La rivoluzione nel diritto dal 1789 ad oggi

relazione alla Scuola di Formazione promossa da Alleanza Cattolica
La moderna crisi del diritto e dello stato

(Napoli, 18-21 aprile 2013)

tribunale_rivoluz

di Giovanni Formicola

1. François Furet  (1927-1997), oltre trent’anni fa, nel 1978, e quindi da vera e propria «avanguardia» tra gl’interpreti non dichiaratamente contro-rivoluzionari della Rivoluzione francese, affermava che «il 1793 è già tutto nell’89» (1). Egli faceva così giustizia di ogni pretesa di distinguere all’interno della Rivoluzione una fase «buona» (l’«Ottantanove»), ed una «cattiva» (il terroristico «Novantatre»), come si pretenderebbe distinguere tra gl’ideali dell’Ottobre e le degenerazioni del socialismo reale. E se ciò vale per il «Novantatre», vale anche in un certo senso e a modo suo per tutto il tempo segnato dalla Grande Rivoluzione in Francia.

Quindi, sebbene esso si sia manifestato attuandosi gradualmente nel tempo – conformemente alla natura della Rivoluzione, che ha ritmo di processo e non di salto –, è corretto parlare di «ottantanove del diritto», un «diritto nuovo» (2) che tutt’ora egemonizza dottrina giuridica, produzione normativa e prassi giurisdizionali, ancorché in modo ovviamente peculiare.

2. Naturalmente, per poter parlare di «diritto nuovo» è opportuno e doveroso dire prima qualcosa del «diritto vecchio». Ossia della concezione giuridica detta medievale, risultante dalla sintesi tra quella classica e il cristianesimo (3), che vedeva nel diritto un limite al potere, che quindi era concepito come tutt’altro che legibus solutus.

Esso era stato eroso da un lavorìo plurisecolare, le cui origini teoriche sono nelle tesi dei legisti tardo-medievali, che assecondano e tentano di giustificare le tendenze all’assolutismo dei re, mentre quelle pratiche risiedono nell’azione di questi ultimi. Lavorìo che ha i suoi snodi fondamentali nelle opere di Marsilio da Padova (1275-1342), Bodin (Jean, 1529-1596) (4), Grozio (Hugo Grotius, 1583-1645), Hobbes (Thomas, 1588-1679), e specialmente nella politica della monarchia francese.

Questa concezione del diritto riceve quindi un colpo mortale dalle idee rousseauiane, e non perché particolarmente originali o efficaci, ma per la loro diffusione e trasformazione in ideologia, e dalla Rivoluzione detta francese. Per una sua sintetica descrizione mi servo della lezione di due maestri.

Scrive lo storico del diritto Francesco Calasso (1904-1965): «il punto di distacco più appariscente della concezione moderna del rapporto tra Stato e diritto, da quella che ne ebbe il pensiero giuridico medievale, è il seguente: mentre noi oggi, assuefatti a vedere nello Stato la sola e unica fonte del diritto, siamo portati a considerare il diritto come una creazione dello Stato (statualità del diritto), e, per conseguenza, poniamo lo Stato sopra il diritto,  questa concezione fu estranea del tutto alla scienza giuridica medievale: la  quale anzi capovolse quel rapporto, considerando lo Stato come una creazione del diritto, e ponendo perciò stesso il diritto al disopra dello Stato»  (5).

Aggiunge  Juan Vallet de Goytisolo (1917-2011), grande giurista spagnolo, a proposito dell’ordinamento dell’Ancienne France, che «da questo proveniva il pluralismo del regime […], non soltanto territoriale e municipale, ma anche per stati e corporazioni» (6), per effetto del quale – come sostiene un altro grande giurista, il francese Georges Ripert (1880-1959) –, «il re di Francia non ha mai avuto il potere legislativo o, almeno, un potere paragonabile a quello del parlamento moderno […], era obbligato a condividere la sovranità» (7).

La conferma dell’ambizione assolutistico-centralistica dei re di Francia, del successo solo parziale dei loro sforzi e quindi della permanenza di limiti cospicui al potere monarchico, nonché della spinta decisiva data dalla Rivoluzione nel senso desiderato dalla monarchia francese (8), viene, ex parte adversa, da quanto scrive segretamente al re, non ancora detronizzato e imprigionato, un entusiasta – in prospettiva assolutistica – Mirabeau (Honoré Gabriel Riqueti, conte di, 1749-1791), a meno di un anno dall’inizio della  Rivoluzione: «Confrontate il nuovo stato di cose con l’antico regime; di là nascono le consolazioni e le speranze. Una parte dei provvedimenti dell’Assem-blea Nazionale, la più cospicua, è evidentemente favorevole al governo monarchico. Non conta niente, dunque, essere senza parlamento, senza paesi di Stati, senza corpi del clero, dei privilegiati, della nobiltà? L’idea di formare un’unica classe di cittadini sarebbe piaciuta a Richelieu: un simile appiattimento facilita l’esercizio del potere. Decenni di monarchia assoluta non avrebbero fatto per l’autorità regia quanto ha fatto questo unico anno di Rivoluzione» (9).

Dunque, il «diritto vecchio» era plurale nelle fonti e trascendente – cioè non mera espressione formale e positiva della volontà del sovrano – nel fondamento. «Il medioevo conosce soggetti politici forniti della massima latitudine potestativa, e non sono infrequenti poteri esercitati tirannicamente. In questa civiltà, tuttavia, la coscienza collettiva serba la  nozione – diffusa e mai smentita – della incompiutezza del potere politico,  intendendo con un siffatto sostantivo che qui il suo titolare non è sorretto da una psicologia totalizzante; al contrario, egli si occupa soltanto di ciò che attiene direttamente alla conservazione dell’ordine pubblico consentendo a forze plurali e diverse di manifestarsi e realizzarsi nella società civile. L’esempio offerto dal diritto è illuminantissimo: il Principe medievale – sia esso personaggio laico o ecclesiastico, oppure una città libera – non individua nell’occuparsi del diritto, nel produrlo, l’essenza della sua funzione suprema. La sua volontà, espressa in una legge o in uno statuto cittadino, concerne solo oggetti limitati e sempre in stretta connessione con l’ordine pubblico della civitas o del principato. Il Principe medievale è solo occasionalmente legislatore, essendo riservata alla comunità la continua produzione del diritto. Fonte prevalente, infatti, è e resta per tutto il medioevo la consuetudine, cioè usi germinati dal basso, osservati in seno alle comunità e interpretati in modo provveduto da  giuristi teorici e pratici» (10).

Pertanto, il potere del re in Francia – ma in tutta Europa –, prima della Grande Rivoluzione, era ancora limitato. In basso dai diritti storici: consuetudinari, personali, corporativi, municipali, locali, territoriali – i cosiddetti «privilegi» (lex privata, adattata al caso concreto); in alto, dall’esistenza di norme superiori, secondo la lezione sopra ricordata del Calasso: il diritto naturale, regola di quello positivo (11).

3.  Idee di  libertà e di uguaglianza (ultimamente da e con Dio) ed una concezione dell’Uomo definito dalla sua ragione astratta e divinizzata, pretesa infallibile, innescano un processo – ogni passaggio del quale qui non è possibile ripercorrere – che dal tramonto del cosiddetto Medio-evo, in realtà Cristianità, cioè civiltà cristiana, ci porta fino ai giorni nostri (12).

Esso ha agito ed agisce in tutti gli ambiti dell’esistenza, pubblici e privati, promettendo una nuova terra e un nuovo cielo, dove regneranno pace, giustizia e felicità assolute, come frutti di altrettanto assolute libertà ed uguaglianza: un mondo nuovo per un uomo nuovo da far nascere sulle ceneri di quello vecchio con una Rivoluzione radicale, con la «R» maiuscola (13).

Tale processo, fra l’altro, spinge verso l’assoluta libertà per l’uomo di legiferare, sia in campo morale sia in campo giuridico, fino al totale assorbimento del primo da parte del secondo, con una coincidenza tra legge morale e giuridica non  più di stampo «integristico-religioso», ma di stampo laicistico-razionalista, quindi con il riconoscimento al momento giuridico di un primato assoluto.

L’Uomo emancipato, infatti, non può incontrare alcun limite alla propria volontà, né in un ordine storico, né in un ordine trascendente siccome stabilito da Dio; ma poiché, per ovvi motivi, non può essere fonte della legge la volontà del singolo, sorge il mito della «volontà generale», la volontà dell’Uomo-Umanità, che come demos esercita il proprio potere: la democrazia. «Quando si propone una legge nell’assemblea del popolo, ciò che si domanda non è precisamente se i cittadini approvano o respingono la proposizione, ma se questa è conforme o no alla volontà generale che è la loro» (14).

Questa ha una caratteristica particolare: «Quando nella formazione della volontà  generale (C. s., IV, II) “prevale il parere contrario al mio, ciò prova soltanto che io mi sono sbagliato, e ciò che io stimavo essere la volontà generale non lo era. Se avesse prevalso il mio avviso particolare, io avrei fatto una cosa diversa da ciò che volevo, e  allora non sarei stato libero”. In conclusione (C. s., II, VI) “le leggi non sono altro che i registri delle nostre volontà”; e la forza sociale che costringa il cittadino ad obbedire alla volontà generale [C. s. I, VI] “lo costringe ad essere libero”» (15). Quindi, «lo Stato democratico del Rousseau è illimitatamente sovrano e onnipotente (C. s. II, IV): “Finché i sudditi non sono soggetti che a tali convenzioni, essi non  obbediscono ad alcuno ma solo alla loro propria volontà; e chiedere fin dove si estendono i diritti rispettivi del sovrano e dei cittadini è chiedere fino a qual punto questi possono impegnarsi verso se stessi”. (C. s. I, VII) “Il   sovrano essendo formato dai privati che lo compongono non ha e non può avere  interessi contrari ai loro; in conseguenza il potere sovrano non ha alcun  bisogno di garanzie verso i sudditi, perché è impossibile che il corpo voglia nuocere a tutti i suoi membri […]”. Dati i caratteri della legge (“La volontà generale è sempre retta e tende sempre alla pubblica utilità”; “la legge non può essere ingiusta, perché nessuno è ingiusto verso sé medesimo”), il più radicale assolutismo viene consentito e  giustificato» (16).

Questa concezione diventa ideologia, cioè utopia di un regime salvifico siccome democratico, e dà alla tendenza rivoluzionaria un’anima ed una forza quasi religiose – anzi anti-religiose con la prospettiva di detronizzare Dio ed intronizzare l’Uo-mo-demos –, imprimendo una formidabile accelerazione al processo in questione. Esso così si connota come processo di allontanamento dalla civiltà cristiana – cioè di sovversione della sua cultura, delle istituzioni e delle strutture storiche che ne sono derivate –, ritenuta luogo del male in quanto edificata sull’alienazione religiosa dell’ uomo.

Un’interessante conferma ci viene dall’opera di uno studioso di cultura progressista, e quindi per questo fonte non sospetta di simpatia per l’ancien  régime, il quale ricorda che con gli Stati nazionali, «e con la loro piena autonomizzazione dai vincoli ideologici e religiosi che avevano cementato la civitas christiana sotto l’egida della Chiesa e dell’Impero, cade ogni limite alla sovranità  statale e si compie, con la sua piena secolarizzazione, la sua totale assolutizzazione. Questi due processi – secolarizzazione  ed assolutizzazione – […] sono tutt’uno con il formarsi dell’idea moderna dello Stato come […] fonte  esclusiva del diritto e insieme libera dal diritto»  (17).

Sono così emersi i caratteri del «diritto nuovo», che nella fase giacobina della Rivoluzione si manifesta in versione esasperata, come tutto ciò che deriva da un’iper-termia ideologica. Esso, secondo la lezione di Rousseau, in quanto espressione e puro prodotto del potere popolare (18) – divinizzato (19), perché concepito come potere (benefico) dell’Uomo contrapposto all’autorità (malefica) di Dio e della tradizione (20) –, ne ripete i caratteri fondamentali: è assoluto (21) e totale (22).

Quindi, viene progressivamente esaurito dal diritto positivo («positivismo giuridico»), al quale non è ammessa alcuna eccezione e/o integrazione (23). Nemmeno è richiesta giustificazione ai suoi dispositivi, in  quanto, come già abbiamo visto, il potere legislativo del popolo è limite a se stesso: esso deve rispettare soltanto – e talvolta neppure – le norme  procedurali che si è dato come forma attraverso la quale la «volontà generale» si manifesta (24): «alla volontà nazionale basta […] soltanto la propria realtà per essere sempre legittima. Essa è la fonte di ogni legalità» (25), come dice uno dei protagonisti della Rivoluzione in uno dei livre de chevet rivoluzionari.

Ma a questo punto emerge chiaro, come rilevano François Furet e Mona Ozouf, quale sia il destino di «chi non è d’accordo» in un simile regime: si registra una «totale mancanza di risorse per l’opposizione in un sistema dove non esiste nessun ordine di realtà superiore  alla legge democratica» (26).

Di più. La «volontà generale» è l’espressione dell’assoluta libertà collettiva dell’Umanità – si potrebbe osservare come una «libertà collettiva assoluta» non sia altro che un potere senza limiti –, e dunque chi è contro di essa è contro la libertà dell’Uomo-demos: è un «nemico del popolo». Perciò, chi ha una volontà diversa e non riconosca di «essersi sbagliato» come gli prescrive Rousseau, cioè non si renda conto che volendo qualcosa di diverso da quello che vuole la «volontà generale» non è libero, va «costretto ad essere libero» con appropriati mezzi di coazione e rieducazione.

Non basta. Se costui si ostina nel suo atteggiamento e oppone resistenza, non esistendo alcun diritto al di fuori di quello posto dal potere del popolo, e poiché la stessa società viene a coincidere con il potere popolare (27), in quanto dissidente si pone fuori dalla società, da ogni società, e non può essergli riconosciuto un luogo dove rifugiarsi (28). Ma l’uomo è un «animale sociale»: chi è fuori dalla società smette di essere un uomo, e non ha più diritti; peggio, è un nemico del genere umano, cioè un criminale, e va perciò annientato (29).

Allo stesso modo, neanche il nemico esterno, lo justus hostis dello Ius Publicum Europaeum, ha più ragion d’essere e il diritto di essere: chi è contro la Nazione Rivoluzionaria, che sia uno straniero o un insorgente contro il nuovo potere, è ugualmente criminale, e va combattuto e distrutto in modo totale (30).

Se non vi sono più garanzie interne – perché nessuno può pensare di dover essere garantito nei confronti del potere popolare –, non ve ne sono più nemmeno nei rapporti tra gli Stati: lo ius in bello (31) viene soppresso (32), ed i rivoluzionari di ogni tempo, ritenendosi giustificati da questa magica aggettivazione, non esiteranno ad approfittarne. L’epoca della Rivoluzione sarà così l’era mostruosa dello sterminio di massa.

4.  Ma in realtà questo «potere popolare» è davvero democratico, almeno nel senso classico del termine? Sin dalla prima esperienza Rivoluzionaria, quella francese appunto, ispirata da tali teorie, emerge che «l’auto-governo del popolo […] essendo tecnicamente impossibile, gli si sostituiscono delle società permanenti di discussione, […] interpreti obbligati della società tout court […] attraverso la produzione sociale del vero» (34).

Cioè, il popolo concreto viene surrogato dagli uomini delle «società di pensiero», che sopprimono l’antico mandato imperativo (35), si autodesignano rappresentanti dell’intera nazione e non di chi li ha eletti, e così, «senza vincolo di mandato», possono legittimamente tradire l’elettorato,  distaccarsene e dominarlo liberamente.

Senza costoro, resi indispensabili dal regolamento che impedisce la rappresentanza per corpi, ordini o paesi, «il popolo sovrano sarebbe più libero, ma diventerebbe muto» (36), non potrebbe cioè esprimersi ed esercitare il potere appena conquistato. «Accanto al popolo reale […] ce n’era un altro quello delle società filosofiche, certamente poco numeroso ma unito e diffuso ovunque, che parlò e scelse per lui» (37). E da allora sarà sempre così.

Per democrazia, in quest’area ideologica, non s’intende il metodo per sapere che cosa voglia o che cosa pensi la maggioranza di una popolazione; e nemmeno il metodo per decidere a maggioranza che cosa sia giusto e che cosa sia sbagliato; meno ancora è semplicemente il metodo per designare dei mandatari che facciano politicamente la volontà dei mandanti. Democratico è solo il potere dell’opinione dei membri dei clubs rivoluzionari, così come oggi dei membri dei partiti «democratici».

Pensando se stessi come élite di virtuosi intellettuali, gl’ideologi e i militanti formano il «Piccolo Popolo» che sostituisce quello vero, lo rappresenta, lo guida (38), perfettamente auto-legittimato, quale che sia l’orientamento della maggioranza. E d’altra parte, che senso avrebbe il potere «democratico», se dovesse accettare la volontà di una maggioranza che si riveli «reazionaria»?

Gli «eletti», «appena giunti al potere, […] fanno un’esperienza sconvolgente: il popolo non è il Popolo, gli accade, anzi, frequentemente e addirittura sistematicamente, di non agire e di non pensare come farebbe il Popolo. Bisogna scegliere. L’ideologo ha già scelto […]. Decreterà […] che il popolo è corrotto e che bisogna costringerlo alla virtù con ogni mezzo. […]. Dal momento in cui i titolari del potere […] sono i portavoce del dio, lo statuto dei dissidenti cambia natura. Il potere non ha più avversari, ha  soltanto nemici, ogni divergenza od opposizione viene ad essere demonizzata: non si tratta col diavolo, lo si “annienta”. Così, per sua propria natura, il regime ideologico è portatore di terrore, e del più estremo proprio perché il più legittimo» (39).

Quella del «Piccolo Popolo» è una minoranza consapevole di essere tale, ma che cionondimeno continua a ritenere democratico solo ciò che pensa e ciò che vuole, convinta che il suo pensiero e la sua volontà siano quel che il popolo grande (e vero) penserebbe e vorrebbe se non fosse stato corrotto dall’Antico Regime, se non fosse vittima della sua «cattiva coscienza», e pertanto non esita ad imporli, anche con durezza (40).

5.  Ma il «sole dell’avvenire» non sorge, il mondo nuovo e l’uomo nuovo non si vedono. Che fare? Eppure nei clubs, nelle società di pensiero ogni progetto, ogni programma appariva perfetto e benefico, destinato a far scendere il paradiso in terra, ad eliminare il male dal mondo per sempre, realizzando l’unità perfetta del genere umano, al di là di ogni divisione, nella fusione ed alienazione di tutte le volontà particolari in un’unica «volontà generale» fino all’abolizione della politica e dello Stato (41). Ma tutto questo non accade. Perché?

I rivoluzionari hanno pronta la risposta. «Per passare dalla società di pensiero – società fittizia di individui astratti – alla società reale, l’ideologia deve […] ricostruire il sociale attraverso riduzioni ed esclusioni: deve designare, personalizzare il nefasto, giacché se […] la società, che dovrebbe essere buona come gli individui che la compongono, è invece cattiva, ciò dipende dal fatto che certe istituzioni e certe forze sociali si oppongono ad arte al bene, e bisogna perciò definirle, combatterle ed eliminarle. È quel che succede alla nobiltà nell’autunno dell’88: simbolo della disuguaglianza, essa è globalmente colpevole d’essere in contrasto con i principi, il che significa che certi nobili potranno anche essere dei rivoluzionari, ma che la nobiltà sarà per definizione il contrario della Rivoluzione» (42).

E allora, poiché «chi segue il nuovo dio, il Popolo giacobino, è virtuoso per definizione; chi lo combatte è un criminale» (43), se tutti lo seguissero le cose andrebbero bene. Invece vanno male: questo vuol dire che ci sono ancora i criminali, che vanno scovati con ogni mezzo e, per le ragioni che sul piano teorico abbiamo già esaminato, implacabilmente eliminati.

Così, non appena «è accaduto che […] il Piccolo Popolo abbia conquistato e  asservito il grande imponendogli le sue leggi […], immediatamente sono cominciate le proscrizioni, le espropriazioni, gli assassini; giacché le leggi della Piccola Città non sono adatte alla grande» (44). Questa non riesce proprio ad adeguarsi, anche solo passivamente, e pertanto si deve intervenire senza pietà contro chi, opponendosi alle leggi, impedisce il progresso dell’Umanità di cui esse sono strumento privilegiato.

L’unica risposta a costoro è il Terrore. Allo scopo, singolare metodo, s’intende passare per lo strumento del processo, e viene perciò istituito il Tribunale Rivoluzionario (45). Ma si tratta di un processo sui generis. Esso amministra, infatti, «una giustizia rivoluzionaria che fa a meno di difesa, di testimoni, di istruzione, di appello. A che cosa servirebbe tutto questo? Il popolo giudica, o almeno sorveglia i giudici, e dunque tutto va bene […] Questa è, secondo Danton [George Jacques, 1759-1794], il suo promotore, la ragione d’essere del tribunale rivoluzionario; esso deve “supplire al tribunale supremo della Vendetta del popolo”» (46).

Un grande giurista, Salvatore Satta (1902-1975), ci narra un episodio paradigmatico dell’idea giacobina del diritto e del ruolo affidato al processo dal potere  Rivoluzionario. «Narrano le storie che il 2 settembre 1792, mentre il tribunale rivoluzionario, da pochi giorni costituito (aveva al suo attivo solo tre teste), giudicava il maggiore Bachmann, della guardia svizzera del re, un rumore sordo e lontano invase la grande sala delle udienze, che prendeva il nome di san Luigi. Chiamata a raccolta […], una folla immensa, la folla di tutte le rivoluzioni, emergeva dai bassifondi e si riversava sulle rive e sui ponti della  Senna. […]. D’improvviso, tra la folla imbestialita corre la voce che gli svizzeri del re sono nella sala delle udienze. Con urla immani balzano su per le scale, attraversano stanze e vestiboli, venerabili per antichi ricordi, e appaiono sulla soglia, i cenci e le armi grondanti di sangue. […]. L’accusato Bachmann, solo, poiché sicuro di morire, che sia per fatto dei giudici o per fatto di questi assassini, discende dalla poltrona ove da trentasei ore è seduto, e si presenta alla sbarra come per dire: uccidetemi. Avvenne un fatto mirabile. Il presidente Lavau ferma d’un gesto gli invasori: con poche energiche parole intima “di rispettare le legge e l’accusato che è sotto la sua spada”. Si vedono allora i massacratori, in silenzio, ripiegare docilmente verso la porta. “Essi hanno compreso” commenta Lenotre, Le   Tribunal révolutionnaire, Perrin, Paris, 1947, p. 52, dal quale raccogliamo l’episodio “che l’opera che essi compiono là in basso [un massacro di prigionieri in attesa di essere giudicati dal tribunale Rivoluzionario], le maniche rivoltate e la picca tra le mani, questi borghesi in mantello nero e cappello a piuma la perfezionano (la parachèvent) sui loro seggi”. […]. Due gruppi di uomini stanno l’uno di fronte all’altro, nella sala San Luigi. Di uno di essi, quello sulla soglia, non si può nutrire alcun dubbio: sono degli assassini. Hanno le mani arrossate di sangue, i cenci lordi di sangue, sangue chiedono ancora con gli occhi fissi sui poveri prigionieri di là dalle sbarre. Ma l’altro, gli altri uomini? Se si interroga l’uomo della strada non esiterà a  dire che anch’essi sono degli assassini: e del resto come tali li indica lo spirito popolare, quando muta il nome di Palais de Justice in quello di Palais où l’on condamne. E sono degli assassini perché sono le stesse persone, distinte appena da un mantello nero e da un cappello piumato: e se dicono “l’accusato è sotto la spada della giustizia” essi vogliono dire  soltanto, e sono subito intesi, “lasciatelo stare, ci pensiamo noi ad ammazzarlo”» (47).

Epperò, nonostante tutto, ci vorrà del tempo per vincere l’idea tradizionale del diritto e del processo come difesa e garanzia dei deboli, degli accusati, degl’inermi, come limite al potere dei giudici ed espressione di una tendenziale diffidenza nei loro confronti, e far prevalere quella che li vuole invece strumento privilegiato e razionale dell’azione rivoluzionaria.

Ancora Satta ci aiuta a capire. «Non dovevano […] passare molti mesi, e i risultati del tribunale del 1792 già apparivano derisori a coloro che l’avevano istituito (vero è che l’insurrezione del 4 settembre lo aveva privato della materia prima, perché quasi tutte le teste disponibili erano state tagliate con l’azione diretta); ed ecco profilarsi l’esigenza di un nuovo tribunale, che sarà quello del marzo 1793, e di cui si dirà esplicitamente, per bocca di Danton, che avrà per unico scopo di prevenire il rinnovarsi dei massacri del settembre, cioè, come ben commenta uno storico, di sostituirli legalmente. In questo nuovo tribunale, che comporterà dei giurati nominati dalla Convenzione, il processo sembra definitivamente sopraffatto, e ridotto a una pura farsa, a una mera parodia di giustizia: ma il processo è duro da morire […] non passeranno molti mesi […] che il tenebroso Fouquier-Tinville [1746-1795] […] scriverà alla Convenzione: “Noi siamo arrestati dalle forme che prescrive la legge…Questo processo sarà dunque interminabile. D’altra parte ci si chiede che bisogno c’è di testimoni (pourquoi des témoins?). La Convenzione, la Francia intera accusa gli imputati; […] essi sono colpevoli; il tribunale non può nulla fare per se stesso, egli è obbligato a seguire la legge; spetta alla Convenzione far sparire tutte le difficoltà che inceppano il suo cammino”. E la   Convenzione […] vota subito un decreto per cui “se un processo si prolunga per tre giorni, il presidente aprirà la seduta successiva chiedendo ai giurati se la loro coscienza è sufficientemente rischiarata (suffisamment éclairée). Se i giudici rispondono di sì, si procederà alla sentenza”. […] Ed ecco ancora Fouquier che scrive alla Convenzione la cupa lettera: “Cittadini rappresentanti […] gli accusati, come forsennati, reclamano l’audizione di testimoni a discarico…Noi vi invitiamo a tracciarci definitivamente la nostra condotta su questo reclamo, poiché l’ordine giudiziario non ci offre alcun mezzo di motivare un rifiuto”. La risposta sarà un decreto della Convenzione che metterà gli accusati fuori  processo (hors de débats): il primo annuncio di quella che sarà la legge del 22 pratile, per cui interrogatorio, testimonianza, difesa, tutto sarà tolto di mezzo, ma soprattutto saranno tolti di mezzo i giudici deboli, faibles (l’accusatore pubblico li aveva segnati con una piccola f dopo l’esecuzione di Danton) che impedivano al processo di morire» (48)

6.  Questa, dunque, la concezione rivoluzionaria del diritto, che ne sovverte le fonti, la stessa concezione e solo poi i contenuti. «Compiutosi il processo di secolarizzazione dei nuovi Stati nazionali, la sovranità statale si libera da   ogni limite» (49).

Si manifesta così «[…] la base dell’intero apparato concettuale del positivismo giuridico: […] principio di legalità e convenzionalità del diritto, in forza del quale “auctoritas, non veritas facit legem”; […] fondamento formalistico e volontaristico della validità delle norme, identificato con il principio “quod principi placuit legis habet vigorem” qualunque sia il contenuto dell’atto normativo; […] monopolio statale della produzione giuridica, […] conseguente unità dell’ordinamento e […] sua indipendenza da fonti giuridiche extra o sovra-statali» (50).

Pertanto, «la legge è legge, il comando è comando; la legge è giusta perché esprime la forza costrittiva di coloro che comandano. La giustizia è la legge e la legge è comando» (51). Cioè, «le norme giuridiche possono avere un contenuto di qualsiasi genere […]. Non si può discutere la validità di una norma giuridica per il motivo che il suo contenuto sia incompatibile con un qualche valore morale o politico» (52).

Ma se, coerentemente, «lo Stato è ’unica fonte del diritto» (53), allora ci troviamo di fronte al «paradosso di una Dichiarazione dei diritti che escludeva l’idea di una legge fondamentale al di sopra della volontà del legislatore» (54), per cui questa può tutto, ma proprio tutto.

Il diritto non è più inteso come l’ordine proprio delle relazioni umane, costitutive dell’essere personale, e dal quale si procede per determinazioni successive, certo non senza errori, ma indispensabili per decifrarlo, renderlo praticabile e pretenderne socialmente l’osservanza. Non è più la stessa res iusta, cui ognuno e ogni potere umano devono rispetto e sottomissione (55).

Il diritto non sta più prima d’ogni legge – le cui fonti non possono ch’essere plurali – ed è da riconoscere, non da volere. Non è più la realtà ontologica del complesso di doveri e legittime pretese e facoltà che fanno uomo l’uomo in tutti i suoi rapporti e rendono possibile l’indispensabile vita sociale e politica. Non è più l’espressione normativa della creazione.

Esso è solo più una scatola vuota, un nudo nome, con cui si copre il comando, la volontà prometeica di dominare la natura e l’ordine sociale che ne deriva, per  trasformare l’uomo in qualcosa di diverso da ciò che è. E poco importa se l’opera è affidata allo stato e al potere sovrano, come nei secoli delle  ideologie, o all’autodetermi-nazione individualistica. Se l’esito non fosse  tragico, potremmo concludere che il diritto è stato ridotto a strumento per giocare con l’essere a fare dio.

7.  Si dice che Caligola (Caio Giulio Cesare Germanico, 12-41 d. C.) avesse nominato senatore il proprio cavallo, Incitatus. Da un canto, come espressione beffarda del suo disprezzo per il Senato, che avrebbe voluto difendere la costituzione romana e limitarne i poteri, ch’egli invece pretendeva, secondo il modello orientale del principe lex animata in terris, assoluti. Dall’altro, proprio come estrema manifestazione d’un potere totale,  illimitato.

Naturalmente,  Incitatus non divenne senatore, e non lo sarebbe stato neppure se il sovrano  avesse emesso il decreto di nomina. Così, per quanto i moderni poteri «legalizzino» l’uccisione dell’innocente, sciolgano i vincoli coniugali, autorizzino per l’uomo sperimentazione e procreazione di tipo zootecnico, rinominino i sessi e il matrimonio con i loro decreti, il diritto è tanto  lontano da essi quanto lo status di senatore da un cavallo.

È l’estrema conseguenza del fatto che è «il Principe moderno, in forza della [sua] psicologia totalizzante […], a  occuparsi sempre più massicciamente del diritto in un crescendo che va dal  secolo XIV al XVIII. Questo Principe vuole produrre diritto; anzi, comincia a identificare in questa peculiarissima attività il segno della sua sovranità. Il Principe è e sarà Principe soprattutto perché è e sarà legislatore. L’età dell’assolutismo politico diventa per lo storico del diritto una età di assolutismo giuridico».

La legge, così, è sempre più altro che il diritto – sostituito dai diritti, travestimento dei desideri –, ed è causa ed effetto di corruzione antropologica, in una rincorsa prometeica alla rimodulazione arbitraria dell’humanum in funzione dell’io ipertrofico e delle sue voglie. In altri termini, la legge, strumento d’ordine per eccellenza, è invece diventata il primo fattore di  «[…] caos […], quella forma di esistenza per cui la società moderna non è altro che “l’orgia illimitata dell’io senza mondo”» (56). La legalità è sempre più rivoluzionaria.

Il processo di  secolarizzazione, di profanazione, del diritto, che rifiuta la parentalità romana e cristiana della scienza giuridica, e che libera la legge dalla verità, dalla realtà e dall’esperienza storica, trasformandola in strumento d’oppressione e mutazione antropologica, ha una sua cifra simbolica nella nota espressione di Alberico Gentile (1552-1608), «Silete, theologi, in munere alieno».

Sono i iurisconsulti a pretendere, nel tempo e a causa delle guerre di religione, l’esclusiva della competenza, tecnica e oggettiva, in materia giuridica, per «salvare dal furore della guerra civile di religione quel che poteva essere salvato» (57).  Epperò aprono una falla nella diga che impedisce la tracimazione del potere, che sia quello dello stato sulla persona e i corpi sociali, o quello dell’individuo sulla natura umana. Presto i sovrani, i classici e i nuovi, utilizzeranno i giuristi solo per giustificare ex  post i propri comandi.

Ma la deriva non si  arresterà. «La loro intenzione era buona e sincera, quantunque gli esiti storici siano andati diversamente», Infatti, la Rivoluzione anche in questo caso divorerà i suoi attori, tanto più se in essi v’è una buona dose d’involontarietà. «[…] l’età della tecnica, nella sua coerenza, se ne sbarazzò, portando a compimento la profanazione. Con coerenza inesorabile […] pose i giuristi dinanzi a una dura  scelta, trascinandoli nella nuova oggettività della tecnicità pura. I sacrari tradizionali si vanno ora facendo inappropriati e antiquati. […] si aprono i bunker e le baracche dell’età della tecnica. Ora tocca ai giuristi ricevere l’ingiunzione di tacere. A loro – se ancor ci fosse tanto latino – i tecnici al servizio dei potenti e dei prepotenti potrebbero gridare in faccia: Silete iurisconsulti!» (58).

E chi sono i nuovi  «tecnici» del diritto? I giudici. Adesso tocca alle Corti, alle loro sentenze, e non più ai decreti del potere sovrano, compiere e attuare il percorso della Rivoluzione del e mediante il diritto.

Esse sono composte da  soggetti che tendono a comprendersi tecnicamente e moralmente superiori al legislatore – pure debordante e caligoliano, ma ancora troppo legato alla  tradizione popolare per osare tutto quel che va osato. Del resto, i magistrati conoscono eletti ed elettori: ne riconoscono i vizi e la meschinità, la ristrettezza di vedute. E quindi sentono come ormai tocchi a loro osare quel che popoli e politici non osano.

La codificazione, sulle macerie del diritto, dei  nuovi diritti, apparentemente propri di un’era di libertà, in quanto costitutivi di un totale potere di autodeterminazione individualistico. Uccidere l’infelice, l’inadatto – non ancora nati o già nati che siano –; uccidersi; selezionare, manipolare, pianificare l’inizio della vita; rinominare l’identità antropologica e gl’istituti di civiltà, dalla proprietà al matrimonio; ridefinire i sessi e la stessa identità umana.

Ma la tirannia del «diritto nuovo» è contemporaneamente solo più sottile e ben più temibile: essa riguarda la stessa realtà; è l’essere dell’uomo che in nome della legge subisce violenza anziché tutela.

Gli esempi si sprecano:  dalle Corti statunitensi che annullano gli esiti di referendum popolari per il matrimonio e la sua verità giuridica, al caso italiano di Eluana Englaro  (1970-2009), così commentato dal professor Francesco Gazzoni, «Sancho  Panza in Cassazione (come si riscrive la norma sull’eutanasia, in spregio al principio della divisione dei poteri)» (59).

È il giudice «sapiente» che fa la legge (60), secondo i suoi personali valori (61), con un atto che non riconosce alcunché sopra di sé, neppure la stessa legge scritta e la volontà popolare, la cui mistica, come quella della ragione onnisciente, conclude il proprio ciclo distruttivo con l’auto-distruzione, in un mondo in cui le parole sono vuoti simulacri delle cose che significavano, e tra le cui rovine ci aggiriamo alla ricerca d’ogni frammento utile per la ricostruzione. Anche del diritto.

vai alle note