Quando il profetismo degli esperti viene smentito dalla storia

profetismoCorriere della Sera 31 luglio 2010

di Vittorio Messori

“Svolta storica“: ecco che ci risiamo, con il consueto corteo di analisi, di proiezioni, di previsioni. Questa volta tocca alla Cina, con il sorpasso della sua economia su quella giapponese.Come al solito, turbe di “esperti“ ci disegneranno i loro scenari per l’avvenire dell’Impero di Mezzo.

Ma il guaio dell’età è l’istinto di girar pagina, per confrontarsi con la cronaca del momento, lasciando in pace la futurologia. Chi, come me, era al liceo e poi all’università tra la fine dei Cinquanta e l’inizio dei Sessanta è vaccinatissimo contro il profetismo degli “esperti“.

Tanto per iniziare con un caso personale: nel 1961 la Torino in cui vivevo raggiungeva il milione di abitanti. Sociologi, demografi, economisti, presi sul serio dai politici, prevedevano con assoluta sicurezza che nel Duemila la città avrebbe superato i due milioni. In quell’anno, la popolazione del Comune era di 865.000 persone.

Ma, in quegli anni, in una inchiesta su l’Espresso, Eugenio Scalfari profetizzava che, negli anni Ottanta, l’Unione Sovietica avrebbe superato come ricchezza, benessere personale, libertà stessa America e Europa Occidentale. A Scienze Politiche i docenti, con occhi luccicanti, ci parlavano delle meraviglie della decolonizzazione, allora in atto.

Prevedevano, soprattutto, un boom africano: economia e cultura “nere“ sarebbero esplose e ci avrebbero surclassati. Intanto, i più venerati tra i sociologi pubblicavano best seller sulla “eclissi del Sacro nella società secolare“. Nel prossimo futuro, giuravano, ci aspettava il declino della religiosità : si sarebbe spento, o ridotto a nicchia, anche il cristianesimo, mentre l’editto di morte per l’islamismo era già pronunciato.

Fede, questa, nata per beduini nel deserto, incapace di confrontarsi con la modernità. Non poteva esserci posto per essa, per i suoi decrepiti precetti, nei nuovi stati asiatici e africani nati dalla decolonizzazione.

Teneva banco, soprattutto, il think-tank degli ascoltatissimi super-esperti  iuniti nel “Club di Roma“: con la sicurezza di chi si appoggia solo su dati sicuri, annunciavano, implacabili, “la fine dello sviluppo“. Entro pochi anni, le riserve di materie prime si sarebbero esaurite, a cominciare dal petrolio. Ci aspettava, ben prima del Duemila, la regressione alle caverne per mancanza di mezzi fornitici da Madre Terra. Ma ci attendeva anche una grande glaciazione, si andava verso “il raffreddamento globale“.

Non è una battuta ironica sugli apostoli attuali del global warming. Ricordo come, da giovane cronista, fui inviato a un grande congresso internazionale e riferii ai lettori dell’unanime parere dei climatologi: la forza del Sole si indeboliva per lo schermo provocato dall’inquinamento, presto avremmo visto iceberg alla deriva nel Mediterraneo. A Venezia saremmo andati con slitte e pattini. Anche se lo si è rimossa con disagio, era quella, allora, l’ossessione dell’apocalittismo ambientalista.

Nasceva l’elettronica, qui dominavano gli esperti che si rifacevano a un best seller francese, La sfida americana. Una scuola opposta a quella di Scalfari, una scuola dove si puntava sull’egemonia yankee. Da questi esperti, predizioni apodittiche come quella che tutto il settore elettronico, nel mondo intero, sarebbe stato monopolizzato da una sola azienda, l’IBM, Nessuno sarebbe stato in grado di scalfirne lo strapotere e nessun tecnico, se non americano, sarebbe stato in grado di costruire un computer.

Meno che mai i giapponesi, buoni solo a copiare. Ma la forza imperiale Usa si sarebbe imposta anche nelle auto: i tre colossi storici –General Motors, Ford, Chrysler– avevano già accaparrato ogni brevetto, i loro centri studi erano invincibili, in ogni continente si sarebbe costruito solo su loro licenza. Niente da fare per i non americani anche per le linee aeree: tutte sarebbero divenute solo filiali locali del gigante non sfidabile, la Pan American. Solo per promemoria: la compagnia fallì, dopo lunga agonia, nel 1991.

Quanto all’Europa, editorialisti da giornale e cattedratici insigni convergevano su alcune certezze: nel caso, dato peraltro per impossibile, di riunificazione tedesca, si sarebbe trattato di una sorta di incorporazione della Germanio Ovest in quella dell’Est che, alla pari dell’Urss , avrebbe scalato le classifiche economiche.

Ancora: dopo decenni di energica cura di Tito, la Jugoslavia era un blocco compatto, era  l’unione ormai indissolubile di un unico popolo. La Spagna, alla morte di Franco, sarebbe precipitata in un’altra guerra civile, il re designato come successore sarebbe stato espulso se non fucilato. In ogni caso il Paese, spossato dalla dittatura franchista, avrebbe avuto decenni non solo di violenza ma anche di spaventevole miseria.

Per Israele, un avvenire sereno: l’islamismo si squagliava sotto il sole della modernità, gli arabi avrebbero sempre più apprezzato i vantaggi economici portati dagli ebrei, che facevano fiorire il deserto e cercavano mano d’opera per le loro fabbriche.

Solo pochi fanatici musulmani, isolati, si sarebbero opposti al predominio della democrazia, del laicismo e, dunque, della feconda convivenza. Quanto alla Cina – di cui ai media di oggi – i sinologi occidentali non esitavano: il marxismo alla Mao aveva trovato l’habitat ideale nel temperamento e nella storia cinese, nell’enorme Paese era impossibile una conversione a una qualunque economia di mercato. Gli affari non erano cosa per le gregarie “formiche cinesi“.

Potrei continuare a lungo. Ma questa basta, credo, per giustificare il sorriso annoiato –mio e dei miei coetanei- ogni volta che i media annunciano “svolte epocali“ e ne traggono previsioni che la Storia, puntualmente, smentisce. Ben prima di Hegel, gli antichi Padri cristiani parlavano dell’ironia divina: l’Onnipotente si prende gioco della presunzione umana nel voler prevedere un futuro di cui Egli solo conosce il mistero.