Sulla pillola del giorno dopo alle donne va detta la verità

pillola abortivaAvvenire 23 settembre 2005

di Marina Corradi

L’alt alla sperimentazione della pillola abortiva Ru 486 imposto dal ministro alla Sanità sarebbe una reazione cattolica «alla pretesa delle donne di abortire senza una adeguata dose di sofferenza», secondo Miriam Mafai. «Un accanimento contro le donne», per la responsabile femminile dei Ds, Barbara Pollastrini. Dunque, “le” donne italiane pretendono il diritto all’aborto chimico e il Potere si accanisce contro “le” donne.

Parrebbe, a leggere i quotidiani, che queste signore, insieme ad altre come Margherita Boniver («L’ennesimo tentativo di colpevolizzare le donne»), insomma a un drappello di femministe di lungo corso con scarso ricambio generazionale, rappresentino l’intera popolazione femminile italiana: che insorge contro l’obbligo dell’aborto chirurgico, là dove è ormai possibile prendere una pillola e risolvere il problema in maniera più “soft”.

Al di là delle ragioni cliniche che hanno indetto il ministero a bloccare la sperimentazione, emerge fra le righe l’apprezzamento per questo aborto che farebbe soffrire di meno, e perciò sarebbe oggetto del veto catto-reazionario. Ciò che una ragazza che ascolti impara è che esiste un modo di interrompere la gravidanza “semplice”, mandando giù una pillola, e che invece la si vuol costringere alla sala operatoria, in una mistica del dolore.

Quanto invece le Mafai e le Pollastrini non dicono è che quella pillola ci mette ben tre giorni, a liberarti del figlio che aspetti. La prima dose blocca i recettori del progesterone, l’ormone che sviluppa il tessuto uterino. Quando, 48 ore dopo, l’embrione è morto, la seconda parte del trattamento ne provoca l’espulsione.

In tutto, tre giorni per un’agonia dentro se stesse. Tre giorni che possono essere interminabili, per tutte le donne che a quell’aborto sono arrivate magari per solitudine, o paura, o povertà, ma sanno che comunque ciò che stanno perdendo era un figlio – per quelle che chiamano le cose con il loro nome. Davvero è meglio questa lunga dolorosa attesa piuttosto del taglio netto di un intervento?

Davvero conta così poco ciò che passa nei pensieri di una donna in quel silenzioso aspettare che la vita che stava crescendoti dentro, eliminata chimicamente, abbandoni il tuo corpo? Perché dire questa bugia a una generazione di ragazze, che, non sapendo, penseranno all’aborto in pillola come a qualcosa di più sopportabile, e saranno magari tentate – non sapendo – di usarlo come un estremo anticoncezionale d’emergenza?

L’altra mistificazione, sta in quella pretesa del drappello tardofemminista di parlare a nome “delle” donne. La pretesa delle donne di abortire senza sofferenza, «accanimento contro le donne», dicono, con la sottesa affermazione di essere portavoce dell’universo femminile tutto. Come se tutte le donne, in quanto tali, fossero schierate dietro di loro. Il che ricorda l’appello di Emma Bonino a pochi giorni dal referendum: “le” donne portino mariti, fratelli, figli a votare. A votare come la Bonino, sottinteso: immaginando ancora questa monade femminile, obbedientemente allineata nei dogmi del vecchio femminismo.

E, il giorno dopo, qualcuna a lamentarsi: «Le donne non hanno capito, le donne ci hanno tradito». In realtà, quelle donne avevano capito benissimo, e semplicemente non si riconoscevano né in quella battaglia, né nelle loro pretese rappresentanti. Dietro le alfiere del femminismo, erano rimaste in poche. Perché oggi ci sono tante donne diverse: cattoliche, o laiche ma con precise convinzioni sulla maternità.

Ci sono e sono tante quelle che hanno abortito, e vorrebbero non averlo fatto. Ci sono quelle che non sanno ancora, e a cui non è giusto raccontare storie di aborto “semplice”. Di modo che, quando si sente una del solito drappello intonare il lamento: «È contro le donne», sarebbe opportuno dirle di parlare per sé e per quelle che davvero rappresenta. Ma non, per favore, in nostro nome.