Se l’etica dimentica l’«altro» senza voce

possenti_coverAnticipiamo in queste colonne uno stralcio del capitolo «Laicità e verità», tratto dal nuovo saggio di Vittorio Possenti, «Le ragioni della laicità», in uscita per Rubbettino (pagine 138, euro 12,00).

Nel volume il filosofo, docente di Filosofia politica all’Università di Venezia, riflette sull’intensa ripresa del dibattito sulla laicità, proponendo non una sua restrizione a lotta per la supremazia tra due parti, ma una comprensione come ricerca di un’intesa tra pensiero religioso e pensiero secolare sui fondamenti pre-politici della vita civile, riprendendo il dialogo tra Habermas e Ratzinger

di Vittorio Possenti

Poniamo una domanda sull’etica pubblica: deve essere ispirata da una visione antropologica non materialistica ma personalistica, e da un’etica dei diritti e dei doveri dell’uomo, oppure siamo ‘condannati’ a cercare un minimo comune denominatore che col tempo si palesa sempre più ristretto?

Posto in termini appena diversi la questione chiede se l’etica pubblica debba essere neutrale e non ispirarsi ad alcuna visione, o se invece non possa non camminare su alcuni binari abbastanza precisi. Ed è a questo crocevia che si addebita spesso alla Chiesa cattolica e a quella italiana di voler dall’alto del suo magistero dettare o addirittura imporre un’etica pubblica a tutti i cittadini, credenti o meno. Intanto emerge la domanda decisiva dell’etica pubblica che ci è necessaria: chi è l’altro che dobbiamo rispettare?

Osservo che questa domanda si pone vicina al criterio kantiano del rispetto e della pari libertà dell’altro, seppure in condizioni nuove, poiché vi sono ‘altri’ cui Kant non pensava, e a cui non pensa una quota del laicismo contemporaneo italiano, fortemente marcato dalle opzioni del radicalismo, la cui quintessenza sta nel porre la libertà di scelta dell’adulto sopra il resto.

Considero la questione dell’altro come un nucleo assolutamente centrale di come vada posta la questione della laicità e del diritto pubblici, particolarmente oggi quando sullo statuto dell’alterità cadono ombre. La domanda pertinente chiede se l’etica pubblica e la legge civile possano fondarsi sulla libera contrattazione di mani forti che volta per volta decidono l’agenda e le regole da fissare (con il grave rischio, per non dire realtà, che i più deboli, i senza voce non siano considerati in questa contrattazione), oppure se invece esistano limiti all’esercizio della indifferenziata libertà dell’adulto.

Il tema è presto enunciato: alla legge civile va riconosciuto un compito pedagogico di indirizzo verso la giustizia e la vita buona, o essa è soltanto una veste mutevole che deve adattarsi alle più varie circostanze? Nel diritto/ jus si esprime qualcosa che vale essenzialmente, o è solo il prodotto di una mediazione variabile e contingente? Rispondendo affermativamente alle due domande, si profila un’idea di laicità che non assume la completa separazione tra diritto e morale.

Oscurandosi il principio-verità, e prendendo piede un’idea di diritto come non legato a qualcosa che vale in sé, muta il significato della legge (e il compito del legislatore), nel senso che essa non traccia più un indirizzo verso il bene comune ma si adatta a recepire quasi ogni richiesta: così le leggi si particolarizzano, perdendo ogni carattere di universalità. Non si fa rientrare l’esistenza reale nella legge, ma si adatta la legge ­elastico estensibile in ogni direzione – ai mille casi della realtà.

Dall’autorità politica si esige che legiferi nel più ampio rispetto della libertà e delle opinioni di ogni genere dei cittadini. La ‘nuova’ idea è che lo Stato e la legge non devono vietare ciò che l’individuo preferisce. Viene qui a taglio ricordare l’invalicabile differenza tra ‘principi’ che non sono negoziabili e ‘interessi’ che lo sono: i principi infatti hanno una dignità, mentre gli interessi un prezzo.

Avendo valori e diritti a che fare coi principi, in molti casi non si può arrivare a una mediazione tra posizioni contrapposte, poiché i principi, diversamente dagli interessi, non hanno punto medio: non esiste infatti un punto medio tra rubare e non rubare, uccidere e non uccidere.

La tolleranza liberale pensa di sfuggire al problema, varando leggi che né obbligano, né vietano, ma permettono, e vi ricorra chi vuole. Si tratta, come ognuno sa, di leggi che toccano nella maniera più netta nuclei morali e antropologici sensibilissimi.

Il problema tuttavia permane in pieno. Consideriamo l’aborto: chi, favorevole all’aborto in base al pro choice, lo promuove, impone pesanti costi morali all’antiabortista che certo non vi ricorre, ma che sente come una violazione intollerabile l’eliminazione del feto. Chi al contrario lo vieta, in base al pro life, impone un limite a chi intende farvi ricorso che questi sentirà come un iniquo attentato alla sua libertà. «Se tu non vuoi, perché impedisci che io possa?», si obietta di frequente da parte di chi è a favore della libera scelta.

La domanda, pur suggestiva, è mal posta, perché chi si espone a favore di principi non negoziabili li intende validi erga omnes e procede a provarlo. «Non uccidere l’innocente» è appunto uno di tali principi, che è realtà diversa da mere istanze del desiderio. La fondamentale non negoziabilità dei principi suppone che ciò che è in questione sia un principio reale e non una mera pretesa. Inoltre suggerisce di saggiarli nel concreto, ed in ciò sta il vero problema, poiché è arduo conoscere il principio integralmente, nel complesso arco delle sue conseguenze e applicazioni e nel suo eventuale interagire con altri criteri.

Vi sono zone grigie nell’applicazione concreta del principio, il che normalmente persuaderà al dialogo e a presentare il più onestamente possibile la propria posizione.

Quando si oscura il principio-verità, la legge si adatta a recepire quasi ogni richiesta, senza più tracciare un indirizzo verso il bene comune della società.