TeoPop, perchè la chiesa è tra la gente-gente

Don Stefano AlbertoTempi numero 19 del 4 maggio 2006

S’avanza una strana alleanza tra Vaticano e popolo contro i clericali in talare, cravatta o gonna a fiori. Parla don Stefano Alberto, leader di Comunione e Liberazione.

di Emanuele Boffi

In un’intervista ad Avvenire il presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Camillo Ruini, ha detto che «nella coscienza degli italiani ci sono convinzioni profonde che riguardano i valori non negoziabili». Quali fossero tali valori, sia papa Benedetto sia lo stesso porporato, l’avevano ripetuto più volte nelle settimane antecedenti il voto del 9 e 10 aprile.

All’indomani dell’esito delle elezioni, don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, ha inviato un breve messaggio a tutti gli aderenti al movimento invitandoli a «pregare la Madonna di Loreto affinché sostenga il popolo italiano, chiamato a una più intensa fedeltà alla propria tradizione per costruire il futuro. I tre principi “non negoziabili” di cui ha parlato il Papa – vita, famiglia, libertà di educazione – sono ancora più urgenti. Speriamo che i nuovi governanti del Paese sappiano tenerne conto».

Don Stefano Alberto, che del movimento ecclesiale è figura di riferimento e che insegna in Università Cattolica a Milano, condivide l’idea di Ruini secondo cui esista ancora nella coscienza del popolo italiano un sentimento religioso «forte e vivo, che, purtroppo, spesso non è educato o non trova luoghi per esprimersi», ma che è presente nel vissuto del paese, «nel profondo del cuore di quella che don Giussani, in un’intervista, chiamò la “gente gente”». Dopo il voto, ad allarmarlo, è il fatto che «ci ritroviamo un parlamento dove ad avere la maggioranza non sono le forze di centrosinistra ma di “sinistra-centro”».

Dunque, non le è parsa emergere da questo voto nessuna indicazione positiva?

Tutt’altro. S’è confermata l’anomalia italiana, cioè l’esistenza, a dispetto di tante analisi, di una realtà popolare in cui permangono tracce, magari non consapevoli e non consapevolmente educate, della tradizione cristiana. è quello stesso soggetto che abbiamo visto emergere dopo i fatti di Nassiriya, quando il popolo italiano s’è raccolto in preghiera davanti al sacrificio dei propri soldati in missione di pace, o quello che durante il periodo referendario ha saputo cogliere le ragioni proposte dalle gerarchia cattolica insieme a tante personalità laiche.

Sono convinto che questa persistenza, a tratti confusa e contraddittoria nelle sue espressioni, del senso religioso cristiano sia ancora in qualche modo un tratto distintivo degli italiani. E sono indignato di come certi chierici (non solo in talare) abbiano mostrato un certo disprezzo per questa, confusa fin che si vuole, religiosità della gente. Vivono nelle sacrestie dei giornali e delle parrocchie, hanno perso il contatto con le persone comuni che dicono di rappresentare.

Tuttavia, anche nello schieramento politico di centrosinistra esistono parlamentari che hanno fatto della loro professione di fede il proprio tratto distintivo.

Certo, e non mi permetto di contestare la rispettabilità di queste scelte politiche. Tuttavia mi domando cosa accadrà di queste “testimonianze personali” all’interno di una coalizione che, al venti per cento, è composta da forze della sinistra radicale.

Non c’è possibilità che queste “testimonianze personali” diano buon frutto nella difesa di quei «principi non negoziabili»?

Lo spero, ma nella situazione attuale, così come si è delineata, mi pare difficile. Forse sarà possibile un’intesa su alcuni singoli provvedimenti, sfruttando più ampie intese. Ma, ripeto, il clima attuale non mi pare favorire prospettive di questo tipo. E sopratutto, mi permetta un’osservazione più generale: occorre uscire dalla logica dell’agire politico esclusivamente come testimonianza “profetica” senza tenere conto della totalità del contesto e delle conseguenze concrete di certe scelte che possono portare a esiti contraddittori rispetto ai propri ideali.

Mi ha sconcertato, per esempio, venire a conoscenza del fatto – non è che un episodio, ma emblematico – che religiose hanno votato a sinistra perché questa, a loro dire, meglio tutelava il fatto che «anche gay e lesbiche sono persone umane». E chi l’ha mai messo in dubbio? Questo però non significa che la tutela di ogni persona umana sia “usata” in modo da minare la dignità dell’istituto matrimoniale quale unione stabile tra un uomo e una donna, costituzionalmente garantito. Insomma, si stia attenti a non appoggiare la testa, piena di valori astratti, sul ceppo del carnefice.

Poco fa ha accennato al referendum sulla legge 40 e all’azione di “alfabetizzazione” della Chiesa. Anche allora vi fu una chiara indicazione da parte della Cei su quali criteri adottare in vista del “non” voto. E il popolo dei fedeli si mosse compatto, dalle associazioni ai movimenti, dal clero alle parrocchie. Pare di intendere dalle sue parole che, questa volta, la risposta non sia stata così omogenea.

In alcune situazioni è “saltato” il giudizio a livello locale. Cito due dati clamorosi. Primo: in alcune diocesi, anche importanti, si sono sentiti nel clero commenti di insofferenza per le parole del Papa e del presidente della Cei. Come se si fossero “ingeriti” troppo. Secondo: i criteri forniti da Benedetto XVI e Camillo Ruini sono stati come “relativizzati” sostenendo che rispetto alla difesa della vita della famiglia fondata sul matrimonio, della libertà di educazione fosse più importante la giustizia sociale che sarebbe, quasi per convenzione, meglio tutelata dalla sinistra. Così ha agito, oltre a un forte blocco di consenso “laico” (i grandi quotidiani, la finanza, i vertici industriali) a favore del centrosinistra, anche (soprattutto in alcune realtà) un blocco minore e più “discreto”, ma non meno efficace, di consenso “clericale”, saldandosi di fatto al primo.

Perdoni lo schematismo grezzo: come è potuto accadere questo scollamento tra il popolo e il Vaticano da un lato, e alcuni rappresentanti del clero dall’altro?

Sì, detto così è un po’ schematico. Ma non senza fondamento. La ragione sta ultimamente nella concezione stessa del cristianesimo e del nesso tra fede e politica. Assistiamo all’indebolirsi della coscienza dell’esperienza cristiana come appartenenza alla Presenza di Cristo e alla Chiesa, a una riduzione del cristianesimo a etica con una dualismo tra fede ridotta a spiritualismo e azione pratica. è inevitabile non solo scadere in un moralismo “casuistico” e buonista (che di fatto rischia di alimentare un certo relativismo), ma anche poi di fatto assegnare alla politica quel valore “salvifico” che riempia il vuoto lasciato da una fede ridotta a sentimento individuale, non più in grado di uno sguardo e di un giudizio originale e totale sulla realtà.

Invece, lo ha ricordato mirabilmente Benedetto XVI nella sua Enciclica, «all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva». Chi salva l’uomo è Cristo; la salvezza è l’incontro con la Sua realtà viva. L’appartenenza al corpo di Cristo, che oggi vive nella Chiesa, è il punto di novità della vita, innanzitutto come giudizio nuovo sulla realtà. Tale coscienza dell’esistenza è un potente antitodo alla pretesa della politica di impadronirsi dell’anima umana.

Perché la politica ne esce relativizzata, ad essa non si attribuisce valore salvifico, ma la si valorizza come tentativo continuo per il raggiungimento del bene comune. In questo tentativo la fede, sono ancora parole dell’Enciclica, permette alla ragione di svolgere in modo migliore il suo compito e di vedere meglio ciò che le è proprio. Nella riduzione moralistica e buonista del cristianesimo quello che domina è ultimamente un’assenza di giudizio originale (la forza purificatrice della fede rispetto alla ragione), per cui si finisce per essere subordinati alle istanze di volta in volta dettate dal potere e dagli interessi dominanti.

Così l’azione politica cessa di essere strumentale e viene ritenuta essenziale fattore di perfezionamento dell’io, traducendo essa in campo civile le sue attese spirituali e morali attraverso le strutture dello Stato. Non a caso tale orientamento all’interno del pensiero cattolico si salda, in vario modo, con i residui delle istanze marxiste, soprattutto post-comuniste.

Cosa, invece, può dire oggi il cristianesimo alla politica?

Deve sempre rimettere al centro la persona nella sua irriducibilità, l’io con il suo senso religioso, l’io con la sua insopprimibile tensione a intendere la vita come un cammino verso un Destino buono, giocando la sua umanità, desideri, ragione e affezione, in tentativi liberi di costruzione. Il contributo del cristianesimo alla politica, fin dalla sua origine, è stato di realismo e di prudenza.

Realismo, a partire dal fatto che la verità è l’adeguazione della ragione alla realtà, cioè demistificazione del potere assoluto e “divino” dello Stato e dell’imperatore. Prudenza, come retto criterio nelle cose che si fanno, «argomentando a partire dalla ragione e dal diritto naturale, cioè a partire da ciò che è conforme alla natura di ogni essere umano»; da qui il dialogo come confronto della propria esperienza e identità in vista del bene comune. Non dimentichiamoci che l’irrompere del cristianesimo nella storia è la sorgente del pluralismo, perché, per la prima volta, viene posto al centro degli interessi della polis un soggetto nuovo e originale – la persona – diverso dall’Impero e dall’imperatore.

Il contributo però oggi, aldilà dei richiami delle più alte gerarchie vaticane, sembra diverso. Abbiamo letto e sentito da più parti l’invito a non votare esponenti del centrodestra in quanto «divorziati». Insomma, ciò che veniva fornito ai fedeli non era un criterio razionale di valutazione di programmi politici, ma l’insistenza su un valore etico assoluto (e la conseguente squalifica per chi non lo rispetta).

Esatto. Ma questo richiamo moralistico è stato usato strumentalmente per sovvertire i criteri di valutazione che riguardano innanzitutto il contenuto dei programmi e l’agire politico concreto e non la situazione personale dei politici. è una impostazione astratta e potenzialmente intollerante che non ha certo aiutato al formarsi di un giudizio critico.

Con il paradosso che politici in situazioni “regolari” dal punto di vista matrimoniale sostengono politiche che minacciano potenzialmente l’integrità del matrimonio e la tutela della vita umana. In nome di una idea astratta di moralità si favoriscono politiche contrarie ai più elementari diritti della persona. Vorrei fare un altro esempio, tra i tanti possibili, di questa confusione di criteri.

Penso all’uso indiscriminato e molte volte a fini di parte del termine “legalità”. Esso ha sostituito il termine “giustizia”, «che è lo scopo e quindi la misura intrinseca di ogni politica» (cfr. Enciclica n. 28) che impedisce di ridurre la politica a una semplice tecnica per la definizione dei pubblici ordinamenti. La giustizia inizia come esigenza originale nel soggetto, prima che nell’ordinamento statale.

Essa è espressione di quel dinamismo della persona che il Papa nella lettera inviata al senatore Marcello Pera (in occasione del convegno di Norcia “A Cesare e a Dio”, 15-16 ottobre 2005, ndr), ha identificato nel senso religioso come fattore comune e originale di ogni uomo e quindi come fonte di incontro, dialogo e costruzione del giusto ordine per il bene comune. Una certa concezione di legalità, così come oggi è usata, affonda le sue radici in una concezione formalista e statalista, al di fuori dell’esperienza originale del singolo individuo. Così ciò che è legale è ultimamente determinato dal potere e dalle convenienze della maggioranza.

Cosa l’ha colpita maggiormente nell’espressione di Romano Prodi, al termine del primo confronto tv con Silvio Berlusconi, di volere «organizzare la felicità»? Il verbo o il sostantivo?

Il verbo. Anche se proclamata con una certa apparente bonomia, quell’espressione mi ha colpito negativamente. Alla politica non va chiesto di “organizzare” né la felicità, né i desideri dell’uomo, ma di creare gli spazi perché ogni uomo possa liberamente ricercare la felicità. Bisogna temere una pretesa che, se perseguita sistematicamente, introdurrebbe derive non solo stataliste, ma sottilmente autoritarie.

Berlusconi non ha promesso la felicità, ma si è limitato all’abbattimento dell’Ici.

Il centrodestra italiano, seppur talvolta confusamente, lascia ancora spazio al soggetto e alla sua libera iniziativa, riconoscendo, almeno formalmente, il principio di sussidiarietà. Nel programma del centrodestra, non senza limiti d’azione e di impostazione, esiste una fiducia per la libertà e la responsabilità dei singoli e il riconoscimento dei tentativi del riorganizzarsi della società dal basso per rispondere ai propri bisogni, primo fra tutti la libertà di educazione. è più difficile trovare questo nel programma del centrosinistra, statalista in economia e in campo educativo, con ampie concessioni alla mentalità edonista e relativista nel campo dei diritti della persona.

Vuol dire che son meglio i cattolici inconsapevoli di quelli adulti?

Meglio ancora i cattolici uomini veri. Che non significa ingenui o inconsapevoli, ma semplici, come bambini, attaccati all’essenziale della loro fede e della appartenenza alla Chiesa. Per questo liberi, realisti e appassionati nella edificazione instancabile del bene comune, quindi realmente tolleranti.