Cavour: un perfetto moralista

CavourPubblicato su Il Timone del febbraio 2004

di Angela Pellicciari

Tracciare in poche righe il ritratto dell’unico vero “padre della patria” (per usare la retorica Risorgimentale) non è impresa facile. Cosmopolita, ricchissimo, privo di scrupoli, astuto, intelligente, arrogante, accentratore, questo (e molto altro ovviamente) è Camillo Benso conte di Cavour. Quel che è certo è che, senza di lui, il Regno d’Italia non sarebbe nato.

Qui ci proponiamo di tratteggiare la figura di Cavour a partire dal suo credo politico-morale perché la morale, la pubblica morale, è un tema che sta molto a cuore al Cavour politico. In un trattatello del 1846 su Le ferrovie in Italia il conte si avventura in un’inedita equazione: quanto più ricca e potente è la nazione di appartenenza, tanto più il popolo è intelligente e morale.

Proprio così: “Le classi numerose che occupano le posizioni più umili nella sfera sociale, per acquisire la coscienza della propria dignità, hanno bisogno di sentirsi grandi dal punto di vista nazionale. Non esitiamo a dire che questa coscienza rappresenta per i popoli come per gli individui un aspetto essenziale della moralità”.

Il conte si fa assertore del nazionalismo e di uno Stato “forte e potente” (e cioè colonizzatore, proprio come l’Inghilterra e la Francia, potenze liberali che tanto ammira) affinché il popolo si elevi “nella scala dell’intelligenza e dello sviluppo morale fino al livello delle nazioni più civilizzate”.

Le “nazioni più civilizzate”, scrive Cavour. Quali sarebbero? La risposta è facile: quelle non cattoliche. Tutta la politica estera ed interna del conte di Cavour ruota intorno a questo obiettivo: “civilizzare” il regno sardo prima, quello italiano poi. Farla finita con la Chiesa cattolica, le sue istituzioni, la sua bigotteria, il suo oscurantismo. Liberare la nazione dalla cappa della tradizione cattolica, capillarmente diffusa in ogni strato della società.

Nel 1850 attacca le festività religiose, a suo dire troppo numerose. Ancora una volta la motivazione è di tipo morale: “Io penso – afferma alla Camera – che un soverchio numero di feste torni fuor misura notevole alle classi operanti perché siffatte feste straordinarie non si dedicano per lo più al riposo, ma si spendono in quella vece in sollazzi e mali altri usi”.

Come tutti gli “illuminati”, il moralista Cavour è personalmente al di sopra di qualsiasi vincolo o regola morale. Uomo d’affari dalle innumerevoli attività, è il principale azionista della Società anonima dei Mulini anglo-americani di Collegno che, nel suo ramo, è la maggiore d’Italia.

Il 1853 è anno di carestia, il grano introvabile ed il suo prezzo sale alle stelle. I vari governi italiani vietano, come ovvio, le esportazioni di grano mentre il governo sardo rimane fedele al proprio credo liberista con il risultato che i produttori di farina (Cavour in testa) fanno affari d’oro vendendo grano all’estero.

Ecco cosa scrive il romanziere, deputato e storico, Angelo Brofferio su la Voce del 29 novembre: “il conte di Cavour è magazziniere di grano e di farina, contro il precetto della moralità e della legge. Sotto il governo del conte di Cavour ingrassano illecitamente i monopolisti, i magazzinieri, i borsaioli, i telegrafisti, e gli speculatori sulla pubblica sostanza, mentre geme, soffre e piange l’universalità dei cittadini sotto il peso delle tasse e delle imposte”.

Nel 1854 la politica moralizzatrice del conte di Cavour subisce un’improvvisa accelerazione: il governo del connubio Cavour-Rattazzi presenta in Parlamento un progetto di legge per privare della personalità giuridica gli ordini contemplativi (monache di clausura) e mendicanti (francescani e domenicani anzitutto). In poche parole si tratta di sottrarre ai monaci e frati tutto quanto hanno per vivere. Si tratta di privarli dei loro conventi, delle proprietà che sono state loro donate dalla carità dei fedeli, di tutti gli oggetti di culto, dei loro archivi e delle loro biblioteche. Di tutto.

In nome di che cosa Cavour può proporre una simile tirannica iniziativa ai danni di un’intera, innocua e benemerita, categoria di persone? In nome del progresso e della moralità. In nome della civiltà. In nome, da ultimo, della stessa religione. E’ quanto Cavour col suo modo asettico, perché scientifico (così ritiene), si propone di dimostrare intervenendo in difesa del progetto di legge alla Camera e al Senato.

Il presidente del Consiglio non è convinto, come il guardasigilli Rattizzi, che basti l’equazione “inutile dunque nocivo” per motivare la soppressione degli ordini religiosi. Cavour ritiene che per giustificare la messa al bando delle congregazioni ci sia bisogno di una “giusta causa”. Bisogna provare che sono nocive.

E’ quanto si propone di fare elencando, in buon ordine, tutte le ragioni che rendono dannosi, quindi nocivi, gli ordini religiosi della Chiesa di Stato (questo aspetto non va mai dimenticato: il governo sardo giudica se stesso moralmente migliore degli altri governi italiani perché “costituzionale” e “liberale”. Ebbene, il primo articolo dello Statuto definisce la “religione cattolica apostolica e romana”, duramente perseguitata, la sola regione di Stato e nessuno fa mostra di accorgersi della scandalosa contraddizione).

Le ragioni del presidente del Consiglio si riassumono in una parola: gli ordini religiosi sono nocivi al progresso.

“Progressista”. Che fascino questa parola! Cavour è un progressista convinto: agisce senza scrupoli per imporre a tutti la “luce” della propria ragione e delle proprie convinzioni: questa è l’essenza del progressismo. Tanto per cominciare, sostiene Cavour, gli ordini religiosi sono dannosi al progresso economico perché non mettono al centro del loro credo il lavoro produttivo (la ricchezza), giungendo addirittura a santificare l’accattonaggio.

Sono poi nocivi all’istruzione (“la tenacità colla quale conservano le antiche loro tradizioni e spargono certe dottrine che sostituiscono alle più pure aspirazioni cristiane alcune leggende meno rispettabili, non produce effetto favorevole alla diffusione dell’istruzione”), e nemici del progresso scientifico, artistico, agricolo e industriale.

Da queste considerazioni Cavour passa alla storia, maestra di vita, ed invita a fare un paragone tra le nazioni in cui le congregazioni sono state soppresse (paesi protestanti) e quelle in cui sono ancora diffuse (paesi cattolici). Salta agli occhi, asserisce, che la proprietà “è in ragione inversa della quantità dei frati che si sono conservati”.

A quanti ribattono che gli ordini sono perlomeno necessari alla vita religiosa, il conte risponde che si sbagliano: un nuovo slancio religioso – argomenta – si è manifestato proprio nei paesi “dove le antiche corporazioni religiose, figlie del Medioevo, sono quasi interamente scomparse”. Conclusione: la soppressione degli ordini religiosi è “altresì vantaggiosa ai veri interessi della religione e della chiesa”. I liberali agiscono sempre in nome dei “veri” interessi della Chiesa. Che loro, si capisce, conoscono meglio del Papa e dei cattolici.

Cavour è convinto di avere dalla propria il consenso della pubblica opinione. Così ripete a ogni piè sospinto. Quando, al Senato, il maresciallo Della Torre gli ribatte che non è vero, che le chiese sono ovunque stracolme di fedeli che pregano perché la famigerata legge non veda la luce, il liberale Cavour testualmente risponde: “L’onorevole maresciallo ha detto che gran parte della popolazione era avversa a questa legge. Io in verità non mi sarei aspettato di vedere invocata dall’onorevole maresciallo l’opinione di persone, di masse, che non sono e non possono essere legalmente rappresentate”.

Cavour incarna l’opinione dei soli che debbano esprimerla: i liberali. All’incirca l’1% della popolazione. Un po’ meno di quanti hanno diritto di voto. Tutti gli altri, le “masse”, per definizione non contano nulla. Questa è la morale “liberale” che si afferma in Italia con il Risorgimento. Cavour la interpreta, come al solito, al meglio. Senza nessuno scrupolo.

Come senza scrupoli organizzerà la rivoluzione italiana ricorrendo alle più fantasiose forme di corruzione e tradimento e facendosi velo con le più candide menzogne. Così farà con Pio IX, con Francesco II di Borbone e con i vari duchi e principi italiani. In nome, inutile dirlo, della vera morale, della libertà e della costituzione.

Chiudiamo con una nota che certamente non centra nulla con la storia, che però esprime bene come è stata vissuta l’epopea cavouriana dalla maggioranza della popolazione, cattolica. Cavour muore all’improvviso. Giovane, scoppiettante di salute e di progetti. Al colmo del successo nazionale ed internazionale.

Idolatrato da tutti. Invincibile. Il conte se ne va in una settimana. Per l’esattezza in una settimana di giugno. Per la precisione Cavour si ammala il giorno del Corpus Domini. Ecco cosa scrive al riguardo la rivista dei gesuiti Civiltà Cattolica: “il Governo vietò che le autorità costituite assistessero alla solenne processione del Corpus Domini. Ma il giorno stesso del Corpus Domini cadeva malato il Capo del Ministero”.

Cavour “morì il giorno del miracolo del SS. Sacramento avvenuto in Torino nel 1453; il Municipio che non volle intervenire alla Processione del Corpus Domini, dovette intervenire ai funerali del conte di Cavour”.