ritiene che “la malattia alteri oggettivamente lo stato giuridico ed esistenziale dell’essere umano e corroda oggettivamente quella dignità che giustifica la difesa della vita” (19).

Ora, esaminando l’articolo 40 del codice penale olandese si evince che il medico agisce commettendo un reato — l’uccisione del paziente —, spinto da una coercizione cui egli non è in grado di resistere, ma questa forza — intesa in senso di forza extraumana per cui il soggetto non agit sed agitur —, cui il professionista non può sottrarsi, altro non è che la sofferenza insopportabile, lo sgomento, lo smarrimento angoscioso, l’agonia del paziente vista come forza esterna che per il suo potere superiore determina il soggetto attivo — medico — in modo necessario e inevitabile a un comportamento attivo — eutanasia attiva, intervento attivo — o passivo — eutanasia passiva.

L’applicazione in tal senso della forza maggiore, quale causa di esclusione della perseguibilità in sede penale, è possibile perché la sofferenza è vista dall’ordinamento giuridico olandese come forza che annulla la volontarietà dell’azione, ma soprattutto come avvenimento contro cui non è possibile lottare data la sua inevitabilità (20).

Da ciò risulta come nel Regno dei Paesi Bassi sia radicata la consuetudine in base alla quale si dà fine a una vita per eliminare il problema del dolore; e in tal senso riceve approvazione da parte della società la condotta di chi agisce con questo scopo, essendo il suo agire pervaso da valore morale o sociale tanto elevato da sminuire l’antisocialità dell’azione.

Ma è proprio dal ricorso a questa discriminante che vengono in evidenza i primi aspetti paradossali di un tale sistema normativo. In altri termini: ritenere che è rispettoso per la dignità della persona interrompere la sua esistenza. In tale modo si viene a creare una discriminazione fra vita — sana — e vita — malata —, cosa che è contraria a qualsiasi logica giuridica e morale, ma che la situazione olandese sembra affermare ponendo in tal modo la categoria delle persone malate fuori dall’ordinamento giuridico.

Si pongono a questo proposito anche altre problematiche fondamentali, quali quella dell’attualità e della validità del consenso all’atto eutanasico. Infatti, una volontà diretta a chiedere eutanasia andrebbe da un lato ritenuta giuridicamente e deontologicamente accettabile solo se manifestata da un soggetto in uno stato di assoluta lucidità mentale e di capacità d’intendere e di volere e si dubita fortemente che una grave e inguaribile malattia, che provoca sofferenze insopportabili, possa rendere valido il consenso espresso dal paziente; dall’altro lato, la volontà di essere eutanasizzato dovrebbe essere contestuale all’atto medico: cosa che qui non accade perché il medico si basa sulla volontà del paziente espressa antecedentemente rispetto al verificarsi dell’evento.

Da qui la critica in base alla quale una dichiarazione d’intenti e d’intenzionalità non può dirsi esaustiva della volontà di una persona allorché sia espressa in tempi e circostanze diverse da quella cui sembra riferirsi, perché con il passare del tempo potrebbe verificarsi un mutamento d’intenti. Si possono muovere così a questa situazione le stesse critiche che generalmente si fanno al living will (21) ossia al testamento biologico con cui si dispone della propria vita al verificarsi di certe future ipotizzabili patologie: la mancanza di contestualità.

Il caso australiano

Nel Territorio del Nord della Federazione Australiana, a partire dal giugno del 1995, è entrata in vigore una legge, sostenuta dalla Federazione Australiana per l’AIDS, dal Royal College of Surgeons e dall’Anti-Cancer Council, che disciplina la possibilità di richiedere l’eutanasia attiva, denominata “Legge dei diritti del malato terminale” (22) la quale, senza dubbio, risulta essere un ulteriore “progresso” rispetto alla normativa del Regno dei Paesi Bassi.

Infatti, la legge legittima la possibilità per il paziente cosciente e maggiorenne di richiedere l’eutanasia nell’ipotesi in cui questi sia affetto da una malattia incurabile e inguaribile e le sofferenze siano talmente forti che nessuna terapia sia in grado di alleviarle.

A differenza della normativa olandese quella australiana tende a sottolineare in modo ancora più incisivo l’esistenza di un “diritto alla morte”, dal momento che, nel tentativo di rivalutare l’eutanasia come morte indolore, viene inquadrata come un trattamento medico posto a tutela della persona, accettando così che anche altre persone, nel caso in cui il paziente sia incapace, possano firmare, in rappresentanza del malato e alla presenza dei testimoni, una richiesta di eutanasia; l’unica preoccupazione a tale proposito da parte della legge è che non vi siano influenze dirette a favorire richieste in tal senso da parte di estranei sul paziente.

Inoltre, ulteriore timore è quello di evitare che coloro che possono trarre un vantaggio patrimoniale dalla morte del paziente spingano quest’ultimo a chiedere la “dolce morte”. L’unico limite alla realizzazione dell’eutanasia è l’efficacia delle cure palliative: infatti, finché queste potranno alleviare le sofferenze i medici dovranno rifiutarsi di dar seguito a qualsiasi richiesta in tal senso.

Ma l’aspetto più sconcertante di tale normativa consiste nel non prevedere, almeno specificamente, ipotesi di condanna dei medici che effettuino l’eutanasia in mancanza dei requisiti previsti: il paziente deve essere maggiorenne, vi devono essere sofferenze atroci, una malattia inguaribile, il certificato di richiesta firmato dal paziente, il certificato di uno specialista che attesti lo stato della malattia e uno dello psicologo con cui si dichiari che il paziente non sia in stato di depressione.

Infatti, la legge dispone solo che il medico che ha effettuato la “morte annunciata” deve spedire una copia del certificato di morte al coroner, il quale deve dare avviso al Procuratore Generale del numero dei pazienti che sono morti per eutanasia. Il Procuratore Generale riporterà tale numero all’Assemblea Legislativa. Infine, è ancora da sottolineare come dubbi ulteriori sorgano dalla lettura della legge quando si parla di pazienti per i quali occorra l’interprete; una tale notazione può indurre a un’unica riflessione, identificando così il Territorio del Nord della Federazione Australiana come terra di migrazione in cui può essere esercitato da ognuno il proprio diritto a morire.

La “morte dolce”: i suoi presupposti e alcune conseguenze

S’è detto del complesso rapporto fra sofferenza e suicidio o desiderio di morire. Pure, nell’eutanasia — e nella sua approvazione sociale e legalizzazione — vi è un elemento nuovo: l’intervento di un’altra persona, quasi sempre di un medico o di un operatore sanitario, intervento inteso ad alleviare il dolore con il porre un termine alla vita del paziente.

Si tratta, anzitutto, di una risposta tutt’altro che ovvia: un omicidio sarebbe l’aiuto adeguato a un sofferente; ovvero si verrebbe addirittura a configurare un dovere da parte di qualcuno — il medico o chi per lui — di uccidere una persona che gliene faccia richiesta; o, ancora, si attribuirebbe a qualcuno — medico, giudice, famigliare? — il diritto di stabilire se una vita innocente sia meritevole o no d’essere vissuta.

“Bisogna rispettare la libertà del paziente”, si ripete spesso da parte dei sostenitori dell’eutanasia, incorrendo così nell’aporia dello schiavo: si può rinunciare liberamente alla libertà, alla condizione fondamentale del suo normale esercizio, la vita? La richiesta del sofferente è piuttosto quella che gli si allevi il dolore, e tale è la responsabilità del medico, la cui vocazione è di farsi prossimo al paziente e di alleviarne le sofferenze fisiche e spirituali, non quella di essere arbitro della sua vita e della sua morte (23).

La condizione per ammettere la liceità — e la legalità — dell’eutanasia è dunque l’affermazione di un diritto onnipotente e irresponsabile dell’uomo a disporre della propria vita, con aggiunto — si tratta di un corollario non casuale, una volta accettato il modello del medico-tecnico — un curioso obbligo da parte di alcuni, i medici e/o il personale sanitario, di realizzare l’atto eutanasico richiesto.

È vero: a volta a volta la cultura e la legislazione si sono impegnate — lo si è visto nel caso olandese e in quello australiano —, e presumibilmente s’impegneranno, a porre limitazioni a tale diritto e a tale dovere: ma si tratta d’incoerenze locali, che non hanno alcun fondamento teorico una volta ammesso un ipotetico diritto all’eutanasia.

Affermato che la vita senza valore può essere soppressa, a chi spetterà poi il diritto e l’onere di stabilire quando la vita è tale? Perché, infatti, dovrebbero “beneficiare” del diritto all’eutanasia solo i malati, o solo gli anziani, o solo i malati gravi?

Perché non dovrebbe essere come scrivono con sconcertante coerenza Roland Jaccard e Michel Thévoz nel loro Manifesto per una morte dolce, secondo cui “ogni individuo dovrebbe avere il diritto di disporre di sé, di drogarsi, di uccidersi, per ragioni che riguardano lui soltanto, perché è sieropositivo o perché quel mattino piove. Non è in alcun modo giustificato attendere l’agonia per concedergli questa libertà” (24)?

Tale diritto presuppone e implica infatti un più generale diritto al suicidio, più lo strano dovere di cui s’è detto: la vita umana è, in questa prospettiva, un bene completamente disponibile per chi ne è soggetto, di nuovo con il limite che il medico ha, che lo assoggetta al volere altrui per quanto riguarda l’intervento eutanasico.

Due notevoli effetti della legalizzazione dell’eutanasia

Prima di procedere oltre nell’analisi etica conviene almeno far cenno a due possibili e importanti conseguenze di una legalizzazione, o comunque di una diffusione della prassi eutanasica. La prima sarebbe l’affievolirsi dell’attenzione al trattamento della sofferenza: uno studio del 1994 ha documentato che malati di cancro appartenenti a minoranze etniche negli Stati Uniti d’America avevano possibilità tre volte maggiori di ricevere un trattamento inadeguato della sofferenza rispetto agli altri pazienti (25).

Laddove l’opzione eutanasica fosse accolta come possibile, ne conseguirebbe molto probabilmente un affievolimento dello sforzo teso a ridurre la sofferenza, soprattutto per quanto riguarda i gruppi socialmente ed economicamente più deboli, per i quali il ricorso all’eutanasia diventerebbe la soluzione più “ovvia” ed economica. Il secondo prevedibile effetto è ancora più grave ed esteso: una volta introdotta la possibilità dell’opzione eutanasica, si avrebbe infatti una sorta d’inversione dell’onere della prova della dignità e del valore di ogni vita umana.

In altre parole: il paziente terminale dovrebbe continuamente giustificare la propria scelta di non richiedere l’eutanasia di fronte ai famigliari e al personale medico. Ecco come J. David Velleman, autore peraltro non contrario all’eutanasia, tratteggia una tale prospettiva: […] se mai la gente giungesse a guardarti come esistente per scelta, potrebbe aspettarsi che tu giustifichi il tuo continuare a esistere. Se la tua venuta quotidiana in ufficio viene interpretata come significasse che tu hai rinunciato ancora una volta a ucciderti, ti potresti sentire obbligato ad arrivare con una risposta alla domanda “Perché no?”. “Penso che la percezione che ciascuno di noi ha della vita altrui come di qualcosa di dato sia radicata così profondamente che a fatica possiamo immaginare come sarebbe la vita senza di essa. Quando qualcuno mostra impazienza o dispetto nei nostri confronti, diciamo scherzosamente: “Scusa se esisto!”. Ma immaginate se non fosse uno scherzo, immaginate se vivere fosse qualcosa per cui si possa ragionevolmente pensare di aver bisogno di una scusa. Il carico di giustificare la propria esistenza potrebbe rendere l’esistenza insopportabile — e perciò ingiustificabile” (26).

Dunque, “offrire l’opzione di morire può significare dare alla gente nuove ragioni per morire” (27). Due conseguenze che meritano d’esser valutate soprattutto da parte di chi ipotizza la legalizzazione dell’eutanasia: “Tanto, chi vuole ricorrervi non può essere fermato, e chi non vuole ricorrervi non vi ricorrerà mai”..

Un parallelo con l’aborto procurato…

L’affermazione appena riportata è significativamente simile a quella tante volte sentita a proposito dell’aborto procurato, così com’è simile la conseguenza di cui s’è detto: infatti anche nel caso di patologie dell’embrione — ma ora in quello di quasi ogni gravidanza non “pianificata” — la scelta standard, ovvia, è per l’aborto procurato, mentre richiede giustificazione il suo rifiuto; questa è la prassi ormai invalsa, anche a fronte di una legislazione la cui lettera suona diversamente.

… e con la fecondazione artificiale

Il parallelo con la tragica realtà dell’aborto suggerisce di essere esteso a quella della fecondazione artificiale, mostrando così ancora più in profondità in che modo l’eutanasia sia radicata nella stessa cultura abortiva e favorevole alla fecondazione artificiale. Com’è noto, gli effetti di aborto e fecondazione artificiale sono diametralmente opposti: nell’un caso una vita umana esistente viene soppressa, nell’altro viene prodotta a ogni costo, su richiesta.

Eppure una sola è la mentalità e la cultura che a essi è favorevole: le due pratiche sono addirittura connesse in una medesima procedura: infatti, la pratica della fecondazione artificiale prevede, molto spesso, un intervento abortivo nei confronti dei cosiddetti “embrioni soprannumerari”: merita di essere ricordato — di passaggio — che chi scrive, e chi legge, non è stato nulla di più, né nulla di meno, di uno di questi embrioni “soprannumerari”. In entrambi i casi infatti — aborto e fecondazione artificiale — quanto viene eliminato o prodotto — secondo una logica tipicamente consumistica — è qualcosa di completamente manipolabile — disponibile all’intervento dei “tecnici” —, non qualcuno che ha una natura propria e dei diritti che gli devono essere riconosciuti nella verità, e non attribuiti arbitrariamente (28).

La stessa duplice minaccia che incontriamo all’origine della vita fisica la ritroviamo al suo termine: se l’eutanasia riproduce le condizioni dell’aborto — una vita viene arbitrariamente eliminata —, è l’accanimento terapeutico a occupare il posto simmetrico rispetto alla fecondazione artificiale: in questo caso un intervento tecnico, non più guaritivo né curativo, s’incarica d’impedire la morte, rimandandola nel tempo e affidandola, di nuovo, a un altro intervento tecnico: si ripete così, per accanimento terapeutico ed eutanasia, anche quell’unione procedurale che abbiamo visto legare fecondazione artificiale e aborto.

L’accanimento terapeutico

Il tema dell’accanimento terapeutico — della distanasia — richiede d’esser ora affrontato, benché brevemente e nei soli aspetti essenziali; il discorso si disporrà così a un approfondimento degli aspetti etici coinvolti, che sarà poi sviluppato di seguito. Le capacità tecniche di prolungamento della vita — di rianimazione — hanno suscitato e suscitano numerose e cospicue perplessità in coloro che devono decidere se, quando e in che misura ricorrervi.

Si tratta, questo è il problema, sempre d’interventi doverosi o no? E ancora: si configurano casi in cui il ricorrervi sia addirittura contrario alla dignità del paziente? O il non ricorrervi è invece praticare un atto eutanasico? Com’è chiaro, si tratta di un tema estremamente delicato, e alieno da ogni facile generalizzazione: a volta a volta paziente, famigliari e medico dovranno discernere se, e secondo quali modalità, intervenire (29).

È possibile tuttavia offrire indicazioni generali per rilevare se la terapia attuata sia proporzionata, o se configuri, appunto, un accanimento terapeutico. Anche in questo caso la già citata Dichiarazione sull’eutanasia della Congregazione per la Dottrina della Fede offre elementi di straordinaria chiarezza in un passo che conviene riportare per esteso: “Ciascuno ha il dovere di curarsi e di farsi curare. Coloro che hanno in cura gli ammalati devono prestare la loro opera con ogni diligenza e somministrare quei rimedi che riterranno necessari o utili. “Si dovrà però, in tutte le circostanze, ricorrere a ogni rimedio possibile? Finora i moralisti rispondevano che non si è mai obbligati all’uso dei mezzi “straordinari”. Oggi però tale risposta, sempre valida in linea di principio, può forse sembrare meno chiara, sia per l’imprecisione del termine sia per i rapidi progressi della terapia. Perciò alcuni preferiscono parlare di mezzi “proporzionati” e “sproporzionati”. “In ogni caso, si potranno valutare bene i mezzi mettendo a confronto il tipo di terapia, il grado di difficoltà e di rischio che comporta, le spese necessarie e le possibilità di applicazione, con il risultato che ci si può aspettare, tenuto conto delle condizioni del malato e delle sue forze fisiche e morali” (30).

Il documento appena citato offre poi ai pazienti e a chi se ne prende cura quattro importanti criteri per il discernimento:

“a) In mancanza di altri rimedi, è lecito ricorrere, con il consenso del malato, ai mezzi messi a disposizione dalla medicina più avanzata, anche se sono allo stadio sperimentale e non sono esenti da qualche rischio. Accettandoli, l’ammalato potrà anche dare esempio di generosità per il bene dell’umanità.

“b) È anche lecito interrompere l’applicazione di tali mezzi, quando i risultati deludono le speranze riposte in essi […].

“c) È sempre lecito accontentarsi dei mezzi normali che la medicina può offrire. Non si può, quindi, imporre a nessuno l’obbligo di ricorrere a un tipo di cura che, per quanto già in uso, tuttavia non è ancora esente da pericoli o è troppo oneroso. Il suo rifiuto non equivale al suicidio: significa piuttosto o semplice accettazione della condizione umana, o desiderio di evitare la messa in opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare, oppure volontà di non imporre oneri troppo gravi alla famiglia o alla collettività. “d) Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute al malato in simili casi. Perciò il medico non ha motivo di angustiarsi, quasi che non avesse prestato assistenza a una persona in pericolo” (31).

La “morte dolce” e il Magistero della Chiesa cattolica

La stretta e inscindibile connessione fra suicidio ed eutanasia ha già indicato alcuni presupposti di una cultura eutanasica e, in particolare, una considerazione della persona umana come soggetto di un diritto onnipotente sulla propria vita e sulla propria morte. La vita umana — per poter ammettere l’eutanasia — deve essere considerata qualcosa alla mercé dell’uomo.

Proprio a questa profondità s’incontra un’insanabile opposizione fra una considerazione della vita come dono di Dio, bene di cui l’uomo è beneficiario e responsabile, ma non possessore, o della vita come accidente biochimico, di cui ciascuno può disporre a proprio piacimento e irresponsabilmente. In tal senso, la valutazione etica del suicidio si può applicare all’eutanasia: essa si oppone direttamente ai doveri verso Dio — Padrone e Signore della vita —, a quelli verso il prossimo — nel caso dell’eutanasia, sia da parte di chi la richiede, sia da parte di chi la pratica — e a quelli verso sé stessi (32).

Il Magistero della Chiesa da tempo è intervenuto estesamente e puntualmente in tema di eutanasia (33).

Converrà ripercorrere i temi principali di tale insegnamento leggendo alcuni brani dell’enciclica Evangelium vitae, in cui Papa Giovanni Paolo II dedica a questa realtà un’attenzione tutta particolare (34). Nel primo capitolo viene tratteggiato il contesto sociale in cui l’eutanasia viene a tema: si tratta di un’“atmosfera culturale che non coglie nella sofferenza alcun significato o valore, anzi la considera il male per eccellenza, da eliminare ad ogni costo; il che avviene specialmente quando non si ha una visione religiosa che aiuti a decifrare positivamente il mistero del dolore. “Ma nell’orizzonte culturale complessivo non manca di incidere anche una sorta di atteggiamento prometeico dell’uomo che, in tal modo, si illude di potersi impadronire della vita e della morte perché decide di esse, mentre in realtà viene sconfitto e schiacciato da una morte irrimediabilmente chiusa ad ogni prospettiva di senso e ad ogni speranza” (35).

Al terzo capitolo, e sottolineando la stretta connessione fra eutanasia, suicidio e omicidio, il Sommo Pontefice scrive: […] il suicidio è sempre moralmente inaccettabile quanto l’omicidio. La tradizione della Chiesa l’ha sempre respinto come scelta gravemente cattiva [36]. Benché determinati condizionamenti psicologici, culturali e sociali possano portare a compiere un gesto che contraddice così radicalmente l’innata inclinazione di ognuno alla vita, attenuando o annullando la responsabilità soggettiva, il suicidio, sotto il profilo oggettivo, è un atto gravemente immorale, perché comporta il rifiuto dell’amore verso se stessi e la rinuncia ai doveri di giustizia e di carità verso il prossimo, verso le varie comunità di cui si fa parte e verso la società nel suo insieme [37].

Nel suo nucleo più profondo, esso costituisce un rifiuto della sovranità assoluta di Dio sulla vita e sulla morte, così proclamata nella preghiera dell’antico saggio di Israele: “Tu hai potere sulla vita e sulla morte; conduci giù alle porte degli inferi e fai risalire” (Sap 16, 13; cf. Tb 13, 2). “Condividere l’intenzione suicida di un altro e aiutarlo a realizzarla mediante il cosiddetto “suicidio assistito” significa farsi collaboratori, e qualche volta attori in prima persona, di un’ingiustizia, che non può mai essere giustificata, neppure quando fosse richiesta.

“Non è mai lecito — scrive con sorprendente attualità sant’Agostino — uccidere un altro: anche se lui lo volesse, anzi se lo chiedesse perché, sospeso tra la vita e la morte, supplica di essere aiutato a liberare l’anima che lotta contro i legami del corpo e desidera distaccarsene; non è lecito neppure quando il malato non fosse più in grado di vivere” [38].

Anche se non motivata dal rifiuto egoistico di farsi carico dell’esistenza di chi soffre, l’eutanasia deve dirsi una falsa pietà, anzi una preoccupante “perversione” di essa: la vera “compassione”, infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza. E tanto più perverso appare il gesto dell’eutanasia se viene compiuto da coloro che — come i parenti — dovrebbero assistere con pazienza e con amore il loro congiunto o da quanti — come i medici —, per la loro specifica professione, dovrebbero curare il malato anche nelle condizioni terminali più penose.

“La scelta dell’eutanasia diventa più grave quando si configura come un omicidio che gli altri praticano su una persona che non l’ha richiesta in nessun modo e che non ha mai dato ad essa alcun consenso. Si raggiunge poi il colmo dell’arbitrio e dell’ingiustizia quando alcuni, medici o legislatori, si arrogano il potere di decidere chi debba vivere e chi debba morire. Si ripropone così la tentazione dell’Eden: diventare come Dio “conoscendo il bene e il male” (cf. Gn 3, 5).

Ma Dio solo ha il potere di far morire e di far vivere: “Sono io che do la morte e faccio vivere” (Dt 32, 39; cf. 2 Re 5, 7; 1 Sam 2, 6). Egli attua il suo potere sempre e solo secondo un disegno di sapienza e di amore. Quando l’uomo usurpa tale potere, soggiogato da una logica di stoltezza e di egoismo, inevitabilmente lo usa per l’ingiustizia e per la morte. “Così la vita del più debole è messa nelle mani del più forte; nella società si perde il senso della giustizia ed è minata alla radice la fiducia reciproca, fondamento di ogni autentico rapporto tra le persone” (39).

La morte preparata, accolta e superata

Il tema della morte e del morire è stato il filo conduttore di questa ricerca; essa ne ha esplorato peraltro un solo versante, quello del rifiuto della sofferenza e della morte, che ha nel suicidio e nella pratica eutanasica le sue espressioni più decise e paradigmatiche. Ma non è l’unico itinerario consentito, né alla ricerca né — tantomeno — al cammino dell’esistenza. L’altro itinerario è di preparazione alla morte.

Esso non ha né la concitazione della fuga né l’angoscia del terrore di fronte alla distruzione (40). Gli sono invece consentite le movenze umili di un cammino d’incontro (41). E la voce della lode: “Laudato si, mi Signore, per sora nostra Morte corporale, / da la quale nullo omo vivente po’ scampare. //Guai a quelli che morranno ne le peccata mortali! // Beati quelli che troverà ne le tue sanctissime voluntati, / ca la morte seconda no li farà male. // Laudate e benedicite mi Signore, / e rengraziate e serviteli cun grande umiltate” (42).

Note

(1) Philippe Ariès, L’uomo e la morte dal medioevo a oggi, trad. it., Laterza, Roma-Bari 1980, p. 32.
(2) Cfr. Lorenzo Cantoni, La “Carta degli Operatori sanitari”. Una presentazione, in Cristianità, anno XXIII, n. 239, marzo 1995, pp. 6-10.
(3) Cfr. Stanislaw Grygiel, La salvezza e la salute, in Ermanno Pavesi (a cura di), Salute e salvezza. Prospettive interdiscliplinari, Di Giovanni, San Giuliano Milanese (Milano) 1994, pp. 17-36 (p. 27): “Davanti alla morte l’uomo comincia a domandare il senso del suo essere che nasce e muore, vale a dire la sua verità. Il malato non chiede del senso che egli potrebbe costruire. Davanti alla morte i sensi costruiti dall’uomo non hanno alcun senso. In altre parole l’uomo messo davanti alla morte diventa, per dirla […] con sant’Agostino, magna quaestio; cfr. anche Idem, In the beginning is the end and in the end is the beginning, in Anthropotes. Rivista ufficiale del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, anno VII, n. 1, maggio 1991, pp. 25-53.
(4) La stessa cura esasperata della salute e dell’aspetto esteriore manifesta poi una sorta di macabra profezia della corruzione della carne. Una ricostruzione cinematografica insieme attenta e sarcastica di questo si può trovare in Death becomes her, del regista Robert Zemeckis (Universal Pictures, USA 1992). Il titolo dell’edizione italiana del film è La morte ti fa bella.
(5) Una grande mole di materiale sull’eutanasia, a favore sia della sua diffusione che della sua legalizzazione, è disponibile in Internet, nella base dati Deathnet (l’indirizzo della home page è http://www.islandnet.com/~deathnet/open.html). Deathnet è stata creata da John Hofsess, direttore esecutivo della canadese The Right to Die Society, “Società per il Diritto a Morire”, in collaborazione con Derek Humphry, attualmente presidente di ERGO!, Euthanasia Research and Guidance Organization, “Organizzazione per la Ricerca sulla e l’Accompagnamento all’Eutanasia”, associazione che ha sede a Eugene, in Oregon.
(6) Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull’eutanasia Iura et bona, del 5-5-1980, II.
(7) Cfr. D. C. Clark, Rational Suicide and People with Terminal Conditions or Disabilities, in Issues in Law and Medicine, n. 8, 1992, pp. 147-166.
(8) Cfr. ibidem.
(9) F. P. McKegney e M. A. O’Dowd, Clinical and Research Reports: Suicidality and HIV Status, in American Journal of Psychiatry, n. 149, 1992, pp. 396-398.
(10) Cfr. J. H. Brown et al., It is Normal for Terminally Ill Patients to Desire Death?, ibid., n. 143, 1986, pp. 208-211.
(11) Cfr. ibidem.
(12) New York State Task Force on Life and the Law, When Death Is Sought: Assisted Suicide and Euthanasia in the Medical Context, Albany (New York) 1994, pp. 12-13. Questo testo è disponibile anche in Internet all’indirizzo gopher.health.state.ny.us, benché senza alcune tabelle; cfr. una sua segnalazione a cura di Lorenzo Cantoni in Medicina e Morale. Rivista internazionale bimestrale di Bioetica, Deontologia e Morale Medica, nuova serie, anno XLV, n. 3, maggio-giugno 1995, pp. 625-626.
(13) Sulla realtà dell’hospice, cfr. Thomas S. West, The development of “hospice” in the United Kingdom, in Elio Sgreccia, Antonio G. Spagnolo e Maria Luisa Di Pietro (a cura di), L’assistenza al morente. Aspetti socio-culturali, medico-assistenziali e pastorali. Atti del Congresso Internazionale. Roma, 15-18 marzo 1992, Vita e Pensiero, Milano 1994, pp. 395-400.
(14) W. Breitbart, Suicide Risk and Pain in Cancer and AIDS Patients, in C. R. Chapman e K. M. Foley (a cura di), Current and Emerging Issues in Cancer Pain: Reasearch and Practice, Raven Press, New York 1993, p. 54.
(15) New York State Task Force on Life and the Law, When Death Is Sought: Assisted Suicide and Euthanasia in the Medical Context, cit., p. 17. Cfr. anche Vittorio Messori, Scommessa sulla morte. La proposta cristiana: illusione o speranza?, SEI, Torino 1982.
(16) Cfr. Maurice A. M. de Waachter, Eutanasia nei Paesi Bassi. La pratica medica, l’etica, il diritto, in KOS. Rivista di scienza e etica, nuova serie, vol. X, n. 100, gennaio 1994, pp. 41-44.
(17) Cfr. i dettagli della procedura, in Giovanna Fravolini, Anna Mencarelli ed Elena Mazzeo, L’eutanasia in Olanda: risposta legislativa ad una prassi iniqua, in Medicina e Morale. Rivista internazionale bimestrale di Bioetica, Deontologia e Morale Medica, nuova serie, anno XLIV, n. 6, novembre-dicembre 1994, pp. 1093-1106; cfr. anche G. Fravolini, La nuova normativa sull’eutanasia nei Paesi Bassi, in Aggiornamenti Sociali, anno XLV, n. 12, dicembre 1994, pp. 839-848.
(18) Tale procedura è contenuta nell’articolo 10 del Regolamento di Polizia Mortuaria come modificato dal progetto di legge n. 22572: “Il necroscopo del Municipio se ritiene di non poter effettuare la dichiarazione di morte, avverte l’ufficio di giustizia, compilando un modulo fissato con provvedimento amministrativo generale di cui alla frase precedente e fatto dal Ministro della Giustizia e dal Segretario di Stato per gli Affari Sociali, la Sanità e la Cultura; viene poi avvertito l’ufficiale di Stato civile dell’anagrafe”.
(19) Come si evince dalle pagine della Commissione Remmelink istituita dal ministro della Giustizia il 17 gennaio 1990 allo scopo di effettuare indagini aventi a oggetto la pratica dell’eutanasia nel Regno dei Paesi Bassi. Così Association pour le droit de mourir dans la dignité (ADMD), Dossier: La lègislation hollandaise sur l’euthanasie. Bulletin Trimestriel, anno 3, n. 48, marzo 1993, pp. 2-19.
(20) Cfr. Ernst M. H. Hirsch Ballin, Cristiano-democratici ed eutanasia, in Concilium. Rivista internazionale di teologia, n. 4, luglio-agosto 1993, pp. 741-744.
(21) In Italia il problema di Living Wills fra i molti è stato affrontato da Amedeo Santosuosso, A proposito di living will e di advance directives. Note per un dibattito, in Politica del diritto, anno 21, n. 2, giugno 1990, pp. 477 -487; Salvatore Veca, Autonomia e dignità della persona, in Notizie di Politeia, anno 7, n. 24, 1991, pp. 5-6; e Antonio Gioachino Spagnolo, Carta dell’autodeterminazione: il punto di vista dell’etica cattolica, ibid., pp. 7-9; Alberto Bondolfi, Il tema del living will nel dibattito sulla buona morte, in KOS. Rivista di medicina, cultura e scienze umane, anno IX, n. 76, febbraio 1992, pp. 18-23; Paolo Cattorini, La carta dell’autodeterminazione del malato approvata dalla Consulta di Bioetica (16-3-92). Alcuni rilievi critici, in Difesa Sociale, anno 71, n. 5, settembre-ottobre 1992, pp. 121-130; Giacomo Perico S.J., “Testamento biologico” e malati terminali, in Aggiornamenti Sociali, anno XLIII, n. 11, novembre 1992, pp. 677-692; e Mario Iorio, Il diritto a morire, in Minerva Medico-Legale, anno 115, vol. 115, n. 4, gennaio 1995, pp. 45-53.
(22) Cfr. la legge australiana, in Bullettin of Medical Ethics, anno 10, n. 108, maggio 1995, pp. 8-11.
(23) Questo limite era ben chiaro — anche prima del cristianesimo —, per esempio ne Il giuramento di Ippocrate, in cui si legge: “Non darò a nessuno alcun farmaco mortale neppure se richiestone, né mai proporrò un tale consiglio” (Ippocrate, Opere, a cura di Mario Vegetti, UTET, Torino 1965, p. 393).
(24) Roland Jaccard e Michel Thévoz, Manifesto per una morte dolce, trad. it., E.D.T. Edizioni di Torino, Torino 1993, p. 46.
(25) Cfr. Charles S. Cleeland et al., Pain and its Treatment in Outpatients with Metastic Cancer, in The New England Journal of Medicine, vol. 330 (9), marzo 1994, pp. 592-596. Il campione totale dello studio fu costituito da 1308 pazienti.
(26) J. David Velleman, Against the Right to Die, in The Journal of Medicine and Philosophy, anno 6, n. 17, 1992, pp. 665-681 (p. 674). Il testo svela insieme quella mancanza di senso, percepita con terrore, di cui si diceva in principio; i cristiani devono essere, come scrive san Pietro, “pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pt. 3, 16).
(27) J. D. Velleman, art. cit., p. 676.
(28) Cfr. un parallelo analogo, in Michel Schooyans, La morte inflitta, in E. Sgreccia, A. G. Spagnolo, M. L. Di Pietro (a cura di), L’assistenza al morente. Aspetti socio-culturali, medico-assistenziali e pastorali. Atti del Congresso Internazionale. Roma, 15-18 marzo 1992, cit., pp. 73-79.
(29) Tale difficoltà di giudizio manifesta in modo chiaro che la medicina è anche un’arte: cfr. Hans Georg Gadamer, Dove si nasconde la salute, trad. it., Cortina, Milano 1994; cfr. una segnalazione di questo testo a cura di Lorenzo Cantoni in Medicina e Morale. Rivista internazionale bimestrale di Bioetica, Deontologia e Morale Medica, nuova serie, anno XLV, n. 3, maggio-giugno 1995, pp. 623-624.
(30) Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull’eutanasia Iura et bona, cit., IV.
(31) Ibidem. Sul tema, sul quale esiste una bibliografia assai vasta, cfr. Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari, Carta degli Operatori sanitari, 4a ed., Città del Vaticano 1995, nn. 119-124; e Pontificio Consiglio “Cor unum”, Alcune questioni etiche relative ai malati gravi e morenti, relazione di un gruppo di lavoro riunito dal 12 al 14 novembre 1976, in Patrick Verspieren S.J. (a cura di), Biologia, medicina ed etica, trad. it., Queriniana, Brescia 1980, pp. 484-502.
(32) Cfr. una presentazione del tema “suicidio” e delle coordinate della sua valutazione etica, in Lino Ciccone, Non uccidere. Questioni di morale della vita fisica, Ares, Milano 1984; Michele Federico Sciacca, Morte e immortalità, L’Epos, Palermo 1990; e L. Cantoni, Su alcune dimensioni del suicidio. Il caso dell’Emilia Romagna, in Medicina e Morale. Rivista internazionale bimestrale di Bioetica, Deontologia e Morale Medica, nuova serie, anno XLIV, n. 6, novembre-dicembre 1994, pp. 1143-1160.
(33) Cfr. P. Verspieren S.J. (a cura di), Biologia, medicina ed etica, cit.; e Dionigi Tettamanzi (a cura di), Chiesa e bioetica. Giovanni Paolo II ai medici e agli operatori sanitari, Massimo, Milano 1988; una piccola raccolta di interventi magisteriali in tema si trova in Che cosa ha detto il Papa sull’eutanasia, a cura dai monaci di Solesmes, Edizioni Paoline, Milano 1993. Cfr. inoltre E. Sgreccia, Manuale di bioetica. I. Fondamenti ed etica biomedica, 2a ed., Vita e Pensiero, Milano 1994, pp. 631-681; D. Tettamanzi, Bioetica. Nuove frontiere per l’uomo, 2a ed., Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1992, pp. 419-467; e P. Verspieren S.J., Eutanasia? Dall’accanimento terapeutico all’accompagnamento dei morenti, trad. it., Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1985.
(34) Cfr. Gonzalo Miranda, I problemi etici dell’eutanasia nell’Enciclica “Evangelium Vitae”, in Medicina e Morale. Rivista internazionale bimestrale di Bioetica, Deontologia e Morale Medica, nuova serie, anno XLV, luglio-agosto 1995, pp. 719-738.
(35) Giovanni Paolo II, Enciclica Evangelium vitae sul valore e l’inviolabilità della vita umana, del 25-3-1995, n. 15.
(36) Cfr. sant’Agostino, De Civitate Dei I, 20: CCL 47, 22; san Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, IIa-IIae, q. 64, a. 5.
(37) Cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull’eutanasia Iura et bona, cit., I: AAS 72 (1980), 545; Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 2281-2283.
(38) Epistula 204, 5: CSEL 57, 320.
(39) Giovanni Paolo II, Enciclica Evangelium vitae sul valore e l’inviolabilità della vita umana, cit., n. 66.
(40) La morte è stata ingoiata per la vittoria,  “dov’è, o morte, la tua vittoria?  “Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?  “Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge. Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!” (1 Cor. 15, 54-57; la citazione paolina è da Os. 13, 14).
(41) Meriterebbe attenzione la mancanza sempre più diffusa di una catechesi sulla morte e sul sacramento dell’unzione degli infermi, che segnala un recepimento della mentalità secolare all’interno stesso della comunità cristiana. Contra, cfr. — fra i tanti — sant’Alfonso Maria de Liguori, Apparecchio alla morte ovvero considerazioni sulle verità eterne utili a tutti per meditare e ai sacerdoti per predicare, adattamento in lingua corrente, introduzione e note di Paolo Arrigo Orlandi, Gribaudi, Milano 1995 (l’edizione originale è del 1758).
(42) San Francesco d’Assisi, Il Cantico delle creature, strofe 12-15, in Fonti Francescane. Scritti e biografie di san Francesco d’Assisi. Cronache e altre testimonianze del primo secolo francescano. Scritti e biografie di santa Chiara d’Assisi, 3a ed., emp edizioni messaggero padova, Padova 1983, p. 178.