La Rivoluzione culturale

CinaTratto da: © L’esperimento comunista, Ed. Ares, Milano 1991, pp. 75-80.

di Eugenio Corti

Le recenti notizie dalla Cina – che indicano come prossima a risolversi una situazione incerta da anni – ci convincono a sottoporvi una nostra interpretazione dei fatti cinesi che, formulata un paio d’anni fa, quando comparvero le ‘guardie rosse’, è risultata fondata anche alla luce degli avvenimenti successivi. Ne parliamo persuasi che i fatti di Cina faranno presto sentire (e in modo, riteniamo, del tutto inatteso) i loro effetti anche fra noi.

Già oggi del resto ne risentiamo gli effetti, anche se – per essere fedeli alla nostra interpretazione – dobbiamo dire che non risentiamo gli effetti di ciò che sta realmente accadendo in Cina, bensì di ciò che, secondo l’opinione più diffusa in Occidente, si suppone vi accada. Così molti dei nostri studenti (non solo i ‘maoisti’) sono suggestionati dall’idea che la ‘rivoluzione culturale’ di Mao sia un grande ‘tentativo organizzato’ per impedire al comunismo di burocratizzarsi: tentativo che se avesse – come sembra avere – successo, restituirebbe al comunismo la sua supposta purezza originaria, esentandolo dalle deviazioni, dall’anchilosi, e da altri inconvenienti anche tragici, in cui è incorso in Russia.

Va avvertito che questa presentazione della ‘rivoluzione culturale’ come lotta alla burocratizzazione (cui non soltanto i giovani studenti, ma anche molta cultura di sinistra, purtroppo anche cattolica, crede in Italia) non è presentazione cinese, bensì occidentale, dei fatti di Cina. I cinesi l’accettano a copertura esterna di quanto sta accadendo a casa loro: ma non la teorizzano, e non fanno nulla per adeguarvisi; sopratutto nulla che li impegni per il futuro. (1)

Ma esponiamo i fatti. È noto che nell’aprile del ‘59, allo scadere del mandato, la presidenza della Repubblica cinese venne trasferita da Mao Tse-tung a Liu Sciao-ci, allora ritenuto delfino di Mao. In Occidente, come in Cina, lo si credette un provvedimento inteso ad alleviare il vecchio capo, le cui condizioni di salute non erano buone. Mao – che non era il segretario generale del partito comunista, carica ricoperta da Teng Hsiao-ping – rimaneva agli occhi di tutti il numero uno del partito. (Ciò grazie al suo primato incontrastato fino allora, e al fenomeno della ‘deificazione del capo’ cui il comunismo cinese, allo stesso modo di quello russo, non ha potuto sottrarsi. E, tale fenomeno, un portato del totalitarismo, non solo comunista, ma il discorso ci porterebbe lontano.)

Continuiamo nell’esposizione dei fatti di Cina: solo alla fine del ‘66-inizio del ‘67, essendo già in corso la rivoluzione culturale, si è saputo dai giornali murali delle ‘guardie rosse’ e dalla bocca di Mao stesso, che rei dicembre del ‘58 Mao era stato messo in minoranza nel Comitato centrale, che la presidenza della repubblica gli era stata tolta suo malgrado, e che egli non godeva più la fiducia del partito.

Si sono avuti non pochi particolari: in conclusione, dal ‘58-’59, il partito comunista cinese era rimasto in attesa che Mao, debilitato e malato, e coperto d’onori solo formali (“il segretario generale del partito Teng” egli lamentò “in otto anni non mi ha consultato neppure una volta…”) scomparisse per via naturale. Suoi successori, anche esteriormente, sarebbero allora stati i detentori effettivi del potere: in particolare (facciamo solo i nomi indispensabili) il presidente della repubblica Liu Sciao-ci, il segretario generale del partito Teng Hsiao-ping, il potente sindaco di Pechino Peng Cen, capi della coalizione anti-Mao. Incerta era la posizione di altri, tra cui il primo ministro Ciu En-lai. Destinati al tramonto altri ancora, tra cui il ministro della difesa, generale Lin Piao. Tale la situazione nel suo complesso.

L’esempio indonesiano

Durante tale periodo d’attesa della morte di Mao, ha avuto luogo il più grave scacco incontrato fino ad oggi dal comunismo asiatico, e dunque dal partito comunista cinese che ne è la guida: alludiamo al fallimento della rivoluzione in Indonesia. Ne ricordiamo qui in succinto solo qualche aspetto: si vedrà se non risulti fondata la nostra opinione, che cioè guardie rosse e rivoluzione culturale sono fenomeni di derivazione interamente indonesiana; per paradossale che questa affermazione possa di primo acchito sembrare.

È noto come il partito comunista indonesiano – potentissimo, e carezzato e favorito dal malato e decadente dittatore dell’Indonesia Sukarno – abbia scatenata la sua rivoluzione nel nome di Sukarno stesso (in occasione d’una recrudescenza della malattia di Sukarno, segnalata dai medici curanti cinesi, e con l’evidente proposito di tagliare anzitutto all’esercito la strada alla successione). Primo atto – continuiamo a riferire cose note – fu l’eccidio dei capi militari indonesiani: due dei quali però riuscirono a salvarsi e (non entriamo nei particolari) a reprimere la rivoluzione, grazie all’esercito, serbatosi loro fedele, e all’azione d’appoggio esterno – rivelatasi importantissima – della massa studentesca musulmana.

Questo scacco è stato certo – secondo la prassi comunista – studiato a fondo dai capi cinesi, (2) e in particolare da Lin Piao, il quale disponendo dell’esercito, ha in seguito pensato di organizzare, in nome e con l’appoggio del semi-infermo Mao, la rivoluzione culturale, cioè la fanatizzazione degli studenti, per forzare a proprio vantaggio la successione a Mao stesso. Se le cose stanno come sopra detto, risulta evidente che guardie rosse e rivoluzione culturale (nomi che nella rivoluzione russa avevano indicato cose affatto diverse) nulla hanno a che vedere con un recupero della purezza del comunismo.

(Quanto poi all’affermazione di certuni che, semplicemente, i cinesi, in quanto orientali, si starebbero oggi comportando in modo per noi incomprensibile, è vero il contrario: i cinesi sono stati, fino al ‘65, lineari nell’applicare i dettami di Lenin; e se hanno introdotto delle varianti anche sostanziali, l’hanno fatto imitando il comportamento di Lenin nei confronti dei dettami di Marx: ma è argomento la cui trattazione richiederebbe da sola un apposito discorso. È stata comunque proprio la constatazione della linearità cinese nell’applicare il leninismo che, quanto a noi, ci ha convinti a cercare il modello degli attuali eventi di Cina in un campo diverso da quello ideologico.)

Ma procediamo. Nella preparazione del piano di Lin Piao (al quale occorreva presentare ai cinesi un Mao non già al tramonto, ma in piena efficienza) rientra l’episodio – prima inspiegabile – della famosa nuotata del vecchio capo nel fiume a tempi di record, coi relativi fotomontaggi. Che Mao si sia prestato al gioco, ne conferma la debilitazione mentale; egli tuttavia (precisamente come Sukarno) non era affatto prossimo alla fine: gli eventi successivi lo stanno a indicare.

Di fatto l’organizzazione del partito comunista cinese resistette accanitamente: Mao, per quanto debilitato (di raro s’è mostrato in pubblico, e quasi sempre accompagnato da infermieri – si pensi anche alla sfacciata relazione tra sua moglie e Lin Piao, su cui la stampa russa ha insistito pesantemente) fu costretto a darsi da fare, e a lottare per anni, e con lui sua moglie Ciang Cing, che acquistò un sempre maggiore rilievo politico; Lin Piao dovette ricorrere anche all’appoggio dei primo ministro Ciu En-lai il quale, pur accordandolo, in più di una circostanza, specie al principio, sembrò assumere la posizione di mediatore.

Solo la recentissima destituzione del presidente della repubblica Liu Sciao-ci – decretata dopo tante more dal Comitato centrale – e ancor più la decisione di indire “entro un periodo di tempo adeguato”, ma comunque tra non molto, il nono congresso del partito, fanno supporre che Lin Piao, il vecchio e strumentalizzato Mao, e Ciu En-lai siano riusciti a prendere nelle mani la situazione.

Circa quanto ci riserva il futuro, se Lin Piao, che fu uno dei più capaci generali cinesi nella guerra contro il Giappone, e poi lo stratega e il comandante della spedizione in Corea, diventerà il nuovo capo effettivo della Cina, non è da escludere uno sbocco della rivoluzione cinese in qualche sorta di bonapartismo. Anche la militarizzazione, in corso da alcuni mesi, dell’intero partito (vengono armati così dieci milioni di uomini, ufficialmente per far fronte alla crescente pressione militare russa) potrebbe essere un indizio in questo senso.

Non è però detto che Ciu En-lai, il quale è molto colto, discendente da famiglia mandarina, e ha perfezionato i suoi studi in Occidente, abbia rinunciato a una propria linea d’azione: almeno due volte egli è già intervenuto con autorità contro gli eccessi delle guardie rosse, giungendo a in’vitarle a tornare sui banchi della scuola. Non ha oggi il potere di Lin Piao, ha però una preparazione politica superiore.

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(*) dal quotidiano L’Italia, 10 novembre 1968.

(1) In seguito venne però accolta come interpretazione autentica anche nell’ambito cinese, e può ben darsi che molti fra gli stessi comunisti cinesi, dirigenti non esclusi, abbiano finito col vedere nella rivoluzione culturale una lotta alla burocratizzazione e in genere ai deviazionismi del partito. Col ritenerla insomma un equivalente cinese dei processi staliniani a molti esponenti della ‘vecchia guardia’ (con le sanguinose epuraziomi che a quei processi avevano fatto seguito).
(2) Philippe Devillers (in Mao parla di sé, Longanesi 1970, p. 62) riscontra una “impressionante somiglianza” tra questi fatti d’Indonesia e i fatti che nel lontano 1927 avevano portato alla quasi totale distruzione della prima organizzazione comunista cinese, concentrata nello Hunan. Tanto più dunque gli esponenti comunisti cinesi dovevano essere sensibili a questi accadimenti d’Indonesia.