L’integralismo di Riyad alla conquista dell’Africa

wahabismoPubblicato su Jesus n.10 ottobre 2005

ATTUALITÀL’ISLAM WAHABITA

Spregiudicato sul piano politico-finanziario, oscurantista su quello dottrinario, il wahabismo nasce come corrente islamica sunnita nel diciottesimo secolo ma si afferma soltanto nel Novecento, grazie all’appoggio delle grandi potenze occidentali alla monarchia saudita. Oggi si sta diffondendo in tutto il mondo musulmano. Ma deve anche fare i conti con le sue ali più estreme, da cui è nata la rete di Al Quaeda.

 di Riccardo Cristiano

Il Mali veniva definito ancora nel 2003 dal Dipartimento di Stato Usa «una giovane democrazia, aperta alla libertà di stampa e priva di violazioni dei diritti umani». La libertà di culto è stata sempre garantita dalla tradizione islamica, di tendenza sufi. Ma a Timbuctu negli ultimi anni sono state aperte sedici moschee wahabite, e i conflitti religiosi hanno cominciato a minacciare la società maliana.

C’è il rischio che il Mali faccia la fine dello Stato nigeriano di Kano? Qui, nell’ottobre del 2003, il governo ha imposto l’alt alla vaccinazione antipolio e non ne ha consentito la ripresa fino al 2004: temevano che i vaccini statunitensi potessero diffondere l’Aids tra la popolazione locale.

Oggi i 250 milioni di musulmani dell’Africa subsahariana, quasi tutti originanti da un islam totalmente diverso, sono tra i principali obiettivi del proselitismo wahabita. Ma chi sono e cosa predicano i wahabiti? La loro base è Riyad. I leggendari sperperi della famiglia saudita sono di dominio pubblico da anni. Ma a questo tratto di governo se ne unisce un altro: sui nostri giornali è stato citato sovente il re saudita Fahd, recentemente scomparso, quale «guardiano dei luoghi santi», custode cioè di La Mecca e Medina, quindi una sorta di custode dell’islam.

Ma Fahd amava farsi chiamare anche Al Mufada («colui che merita la devozione»), Mawlana («il detentore dell’autorità divina ultima»), Waly Al Amr («colui che decide tutte le cose»). Cominciamo così a capire cosa sia divenuto anche nel pensiero religioso il peso dei sauditi. La loro dottrina è il wahabismo.

Nelle condizioni dell’Arabia del XVIII secolo la cittoasi di Uyayna era relativamente prospera. Le idee, diciamo “puritane”, di Abd al Wahab non avevano presa. Suo figlio, Muhammad Ibn Abd al Wahab, nato nel 1703 e scomparso nel 1792, si dedicò giovanissimo alla predicazione delle idee paterne. A quel puritanesimo aggiunse la sua “innovativa” dottrina sociale: pestaggi punitivi, lapidazione delle adultere, mutilazione dei ladri, esecuzioni pubbliche.

Le grandi scuole teologiche di Baghdad, Il Cairo e Damasco sparivano nel suo semplice “integralismo”. Quando il giovane Wahab passò all’attuazione delle sue ricette, l’emiro di Uyayna, temendo una sommossa, lo cacciò. Per quattro anni Wahab viaggiò per i territori ottomani, convincendosi che l’impero avesse portato dissolutezza e corruzione. Occorreva ritornare alla purezza delle origini, all’età dell’oro. Idea senza la quale non si riesce a dar vita a un movimento revivalista. La storia ha preso subito una piega drammatica.

Ha scritto al riguardo lo scrittore di origini pakistane Tariq Ali, autore de Lo scontro dei fondamentalismi (Rizzoli): «Nel 1744 Ibn Wahab arrivò a Deraiya, una piccola città-stato nella provincia del Nejd. La località era famosa per le sue piantagioni di datteri e il suo famigerato bandito-emiro, Muhammad Ibn Saud, fu lietissimo di accogliere un predicatore espulso da un potentato rivale.

Capì subito che gli insegnamenti di Wahab avrebbero favorito le sue ambizioni. Wahab forniva una giustificazione teologica per quasi tutto quello che Ibn Saud desiderava ottenere: una jihad permanente che prevedeva il saccheggio delle altre città musulmane, l’imposizione di una severa disciplina e infine l’affermazione del proprio potere sulle tribù vicine, unificando la penisola. L’emiro e il predicatore suggellarono un mithaq, un accordo che sarebbe stato onorato per l’eternità. Prevedeva il fervore religioso al servizio dell’ambizione politica, ma non viceversa».

Cominciarono così i massacri. A essere presi di mira per primi gli eretici sciiti. I seguaci di Ibn Wahab assalirono la città santa di Karbala, facendo sgozzare cinquemila nemici. Era l’anno 1801.

Nel 1802 conquistarono Taif massacrandone la popolazione. Poi attaccarono la Mecca, distruggendo la tomba del profeta e dei califfi: ai wahabiti, sostenitori dell’uguaglianza di tutti i fedeli davanti ad Allah, non piacevano le tombe troppo appariscenti.  La reazione di Istanbul fu durissima: i fedeli dei Saud cacciati nel deserto e la loro capitale, Deraiya, rasa al suolo. Ma una nuova forza sarebbe arrivata di lì a un secolo a risvegliare i sogni di gloria politica e di oscurantismo puritano dei sostenitori del wahabismo.  A favorire l’ascesa dei Saud fu l’agente britannico Philby, il quale spiegò a Londra che era nell’interesse della Corona sostenerli militarmente perché, a differenza degli altri leader, avrebbero accettato un rapporto di vassallaggio.

Lo scrittore arabo Said K. Aburish afferma che i Saud erano tra i pochi all’epoca a praticare la razzia, a schiavizzare la donna (come dimostra il livello di educazione che le donne hashemite avevano già all’inizio del secolo), a disprezzare la politica (come dimostra il fatto che nella regione dell’Hijaz – dove si trovano i luoghi santi dell’islam e governavano gli hashemiti – già all’inizio del Novecento vi fosse una sorta di Senato articolato per rappresentanze politiche).

A casa di Ibn Saud invece, aggiunge Aburish, era di moda anche la schiavitù sessuale, non soltanto delle centinaia di donne del suo harem, ma anche dei fanciulli dei quali lui e i suoi figli amavano la compagnia notturna. Ovvio che non fossero amati.

Tra il 1916 e 1928 ebbero luogo non meno di 26 ribellioni contro i Saud, e ciascuna di esse si concluse con massacri indiscriminati, donne e bambini compresi. Aburish afferma che il cugino di Ibn Saud, Abdullah Bin Mussalem Bin Jalawi, fece decapitare 250 membri della tribù dei Mutair, tagliando la testa personalmente a 18 ribelli nella piazza centrale di Artawaya. Quando Muhammad Tawil e Muhamaed Sabhan organizzarono due cospirazioni contro i Saud, le città della regione dell’Hijaz ne pagarono le conseguenze.

Regnava un’atmosfera nella quale la spada dell’esecuzione pubblica era conosciuta e temuta come la ghigliottina durante la Rivoluzione francese. Quella spada, il rakban, è usata ancora oggi. Ecco i dati forniti da Aburish: su una popolazione di circa quattro milioni di persone, un milione fuggì, 400 mila furono uccise o ferite in combattimento, 40 mila furono giustiziate pubblicamente, 350 mila patirono amputazioni. I partiti dell’Hijaz furono disciolti, i tribunali di modello ’abasside chiusi e sostituiti dai tribunali wahabiti. La Mecca e Medina erano nelle loro mani.

Ma l’interpretazione wahabita dell’islam non era accettata da molti e Ibn Saud dovette assicurare che il suo controllo del luogo più santo dell’islam sarebbe stato provvisorio, quindi garantire il rispetto della stragrande maggioranza musulmana non wahabita. Quelle garanzie si dimostrarono carta straccia già nel ’29.

Il puritanesimo trovò accanto al controllo dei luoghi santi anche i soldi per diffondersi: il petrolio. Così negli anni Cinquanta re Faysal partorì l’idea di fare dell’Arabia Saudita l’impero che controlla politicamente e religiosamente il mondo islamico. Faysal convocò la Conferenza islamica dalla quale fece nascere la Lega musulmana mondiale, legittimando la Fratellanza musulmana, e dando inizio all’esportazione del wahabismo.

Alcune sue tappe sono note. Grazie al golpe del generale Zia ul Haq, il Pakistan divenne il bastione orientale, la Fratellanza musulmana l’arma usata in Egitto e Paesi limitrofi. Oggi i conti con il mondo mediorientale sono regolati soprattutto grazie alla “conquista” della più importante università islamica, la cairota Al Azhar, dove i finanziamenti sauditi hanno spento la grande teologia di inizio secolo. Ora i docenti di Al Azhar frequentano corsi di “aggiornamento” in Arabia Saudita: solo quest’anno al Cairo è stata impedita la pubblicazione di cinquanta volumi.

Non ovunque però sono rose e fiori: secondo Stephen Shwartz alcuni islam si sono dimostrati quasi impermeabili al wahabismo: è il caso dei Balcani e dell’India. La lotta è invece aperta nel Sud-est asiatico, dove all’integralismo che sta dilagando in Indonesia si oppongono forti correnti innovative, quelle che in Malesia hanno proposto una donna vice-mufti, cioè la seconda autorità religiosa nazionale, “rivoluzione” che recentemente ha portato a due nomine femminili di alto livello in Turchia.

È in Africa però dove si gioca la partita strategica. Già in passato i wahabiti avevano registrato successi, sostenendo Idi Amin in Uganda e il regime sudanese. Dai tempi di Siad Barre, appoggiato da Riyad, la conquista del Corno d’Africa è una priorità, e oggi in Etiopia l’islam sta cambiando volto: accanto al tradizionale islam spirituale molti dicono che stiano nascendo nuove generazioni wahabite, educate nelle moschee e nelle scuole coraniche finanziate da Riyad.

Per secoli la diffusione dell’islam in questa parte di mondo ha sostanzialmente sovrapposto la fede in Allah ai culti tradizionali, basandosi sul rapporto tra il fedele e Dio. Questo ha portato al consolidarsi di un islam africano orientato verso il sufismo e quindi rispettoso dei diritti umani e privo di ostilità verso le altre religioni. Un esempio tra i più significativi è proprio quello nigeriano. Per secoli la grande tradizione sufi vi ha elaborato l’incontro e la coesistenza con l’animismo e il cristianesimo.

Con il wahabismo gli scontri interreligiosi sono divenuti violentissimi: i vaccini di Kano sono solo un esempio della nuova realtà, in stridente contrasto con quella secolare. Il leader dei primi islamisti nigeriani, Bello, è stato vicepresidente della Lega musulmana mondiale, il suo successore, Gumi, è stato educato a Riyad.

Il disastro economico africano e la ricchezza saudita hanno reso possibile questa penetrazione a partire dagli anni Sessanta, grazie soprattutto alla citata Lega musulmana mondiale, fondata nel 1962 per favorire l’applicazione della sharia a individui, gruppi o Stati, e ad altre istituzioni finalizzate al finanziamento di moschee, scuole e ospedali. Dal 1976 la priorità della Lega musulmana mondiale sembra divenuta proprio la diffusione del wahabismo in Africa, in particolare in quella subsahariana, come dimostra il fatto che in questa regione siano collocati ben 16 uffici della Lega e 36 delle 70 sedi della Islamic relief organization.

Dagli inizi degli anni ’70 il lavoro della Lega è stato affiancato dal Programma saudita per lo sviluppo, che in un ventennio ha investito in Africa più di 2 miliardi di dollari. Stando ai dati forniti da David McCornack, del Center for security policy, in Guinea sono stati investiti 21 milioni di dollari per la costruzione della moschea “Re Faysal” e della collegata scuola coranica. La moschea sorella costruita in Ciad è costata 16 milioni di dollari; quella di Yaoundè, in Cameroun, 5 milioni. Ovviamente questi sforzi finanziari hanno determinato la nomina di imam di orientamento wahabita.

Nel campo scolastico spiccano i 13,9 milioni di dollari stanziati per l’Università Islamica dell’Uganda, e anche l’Università Internazionale Africana, in Sudan, è stata finanziata dai sauditi per «combattere l’odio e il rancore verso gli arabi che i colonialisti avevano diffuso nel cuore degli africani», secondo quanto dichiarato dal suo primo rettore.

Recentemente gli sforzi sauditi per la diffusione del wahabismo si sono rivolti alla televisione. Channel islam international, voluto dal principe Bandar Bin Salman al Saud, consigliere del nuovo monarca saudita, re Abdullah, è finalizzato alla «diffusione dei semi per una educazione religiosa nella meticolosa osservanza degli insegnamenti coranici». Tutti questi sforzi non sono stati vani. I wahabiti sono arrivati nella patria di uno degli islam più stridenti con il wahabismo, il Senegal, con al-Falah; in Sud Africa, con Jamiatu Ulama; e in Malawi, dove controllerebbero l’Associazione musulmana.

Ma ora che una costola del wahabismo si è rivoltata contro la casa dei Saud, nel nome di Bin Laden, a Riyad si cerca con difficoltà una via alla riforma wahabita. A ostacolarla non c’è solo la difficoltà di cambiare la mentalità di ulema (dotti dell’islam) formati in un indottrinamento pluridecennale, ma anche il malcontento diffuso nel regno, che alimenta la fiducia in Bin Laden.