Sei povero? Ti organizzo un fondo

Banca_Mondiale Il Timone n. 26, Luglio/Agosto 2003

Si costituiscono fondi per risolvere i drammatici problemi di sopravvivenza di interi popoli e nazioni. Ma restano molte perplessità. Per queste ragioni…

di Riccardo Cascioli

Da qualche mese si moltiplicano le voci che chiedono l’istituzione di un Fondo speciale per Africa. Di fronte ai drammatici problemi del Continente Nero, alla miseria crescente e all’indifferenza della comunità internazionale la richiesta ha un suo senso. È soprattutto richiamo a occuparsi di centinaia di milioni di persone che vivono ai margini della società globalizzata. Se ne è fatto interprete il segretario generale dell’ONU Kofi Annan, lo ha chiesto anche il presidente della Repubblica italiana Carlo Azeglio Ciampi, se ne è parlato al G8 di inizio giugno.

Ma siamo sicuri che la risposta ai drammatici problemi dell’Africa sia un Fondo speciale? Da una parte è comprensibile che problemi tanto vasti richiedono investimenti enormi e un approccio unitario, il che è possibile solo con l’intervento coordinato di diversi Paesi. Malgrado ciò siamo però di fronte a una tendenza che solleva molte perplessità. Che di tendenza si tratti non vi sono dubbi: abbiamo già un precedente, quello del Fondo Globale dell’ONU per l’AIDS, la malaria e la tubercolosi creato nel 2001 su volontà del segretario dell’ONU Annan.

E altri Fondi certamente seguiranno: per l’acqua, ad esempio, o per la sicurezza alimentare. E questo non è altri che l’ultima applicazione d una politica che ha visto dagli anni ‘90 un aumento vertiginoso degli aiuti allo sviluppo distribuiti attraverso le agenzie multilaterali (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Unione Europea, e le agenzie Onu come il Programma per lo Sviluppo, Alto Commissariato per i Rifugiati, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’Unicef e così via) a scapito degli aiuti cosiddetti bilaterali, ovvero da Paese a Paese.

Basti pensare che in Italia dal 1992 a oggi gli aiuti bilaterali sono passati dall’equivalente di circa 2 milioni di euro a 600 milioni, cifra che costituisce appena il 20% dell’intera somma che il nostro Paese paga per gli aiuti allo sviluppo.

Qual è il problema?

Anzitutto la constatazione che la condizione dell’Africa in questi anni è addirittura peggiorata malgrado le agenzie multilaterali – Banca Mondiale in testa – vi abbiano buttato decine di migliaia di miliardi di dollari in grandi progetti. Perciò la fiducia nelle agenzie multilaterali non nasce da una realtà sperimentata ma da un auspicio futuro quantomeno aleatorio.

In secondo luogo, c’ê un aspetto che potremmo definire psicologico: la creazione di Fondi, con la conseguente disperata caccia ai Paesi donatori e con l’imbarazzante balletto dei singoli governi che cercano di pagare il meno possibile, alla lunga crea nell’opinione pubblica la mentalità per cui il problema degli aiuti allo sviluppo si riduce al denaro. I soldi sono certamente importanti, ma l’esperienza dimostra che è molto più importante come vengono spesi.

Terzo: a questo proposito la realtà ci dice che buona parte dei fondi che passano dalle agenzie multilaterali sparisce per alimentare il “carrozzone” fatto di burocrati, funzionari, consulenti, strutture e così via. Al punto che molti osservatori hanno criticamente sottolineato che gli aiuti sviluppano soprattutto le agenzie che li raccolgono.

Quarto: malgrado nelle intenzioni dovrebbe accadere il contrario, in realtà si riduce lo spazio di autonomia per la società civile, organizzazioni non governative in testa che hanno meno fondi pubblici a disposizione e più vincolati.

Quinto: si assiste a una crescente deresponsabilizzazione dei governi, che si sentono meno incentivati ad avere una politica di cooperazione, ridotta in gran parte a staccare assegni per le grandi agenzie internazionali.

Infine, legato a quest’ultima considerazione, il fatto che i singoli governi perdono il controllo sull’uso del fondi destinati alla cooperazione e allo sviluppo, al punto che possono essere usati per perseguire politiche in palese contrasto con la legislazione e le politiche del Paese donatore. Facciamo l’esempio del Fondo globale per l‘AIDS: è partito nel 2001 con oltre 2 miliardi di dollari a disposizione; dopo 13 mesi l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha annunciato che erano stati approvati 61 progetti in 43 Paesi, ma al febbraio 2003 – dopo due anni – i progetti sono stati avviati in solo 4 Paesi.

Non solo: l’OMS è stata anche piuttosto reticente sulle organizzazioni che intende finanziare, il che si spiega con il fatto che una parte rilevante del Fondo per l’AIDS non solo è destinata alla diffusione della contraccezione (anzitutto preservativi) ma anche all’aborto. Non è infatti un mistero che per alcune organizzazioni un modo privilegiato per evitare il diffondersi dell’AIDS sia quello di impedire di portare a termine le gravidanze delle donne sieropositive, malgrado sia dimostrato che almeno la metà dei bambini nati da mamme affette da HIV non contraggano la malattia.

I programmi del Fondo Globale sembrano poi orientati alla regolamentazione – e perciò legittimazione – della prostituzione in Africa, malgrado la forte opposizione di alcuni governi come quelli di Uganda e Kenya. I programmi si concentrano infatti sui diritti dei “lavoratori del sesso” con la distribuzione alle prostitute e ai loro clienti di preservativi e kit per l’aborto, tacendo invece sul costume di sfruttare donne e ragazze che vengono ridotte a schiavitù sessuale.

É bene sapere a questo punto che – grazie al meccanismo inevitabile degli aiuti multilaterali – anche le nostre tasse vanno per finanziare questi progetti: nel 2003 il governo italiano ha consegnato al Fondo Globale per l’AIDS una tranche da 92 milioni di euro. Non solo, alla cooperazione multilaterale – Banca Mondiale, Unione Europea, agenzie varie dell’ONU – il nostro governo ha destinato complessivamente nel 2003 oltre 2 miliardi di euro, parte dei quali andranno certamente per progetti analoghi.

Oltretutto con la sensazione di aver fatto il proprio dovere, staccando un assegno e disinteressandosi delle conseguenze.

Ricorda

“Uno sviluppo soltanto economico non ë in grado di liberare l’uomo, anzi, al contrario, finisce con l’asservirlo ancora di più. Uno sviluppo, che non comprenda le dimensioni culturali, trascendenti e religiose dell’uomo e della società, nella misura in cui non riconosce l’esistenza di tali dimensioni e non orienta ad esse i propri traguardi e priorità, ancor meno contribuisce alla vera liberazione”.

(Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, n. 46).