La rivoluzione Woke uccide l’Occidente

Abstract:  la rivoluzione Woke uccide l’Occidente, lo sostiene Andrea Zhok uno dei più interessanti e autorevoli filosofi italiani, il quale scorge elementi di cedimento in questa cultura che però secondo lui durerà. La cultura e rivoluzione woke hanno la loro origine nelle università americane e europee del riflusso sessantottino. Un fondamentalismo nato dall’arroganza del vincente liberalismo

La Verità 16 novembre 2023

Il fanatismo occidentale uccide l’occidente

La cultura woke mostra segni di cedimento, ma è un errore darla per vinta. Come spiega Zhok nel suo libro: «Il politicamente corretto è strutturato e muove soldi, durerà. Archetipo dell’intolleranza, altro non è che il fondamentalismo della nostra civiltà»

di Francesco Borgonovo

Non è il caso di abbassare la guardia. Benché da qualche tempo il delirio liberal—progressista che abbiamo imparato a chiamare «cultura Woke» dia segni di cedimento, non si tratta di un fenomeno passeggero, ma di una infezione destinata a causare problemi ancora per lungo tempo. Lo sostiene Andrea Zhok uno dei più interessanti e autorevoli filosofi italiani, nel saggio La profana inquisizione e il regno dell’anomia (il Cerchio). Uno scritto snello ma estremamente efficace che si dedica a smontare le impalcature retoriche e teoriche del politicamente corretto.

«Dobbiamo considerare che si tratta di un movimento durevole», dice Zhok alla Verità «Parliamo di qualcosa che si sta che si è strutturato nel corso di diversi decenni, e che ha assunto caratteristiche di invasione culturale in ambiti un tempo insospettabili, cioè in ambiti accademici ,di alta cultura. Io credo dunque che il fenomeno woke sarà molto resistente».

Vero: negli ultimi tempi abbiamo assistito a una serie di reazioni piuttosto decise, vediamo segni di rigetto del wokismo a vari livelli. Ma secondo Zhok ciò non significa che esso sia destinato a finire presto. «Una resistenza a livello popolare non è che sia una cosa nuova, c’è sempre stata. Ma c’è qualcosa che non è destinato a passare, e cioè l’opposizione tra il popolo e l’élite. Cioè tra una oligarchia che possiede la maggior parte dei mezzi, anche dei mezzi di comunicazione, e una parte di popolazione – maggioritaria numericamente – che però è di fatto esautorata. Stiamo parlando di qualcosa che muove molti soldi, e che dunque non sparirà così facilmente».

C’è poi un problema culturale profondo. «La maggior parte delle reazioni al wokismo che abbiamo visto fino a oggi», dice Zhok, «sono reazioni che potremmo definire di buon senso. Il che va benissimo, naturalmente, ma non basta. Bisogna affrontare il discorso anche su un piano più alto, accademico. Serve una riflessione di carattere scientifico, filosofico, fondativo. E serve spiegare perché l’intero edificio woke non solo non sta in piedi, ma è anche pericoloso. Se ci limitiamo alle risposte di buon senso, chiunque potrà obiettare che in fondo le culture cambiano nel tempo, e che ciò che è buon senso oggi potrebbe non esserlo domani».

Urge dunque indagare a fondo questa malattia senile del progressismo, capire da dove venga e dove affondi le radici. «Come cerco di mostrare nel testo», continua Zhok, «il fenomeno woke ha origini relativamente prossime che risalgono sostanzialmente all’indomani del 1968. Cioè non esattamente al 1968, ma al riflusso che ne è seguito, soprattutto a livello accademico, In Europa e in America. È lì che si trovano le radici culturali e sociali. Poi c’è anche un trend di lungo, lunghissimo periodo che è legato alle matrici stesse della cultura liberale».

Già, il fenomeno Woke e il figlio malato del liberalismo che finisce per sopprimere ogni libertà. «L’atteggiamento politicamente corretto», sostiene Zhok, «é innanzitutto un atteggiamento di ispezione poliziesca del linguaggio con l’intento di metterne fuorilegge gli usi ritenuti sgraditi in quanto non conformi all’agenda ortofoba. In ogni società esistono sanzioni per l’uso di espressioni che l’uso comune ritiene manifestamente offensive: esistono a questo scopo i reati di ingiuria e diffamazione e in ogni società c’è sempre uno spazio contestabile tra l’ingiuria manifesta e la mancanza di rispetto, che spiace ma si tollera appunto il politicamente corretto non si accontenta di questo meccanismo ordinario. Si tratta, ricordiamolo, di un movimento nato in ambito universitario è legato ad un ceto intellettuale, o sedicente ”ceto medio riflessivo”, che non rappresenta affatto la popolazione media né i suoi usi linguistici, ma ritiene da sempre di avere il compito di educarla. Solo che nella forma presa negli ultimi decenni la “educazione del popolo” assume la forma di un indottrinamento da ottenere attraverso un controllo degli usi linguistici consentiti per fare ciò si procede attraverso due passaggi: si definisce la vittimizzazione strutturale di un gruppo, che viene presentato come perennemente ferito o vulnerabile da gesti, parole, espressioni, e poi si procede all’epurazione o emendazione degli stessi».

E di episodi di questo genere, purtroppo, continuiamo a vederne ogni giorno. In nome del Bene, dell’altruismo e del rispetto, la civiltà occidentale ha assunto terrificanti atteggiamenti inquisitori. «La realtà è che questo atteggiamento si immagina mosso da apertura verso l’altro, mentre ella archetipo della chiusura intollerante, si immagina estraneo all’Occidente mentre ne è un’espressione fondamentalista», spiega Zhok. «La cancel culture dà espressione compiuta a una caratteristica degenerazione della tradizione liberale, che una volta ottenuto un ruolo egemone ha cominciato a considerarsi l’apice incontrastato della civiltà, un’ apice che poteva snobbare tutte le altre culture e civiltà, essendovi superiore (superiorità culturale guadagnata con le cannoniere).

Questo atteggiamento, dopo aver liquidato il mondo extra-occidentale, ha iniziato a liquidare il proprio stesso passato nelle componenti non attualizzabile, concependolo come “luogo del pregiudizio”, come “pastoie della tradizione”, come “oscurantismo dei secoli bui”, ecc. Lo stesso disprezzo che si esercitava rispetto all’antropologicamente altro», conclude il professore, «ha iniziato ad esercitarsi verso lo storicamente altro punto il culmine di questo processo di incapacità di comprendere e riconoscere dignità al culturalmente altro lo si è raggiunto nella cultura americana del secondo Novecento, dove sulla base confortevole di avere alle spalle l’esercito più potente del mondo si poteva trattare ogni forma di vita estranea come barbarie – talora barbarie che aspirava a “diventare come noi”, dunque redimibile – dall’altra barbarie refrattaria ad abbracciare il modello unico del progresso, dunque irrimediabilmente malvagia. E in questo contesto, tra la popolazione studentesca delle università di questa specifica civiltà che si sviluppa il movimento culturale che qui esaminiamo e che altro non è se non “fondamentalismo occidentale”».

Oggi più che mai, anche di fronte ai conflitti di cui siamo angosciati spettatori, e questo fondamentalismo che dobbiamo temere. Un fondamentalismo che ci siamo fatti in casa e perciò è ancora più pericoloso.

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