Neolingua femminista

neolingua femministaAbsract: Neolingua femminista ultima frontiera della dissoluzione. La lingua di genere ha come obiettivo ideologico la femminilizzazione del linguaggio, dunque della società, compreso il cosiddetto “immaginario spirituale”. Va da sé, con tale impostazione, che l’omosessualizzazione è solo una tappa intermedia di un processo di inversione totale destinato a compiersi con la prevalenza del femminino. Come tutte le rivoluzioni, anche quella liturgica è fondata sul ritorno alle origini, allo stato di natura, che è tutt’altra operazione rispetto al ritorno alle fonti della Tradizione.

Ricognizioni 3 dicembre 2023

La prevalenza del femminino, ultima frontiera della dissoluzione

(romanzo infernale)

di Alessandro Gnocchi

Quando sento parlare di linguaggio, invece che mettere mano alla pistola, torno a leggere quanto scriveva Attilio Mordini oltre quarant’anni fa: “Dall’unità di Dio muove il molteplice nello spazio e nel tempo per tornare all’uno nell’atto della Sua eternità; (…). In Dio, causa efficiente e causa finale sono una cosa sola, sono Carità. Creare è evocare dal nulla; l’atto di Dio che dona la vita è lo stesso atto che chiama la vita al suo unico fine. Il comando all’abisso vuoto e informe e l’appello amoroso alle creature è una sola parola, il Verbo, il Figlio; e ascoltare questa parola è contemplare”.

Inizia così Verità del linguaggio, con un incipit bello come poche volte lo sono quelli posti in capo ai libri di saggistica. Così caritatevolmente inesorabile da essere un colpo diretto al cuore dei corruttori di intelligenze, più risolutivo di una revolverata. Bellezza di altri cieli, se si pensa cosa sia divenuta oggi la nostra lingua e quali abissi evochi ogni volta che venga pronunciata secondo le regole della reductio ad infernum che ormai la governano. E viene alla mente un altro incipit, poetico questa volta, quello del Diario Bizantino di Cristina Campo: “Due mondi – e io vengo dall’altro”.

In principio fu la neolingua

Quando sento parlare di linguaggio, non metto mano alla pistola, poiché la mise un inarrivabile Orwell, con 1984. Nel suo romanzo, settant’anni fa, lo scrittore inglese descriveva il dominio del Grande Fratello esercitato sui cervelli e sulle anime attraverso l’invenzione della neolingua e l’esercizio del bipensiero: questo ordito per indurre gli uomini a ritenere possibile contemporaneamente una cosa e il suo contrario, quella per consentire solo articolazioni vocali gradite al partito.

Era il 1949 quando Orwell raccontava un universo in cui il potere governa un eterno presente in nome di un futuro illusorio e grazie alla manipolazione del passato. Un inferno reso possibile dalla devastazione delle parole. Quasi contemporaneamente, nel 1947, ne parlava Thomas Mann nel Doctor Faustus, con un’intuizione visionaria capace di andare anche più lontano, là dove la parola è sul punto di spegnersi: “Questa è, precisamente, la gioia segreta, la sicurezza dell’inferno: che non è enunciabile, che è salva dal linguaggio, che esiste semplicemente, ma non la si può mettere nel giornale, non la si può rendere pubblica, non se ne può dare una nozione critica con parole, poiché le parole sotterraneo, cantina, mura spesse, silenzio, oblio, mancanza di salvezza sono solo deboli simboli (…) là tutto finisce, ogni pietà, ogni grazie, ogni riguardo e fino all’ultima traccia di comprensione per l’obiezione incredula e scongiurante: ‘Questo voi potete, eppure non potete fare di un’anima’. E invece sì, lo si fa e avviene senza il controllo della parola, in cantine afone, laggiù in fondo dove Dio non ode, e per tutta l’eternità”.

Ma la realtà è sempre in grado di mettere in mora anche l’immaginazione più feroce. Nel fondo dell’inferno, dove la luce della Carità divina giunge solo come tormento, non è in atto semplicemente una guerra al Santo, Santo, Santo Signore Dio degli Eserciti. Laggiù, l’opera al nero della scimmia e dei suoi seguaci persegue il disegno di impedire, anche solo come idea, la santità dell’uomo producendo alchemicamente il silenzio delle parole.

Se per un momento siamo entrati in chiesa, è già il momento di uscirne per tornarvi più tardi, quando verrà celebrato il culto delle tenebre. Adesso accomodiamoci a una conferenza sulla “Lingua di genere”.

Ministra, sindaca, ingegnera & c. Non c’è niente da rdere

Da qualche anno, l’Italia, come gli altri Paesi cosiddetti sviluppati, è percorsa da agguerrite compagnie di giro che spiegano al colto e all’inclita come sia ben fatta cosa dire “ministra”, “sindaca”, “ingegnera”, via via declinando al femminile tutto quanto venga toccato da una donna, come in una nuova creazione dove è una Eva politicamente corretta a dare finalmente il nome giusto alle cose.

Vado volentieri a questi incontri, specialmente a quelli che mi segnalano le colleghe più radical e più chic, perché alla fine c’è sempre modo di parlare con qualche relatore, che poi sarebbe una “relatora”. “Ti presento la professoressa A B, è docente dell’univresità di C, autrice per l’editore D e scrive da anni su questi argomenti. Magari ti convince”. Sono un irrecuperabile, ma simpaticamente garbato, dunque vengo tenuto sotto benevola osservazione. Non si sa mai

La professoressa A B, in genere, è di alto livello, studia da anni la materia e ha una competenza notevole. Fuori onda, opportunamente sollecitata, spiega ancora più precisamente l’obiettivo del suo lavoro, che non è quello di denunciare la profanazione maschilista della lingua per bilanciare democraticamente i poteri linguistici. “Questa” spiega la professoressa A B “è roba da femministe degli anni Settanta. Non è la quota rosa nel vocabolario che ci interessa. Noi il vocabolario lo dobbiamo riscrivere perché vogliamo che si parli una nuova lingua, anzi la vera lingua che è sempre stata occultata da una sovrastruttura ideologica”.

Il linguaggio della professoressa A B, come il suo nome, non mi è nuovo e azzardo un’osservazione a cui magari non avrebbe risposto in pubblico “Insomma, si tratta di tornare a uno stato di natura della lingua, una lingua pura…”. Un momento di silenzio. “Ma, allora, siamo fatti per intenderci…”. Per intenderci, forse no, però per capire quanto stiamo dicendo, forse sì. Cerco di vederci chiaro fino in fondo, “Quindi, voi siete almeno un passo avanti ad Alma Sabatini”.

Ho pronunciato il nome magico, tanto più che ho anche aggiunto Il sessismo nella lingua italiana, 1986. Alma Sabatini è stata femminista, militante radicale e si è battuta per tutti i diritti immaginabili, civili e, a mio modo di vedere, incivili. Ma, soprattutto, è stata la linguista che ha tracciato il solco della “lingua di genere” oggi difeso dalle spade delle varie professoresse A B. Il sessismo nella lingua italiana, uscito appena due anni dopo il fatidico anno 1984 immaginato da Orwell come apogeo del Grande Fratello, fu scritto su richiesta della Commissione Pari Opportunità istituita dal governo Craxi e divenne la pietra angolare degli studi linguistici di genere.

Va riconosciuto che chi lavora per le forze degli inferi, in genere, ha doti intellettuali di tutto rispetto e produce opere in grado di contenere almeno in nuce tutto quanto verrà nei decenni successivi. È caso di Alma Sabatini. Lo riconosco senza remore e riserve mentali anche parlando con la professoressa A B, la quale mi ricompensa con un cortese sorriso e la conferma che “sì, il nostro compito è quello di ritrovare lo stato di natura della lingua, perché lì sono contenuti tutti i femminili di qualsiasi parola che possa essere riferita anche a una donna. Se esiste il femminile è obbligatorio usarlo per dimostrare che l’essere donna è superiore a qualsiasi altra determinazione”. E questa non sarebbe ideologia.

La prevalenza del femminino

Nei teoremi della professoressa A B non esiste il minimo dubbio su chi debba prevalere al termine della tenzone lessicale. Riprendo quindi una domanda su cui in sala la risposta non è stata molto chiara. Se il compito principale affidato alla lingua consiste nell’identificare e certificare l’identità sessuale, anche quando non è necessario, dovrà essere adottato un genere anche per gli omosessuali… “Niente affatto” spiega la professoressa A B. “Esistono solo il genere femminile e quello maschile. Gli orientamenti sessuali dei singoli individui possono solo essere descritti. Questo non significa che non abbiano dignità, e io personalmente mi batto per i diritti di qualsiasi scelta, ma non sono riconosciuti dalla lingua”.

In altre parole, la lingua di genere ha come obiettivo ideologico la femminilizzazione del linguaggio, dunque della società, compreso il cosiddetto “immaginario spirituale”. Va da sé, con tale impostazione, che l’omosessualizzazione è solo una tappa intermedia di un processo di inversione totale destinato a compiersi con la prevalenza del femminino.

Questo argomento meriterebbe un saggio a sé. Ma, visti i tempi, non si può comunque non applicare lo schema a quanto sta accadendo nel mondo cattolico. Siccome il processo rivoluzionario tende sempre al suo effetto estremo, il capovolgimento totale, l’esito finale di quello in atto nella chiesa può essere solo la sostituzione del sacerdote maschio con il sacerdote femmina o, per usare la “lingua di genere”, del sacerdote con la sacerdotessa. Da questo punto di vista, la pandemica omosessualizzazione del clero cattolico è la via più rapida, efficace e inesorabile alla femminilizzazione della chiesa: l’inversione sessuale del maschio diventa agente dell’inversione spirituale della neochiesa, che ha come mito fondatore un Eden in cui regna un’Eva ribelle e come fine ultimo una Gerusalemme celeste in cui angeli femmina, o meglio “angele”, cantano incessantemente le lodi di un dio donna.

A questo punto, mi prendo la libertà di saltare le argomentazioni esibite dalla nostra studiosa come apodittiche e, in quanto tali, nemmeno passibili di revisione scientifica. Sono tutte opinabili, una per una, ma la professoressa A B non si muove nel campo della scienza, detta dogmi in quello della teologia, anche se non lo sa o finge di non saperlo. Sono tentato di salutarla chiamandola professore, poi ricordo che, più o meno quarant’anni fa, all’università chiamavamo professoressa il Chiarissimo Professor Sofia Vanni Rovighi e soprassiedo.

Ritorno allo stadio di natura della lingua, l’Eden della follia 

Ho impegnato un’ora di viaggio per l’andata, un’ora di conferenza, un’ora di chiacchiera informale e un’altra ora di viaggio per il ritorno, ma ne valeva la pena. Mi sono portato a casa l’esplicita dichiarazione d’intenti di “isolare il femminile da maschile e renderlo indipendente dall’ordine tradizionalmente istituito”.

Bisogna riconoscere che l’hanno studiata proprio bene. Basta dire “ministra” invece che una “donna è ministro” e, se mi si passano i termini inventati sul momento, la “donnità” ha il sopravvento sulla “ministrità”. Affermare la superiorità dell’identità sessuale sul significato di una carica pubblica porta proprio al punto in cui le varie professoresse A B vogliono arrivare: la separazione della donna dall’uomo là dove dovrebbero invece essere uniti e sullo stesso piano nel riferirsi a un ordine superiore rappresentato dalla funzione svolta.

A questo punto, lo stato di natura della lingua, se non è raggiunto, è comunque alle viste e basta un passo per entrarvi. Ma è l’Eden della follia, in cui le parole non sono più in grado di dire niente per il semplice motivo che sono pensate per essere afone. Più di un secolo fa, tutto questo è accaduto all’arte. Ne parlo con un amico, l’architetto E, che conosce a memoria tutta l’opera di Sedlmayr. “’Perdita del centro’, pagine 221 e 222”. Mi alzo, prendo Perdita del centro dallo scaffale in cui tengo le opere di liturgia, anche se questa parla di arte, e apro alle pagine 221 e 222. “Leggi, leggi e vedrai se quel genio di Sedlmayr, quando parlava della tragedia dell’arte moderna non descriveva anche quello che mi stai dicendo sulla lingua pura”.

Leggo: “Le manifestazioni dell’arte indicano però anche – e chiaramente – in quale zona si debba ricercare l’origine del turbamento, ossia il nucleo più intimo. Nell’arte, il fattore primario è evidentemente lo sforzo verso l’autonomia, verso la purezza sia dell’arte in genere sia delle singole arti in specie. Con ciò possono essere facilmente spiegati lo slittamento dell’arte e, insieme, di tutte le arti nel subartistico e una quantità di altri fenomeni. Dall’aspirazione verso l’architettura pura deriva il dissolvimento dell’architettura stessa e la sua sostituzione con la pura e semplice edilizia, come anche la sua mancanza di una base. Dall’aspirazione alla pittura pura consegue l’abbassamento dell’uomo al livello delle cose morte e la rinuncia all’oggettività in genere. (…) L’aspirazione a un’arte presumibilmente pura ha come conseguenza la separazione del contenuto intellettuale e la degradazione dell’arte nella zona del subrazionale, il suo decadere nella costruzione, nella fotografia, nel sogno, ossia nell’oggetto estetico”. (…) Nel medesimo ambiente storico dal quale ha origine l’arte moderna tendente all’autonomia, e nella medesima epoca (un po’ prima, però, come del resto ci si poteva aspettare) si è giunti alla scissione fra l’uomo e Dio, scissione che qui può essere desunta soltanto dalle manifestazioni dell’arte: si è giunti alla proclamazione dell’uomo autonomo”.

Va in scena la liturgia di genere

La compagnia di giro che porta nelle piazze d’Italia le meraviglie della “lingua di genere”, a diversi livelli di consapevolezza, intende arrivare all’oblio dell’essere. “Dunque, siamo all’atto finale?”. No, l’atto finale è un altro, ancora più infernale, e si recita nelle chiese cattoliche romane da lungo tempo: palesemente dall’avvento della riforma liturgica di Paolo VI, occultamente molto prima. Lo schema è lo stesso adottato nella rivoluzione della “lingua di genere”, quello della separazione, tanto da poter parlare di “liturgia di genere”. Bisogna solo considerare che i termini in gioco, qui, non sono più “uomo” e “donna”, ma “sacro” e “profano”, “sacerdote” e “laico”.

Come sempre, in caso di reato, serve un testimone. Per questo vado a trovare don F, un vecchio sacerdote cattolico romano che decenni fa ha intrapreso un burrascoso viaggio dalla vecchia Messa alla nuova e ritorno. Voglio che mi confermi quanto mi confidò a proposito del disagio provato durante la celebrazione della neoliturgia. “Ti ripeto volentieri quanto ti ho già detto. Ciò che mi ha fatto definitivamente tornare al messale antico, affrontando la persecuzione e l’isolamento che sai bene, è stato il fatto che non mi sono mai sentito così solo come quando celebravo la messa di Paolo VI. Lo facevo secondo il massimo rigore, mettendo tutto quello ci potevo mettere, eppure ognuno rimaneva ognuno per conto suo, il sacerdote, i fedeli e persino Dio, se così mi permetti dire, magari con un po’ di imprecisione teologica. In altre parole, rimaneva tutto qui sulla terra, senza che nessuno sentisse il bisogno di salire verso il Signore e diventare santo”.

Ma lei, don F, mi ha detto che una sensazione un po’ opaca la provava anche prima… “Sì, con l’andare del tempo sentivo i legami farsi meno saldi. Ma non era una questione di rito, era una questione di fede. Non bisognava cambiare la vecchia Messa, bisognava ridare vigore alla fede dei sacerdoti e dei laici, bisognava rinvigorire il desiderio di santità. Con il nuovo culto, che non riesco neanche a chiamare liturgia, è finito tutto in un batter d’occhio, ognuno è andato per conto proprio lungo le strade del mondo. Io non sono durato neanche un anno perché, in coscienza, non potevo officiare un rito che non rende santi e quindi, se due più due fa sempre quattro, può solo portare all’inferno. Oggi non capisco proprio quei sacerdoti che celebrano sia l’antico che il nuovo rito… Vuol dire che, per loro, paradiso e inferno sono la stessa cosa. Perdonami se ogni volta mi lascio prendere dalla foga, ma tu sai che secondo me avviene tutto nella liturgia e l’uomo potrebbe vivere anche solo di quella”.

Il vizio solitario della neolingua 

Devo alle lunghe chiacchierate con don F la messa a punto della definizione dell’uomo come “animale liturgico”. Avevo cominciato a lavorarci riflettendo sul detto di padre Pio secondo cui il mondo potrebbe stare senza il sole ma non senza la Messa, poi fu il vecchio sacerdote renitente alla leva montiniana a mettermi sulla strada buona. “Secondo me, tu dovresti leggere Alexander Schmemann. Il nome può suonare come quello di un modernista, ma non allarmarti inutilmente, è un teologo ortodosso. Gli ortodossi non hanno mai smarrito il senso più profondo della fede e quindi anche della liturgia”.

In un libro di Schmemann, Per la vita del mondo. Il mondo come sacramento, ho effettivamente trovato la conferma che cercavo nella definizione dell’uomo “come homo adorans: colui per il quale l’atto liturgico è l’atto essenziale che allo stesso tempo ‘pone’ la sua umanità e la compie”.

Per l’uomo, essere “animale razionale” non è complementare all’essere “animale liturgico”, non lo precede, non lo segue e neppure gli è contemporaneo: semplicemente vi è contenuto ricevendone nutrimento. Ciò perché l’intelligenza umana, che pure ha come oggetto l’essere, lo percepisce come mistero: sia che lo incontri troppo ricco di intelligibilità, troppo puro per le sue possibilità, come nelle cose spirituali, sia che vi scorga una certa resistenza all’intelligibilità, testimonianza in sé del non-essere, come è il caso della materia. È l’intima adesione dell’uomo all’atto liturgico a preservare la natura eccedente di Dio, la sua infinita distanza e alterità rispetto alla ragione puramente logica, facendo sì che il mistero, misteriosamente, diventi eloquente. In virtù di questa apertura originaria dell’uomo alla contemplazione, la ragione è forte al punto di accedere a certezze assolute.

Devo ammettere che il tuo ‘animale liturgico’, alla fine, mi convince” dice don F. “In qualche modo spiega la solitudine infernale generata dal nuovo rito cattolico e pure la sensazione inquieta provata durante la Messa vera celebrata dentro una chiesa che si avviava a mutarla praticamente senza incontrare resistenze. Se l’uomo è un ‘animale liturgico’, nella liturgia si compie la sua umanità, cioè si santifica. Ma la messa nuova non è fatta per questo e quella antica non sempre veniva celebrata a tale fine. È faticoso diventare santi. Ma, se non ci si santifica, non si dà compimento alla propria umanità. E, se non c’è vera umanità, non c’è vero discorso, ognuno rimane un ente isolato da tutti gli altri”.

Ritorno allo stato di natura del culto

Come tutte le rivoluzioni, anche quella liturgica è fondata sul ritorno alle origini, allo stato di natura, che è tutt’altra operazione rispetto al ritorno alle fonti della Tradizione. Lo schema e il fine sono identici a quelli adottati per il ritorno allo stato di natura della lingua e dell’arte, che li seguono logicamente e cronologicamente: separare per chiudere le Porte Regali del Cielo.

La liturgia, che è solo cristiana, non è da confondere con il semplice culto, inteso come un rito compiuto per stabilire un contatto tra una comunità e una divinità. L’azione di culto presuppone la distinzione radicale tra “sacro” e “profano” e, al suo termine, il sacro rimane sacro e il profano rimane profano, senza che vi sia stato mutamento. L’atto liturgico invece, celebrato da un sacerdote e partecipato dal laico, è di altra natura in quanto è manifestazione della santità della chiesa. Il sacerdote e il laico, pur nella distinzione dei rispettivi stati e dei rispettivi ruoli, vi sono uniti in quanto vivono della stessa santità, dell’appartenenza allo stesso Corpo di Cristo.

È proprio questo ciò che mancava durante la celebrazione della messa nuova nella chiesa latina” dice don F. “Invece che dischiudersi le Porte Regali, si spalancavano i cancelli dell’inferno perché quel culto è pensato allo scopo di separare gli uomini dalla santità separandoli uno dall’altro. Non bisogna farsi ingannare dalle panzane raccontate sullo spirito comunitario, sul ruolo dei laici, sulla partecipazione all’assemblea. Non ho mai visto nessuno così solo come in quelle chiese e a quelle messe. Se c’era comunione, ma non sono così certo che ci fosse, non era comunque con il Corpo di Cristo misticamente presente sulla terra”.

In chiesa è dunque già avvenuto ciò che ora sta accadendo nelle scuole di ogni ordine e grado, nei giornali, nella politica e ovunque sia usata la lingua parlata o scritta. Qui, isolando il genere femminile da ogni rapporto con quello maschile, attraverso il prevalere della femminilità, si persegue la sterilità del linguaggio e l’oblio della ragione. Là, isolando il laico dal sacerdote, attraverso il prevalere della laicità, si persegue la sterilità della liturgia e l’oblio della santità.

È questo, in definitiva, l’esito dell’opera al nero condotta sulla Messa che ha visto solo come ultimo atto la riforma liturgica: il ritorno allo stato di natura del culto, concetto quanto mai adeguato se l’obiettivo è quello di oscurare la sopranatura. Il sacerdote torna a essere “agente del sacro” e il laico torna a essere passivamente “profano”, anche se la pantomima inscenata alla tavola calda di un presbiterio aperto al pubblico illude il sacerdote di essere quasi un laico e il laico di essere quasi un sacerdote. In realtà, così come nella “lingua di genere” si è costretti a dire “donna è donna” oppure “uomo è uomo”, nella “liturgia di genere” si può solo dire “laico è laico” oppure “sacerdote è sacerdote”. Come sempre, l’illusione è più rivoluzionaria della realtà.

La vera liturgia ha bisogno del pane e del vino perché i fedeli, sacerdoti e laici, possano essere in comunione con Dio e conoscerlo. Ed è proprio questa comunione con la Divinità ottenuta attraverso la materia a dire ciò che il pane e il vino sono realmente.

Eppure, nelle chiese le cui porte sono spalancate sull’inferno si crede e si pronunciano uno sterile “il pane è pane”, “il vino è vino”… Si indica una cosa con un semplice urlo, con il barrito di una bestia. Non si dice niente. E si canonizzano santi che non sono santi, che celebrano una messa che non è Messa, che appartengono a una chiesa che non è Chiesa.