Il ruolo degli apostati nel dibattito sulle “sette”

Bitter Winter 8 dicembre 2025

Le proposte di leggi anti-sette si basano spesso sulle testimonianze di “apostati”, un termine che non è sinonimo di “ex membri” ma ne indica una sparuta minoranza.

di Rosita Šorytė

Intervento al convegno “Rapporti Stati-Confessioni religiose. Questioni di libertà religiosa nell’attuale scenario internazionale” promosso da Fedinsieme in collaborazione con altre associazioni presso il Senato della Repubblica, su iniziativa del Senatore Lucio Malan, Roma, 5 dicembre 2025.

 Rosita Šorytė 

È per me un grande onore essere qui oggi per parlare di un tema che tocca il cuore della democrazia: la libertà religiosa. In particolare, vorrei riflettere con voi su un aspetto spesso trascurato ma cruciale: il ruolo delle testimonianze dei cosiddetti apostati nei dibattiti pubblici e politici sui movimenti spirituali minoritari, comunemente etichettati dai loro avversari come “sette”. I resoconti giornalistici e le proposte di legge sono spesso fondati su quanto riferiscono gli apostati. Si tratta dunque di un tema che vale la pena esaminare attentamente.

Il termine “apostata” non è un’offesa né è sinonimo di “ex membro”. È tecnico, usato dai sociologi per indicare non semplicemente chi ha lasciato un gruppo religioso, ma chi lo ha abbandonato e poi si è trasformato in un attivista che lo combatte. È una distinzione fondamentale. La maggior parte degli ex membri lascia un movimento in silenzio, senza rancore, e prosegue la propria vita. Alcuni lo fanno con sollievo, altri con nostalgia. Ma non diventano militanti. Gli apostati, invece, si impegnano attivamente a combattere il gruppo che hanno lasciato, spesso alleandosi con movimenti antisette e con alcuni avvocati e giornalisti.

E qui nasce il primo problema. I media, sempre alla ricerca di storie forti e drammatiche, dedicano spazio quasi esclusivamente agli apostati. Il loro racconto diventa il racconto dominante. Il pubblico finisce per credere che tutti gli ex membri di movimenti religiosi minoritari siano apostati e che tutti i membri attuali siano vittime inconsapevoli o complici. È una distorsione grave. È come giudicare il matrimonio solo ascoltando chi ha divorziato, o valutare la Chiesa cattolica solo attraverso gli occhi di chi l’ha abbandonata con rabbia.

Ma i dati ci dicono altro. Studi sociologici quantitativi condotti da studiosi come Trudy Solomon, George Chryssides, James Lewis e Massimo Introvigne mostrano chiaramente che gli apostati rappresentano una minoranza tra gli ex membri. La maggior parte di coloro che lasciano un movimento spirituale non prova odio, non cerca vendetta e non si unisce a campagne pubbliche contro il gruppo. Semplicemente, cambia percorso. Eppure, questa maggioranza silenziosa è ignorata.

Perché? Perché non fa notizia. I media preferiscono la storia dell’apostata che racconta abusi, lavaggi del cervello, fughe drammatiche. È una narrazione che vende. Ma è anche una narrazione parziale e spesso distorta.

Non è un fenomeno nuovo. La storia ci offre esempi inquietanti di come le testimonianze degli apostati, se accettate senza verifica, possano condurre a gravi ingiustizie.

Prendiamo il caso di Rebecca Reed. Nel 1835, questa giovane donna americana pubblicò un libro intitolato “Six Months in a Convent”, in cui raccontava di essere stata rinchiusa con la forza in un convento cattolico a Charlestown, nel Massachusetts. Sosteneva di essere stata sottoposta a torture psicologiche e a pressioni per diventare suora. Il libro ebbe un enorme successo e scatenò l’indignazione pubblica. Una folla inferocita assaltò il convento e lo incendiò. Solo in seguito si scoprì che le sue affermazioni erano false.

Ma la storia non finisce qui. L’anno successivo, nel 1836, un’altra donna, Maria Monk, ispirata da Rebecca Reed, pubblicò “Awful Disclosures of Maria Monk”. In questo libro, sosteneva di essere stata costretta a diventare suora in un convento di Montreal, dove, secondo lei, i preti entravano di notte per abusare delle suore. Le religiose che rimanevano incinte, diceva, partorivano bambini che erano immediatamente uccisi e sepolti nei sotterranei. Il libro fu un bestseller internazionale. Ma anche in questo caso le indagini successive dimostrarono che Maria Monk non era mai stata suora né aveva mai vissuto in quel convento. In realtà, l’unica istituzione da cui era fuggita era un ospedale psichiatrico.

Eppure, migliaia di persone credettero alle sue parole. Le sue accuse alimentarono l’odio anticattolico in Nord America per decenni. Ancora oggi, alcuni siti complottisti citano Maria Monk come fonte.

Un altro caso emblematico è quello di Léo Taxil, un avventuriero francese. Inizialmente noto per i suoi scritti anticlericali, nel 1885 annunciò pubblicamente la sua conversione al cattolicesimo. Da quel momento iniziò a pubblicare una serie di libri in cui denunciava una presunta setta satanica nascosta all’interno della massoneria e la dirigeva. Parlava di riti oscuri, di sacerdotesse nude, di sacrifici umani. Le sue opere furono accolte con entusiasmo da molti ambienti cattolici, e se ne interessò persino il Papa.

Ma nel 1897 Taxil tenne una conferenza pubblica e confessò tutto: era stato uno scherzo. Non si era mai convertito. Voleva solo dimostrare quanto fosse facile manipolare l’opinione pubblica cattolica con storie sensazionali. E ci era riuscito.

Questi esempi storici ci insegnano una lezione fondamentale: le testimonianze degli apostati, soprattutto quando sono drammatiche e accusatorie, devono essere trattate con cautela. Non vanno ignorate, ma nemmeno accettate come verità assolute. Devono essere verificate, contestualizzate, confrontate con altre fonti.

E oggi, purtroppo, vediamo ripetersi lo stesso schema. In Giappone, dopo l’assassinio dell’ex primo ministro Shinzo Abe da parte di un uomo che non era mai stato membro della Chiesa dell’Unificazione, ma la cui madre lo era, si è scatenata una campagna contro quella comunità religiosa. L’attenzione si è concentrata sugli “shukyo nisei”, cioè i figli di membri di minoranze religiose che accusano i genitori di aver reso loro la vita difficile, educandoli con un’eccessiva severità o facendoli vivere in povertà a causa delle donazioni alle proprie religioni.

Una figura centrale è Sayuri Ogawa, pseudonimo di una giovane donna che ha raccontato alla stampa la propria esperienza come figlia di fedeli della Chiesa dell’Unificazione. I suoi racconti sono stati accolti con entusiasmo dai media e dai politici. Ma la giornalista Masumi Fukuda ha indagato con rigore, scoprendo che molte delle affermazioni di Ogawa erano false o esagerate. Ad esempio, Ogawa ha detto che sua madre aveva sottratto soldi dal suo conto bancario mentre lei era ricoverata in ospedale. Ma la madre ha negato, il padre ha chiesto prove che non sono mai arrivate e, in tribunale, Ogawa ha dovuto ammettere che si trattava di una “metafora”, forse causata da farmaci o dallo stress.

Nel 2025, è stata promossa una causa collettiva contro la Chiesa dell’Unificazione, invitando sui social tutti i nisei che si sentivano vittime a partecipare. Sapete quanti hanno aderito? Otto. Otto su decine di migliaia. Questo ci dice qualcosa: gli apostati sono una minoranza. E non rappresentano tutti gli ex membri, né tantomeno i membri attuali.

Eppure, le loro storie dominano il dibattito pubblico. Sono presentate come “testimonianze di sopravvissuti”, vere per definizione. Se uno studioso osa mettere in dubbio qualcosa, viene accusato di “rivittimizzare le vittime”. Ma lo studio delle religioni, come la democrazia, si basa sul confronto, non sull’unanimità emotiva.

Ci sono anche apostati che sono stati deprogrammati, cioè rapiti, segregati e costretti, con pressioni psicologiche o fisiche, a lasciare il movimento. In Giappone, alcuni avvocati hanno spinto ex membri deprogrammati a fare causa alla Chiesa dell’Unificazione per dimostrare che la deprogrammazione era effettivamente riuscita. Se rifiutavano, erano minacciati di ulteriori confinamenti. Questa non è libertà. È coercizione. E la deprogrammazione, sotto qualsiasi nome, è un crimine.

Negli ultimi mesi ho pubblicato analisi critiche su due libri. Uno è stato scritto da una ragazza australiana che ha aderito al movimento coreano Providence prima di essere deprogrammata e di diventare lei stessa assistente di un noto deprogrammatore. Il secondo è opera di una giovane donna lituana che ha scritto un libro di successo sul suo pessimo rapporto con la madre, che era Testimone di Geova, mentre lei, l’autrice, non ha mai aderito a questa religione. In entrambi i casi, si tratta di donne con problemi personali e familiari, di cui a torto si incolpano movimenti religiosi. La ragazza australiana ha problemi di anoressia, ma li aveva già prima di aderire al movimento Providence. L’autrice del libro pubblicato in Lituania aveva evidentemente una famiglia con molti problemi, ma ammette lei stessa che altre sue amiche e parenti, che avevano anch’esse genitori Testimoni di Geova, avevano invece un’infanzia felice. Un errore comune degli apostati – o di chi li incita a raccontare la loro vita in un certo modo – è attribuire a movimenti religiosi problemi personali e familiari che sono reali ma non hanno nulla a che fare con la religione.

La giornata di oggi ci invita dunque a riflettere. Quando discutiamo di leggi sulle “sette”, pensiamo a chi verrà colpito. Non solo agli apostati, ma anche ai fedeli ancora attivi, alle famiglie e agli anziani che, per libera scelta, fanno parte di movimenti religiosi minoritari e amano le proprie comunità. Rischiano di essere discriminati dalle campagne di stampa e da leggi fondate sulle tesi degli apostati. Pensate se è giusto che una minoranza arrabbiata decida il destino di una maggioranza silenziosa.

La libertà religiosa è un diritto fondamentale. Proteggerla significa proteggere tutti, anche chi crede in modo diverso da noi. E significa ascoltare tutte le voci, non solo quelle più popolari sui media.

Permettetemi di aggiungere un’ultima riflessione. In un’epoca in cui si parla tanto di inclusione, di rispetto delle diversità, di diritti umani, non possiamo dimenticare che anche le minoranze spirituali fanno parte di questa diversità. Anche loro meritano rispetto. Anche loro meritano protezione.

Non possiamo costruire una società giusta se permettiamo che pregiudizi, paure e testimonianze non verificate diventino la base delle nostre leggi. Non possiamo parlare di democrazia se ignoriamo la voce di chi vive pacificamente la propria fede, solo perché non fa rumore.

Non possiamo accettare che la narrazione di pochi apostati diventi l’unica voce ascoltata. Non perché le loro esperienze non contino o non debbano essere prese in esame, ma perché non sono le uniche. Ogni comunità spirituale è fatta di tante storie, tante vite, tante esperienze diverse. Alcune sono felici, altre difficili, come in ogni famiglia, in ogni gruppo umano. Ma giudicare un intero movimento solo sulla base delle parole di chi lo ha lasciato con rancore è ingiusto.

Ai parlamentari vorrei dire: il vostro ruolo è fondamentale. Siete voi a scrivere le leggi. Siete voi a decidere quali voci ascoltare. Vi chiedo di ascoltare tutte le voci. Di non lasciarvi guidare soltanto dalle emozioni. Di non cedere alla pressione mediatica. Di difendere la libertà religiosa con coraggio ed equilibrio.

Perché oggi sono prese di mira le cosiddette “sette”. Domani potrebbero essere religioni più grandi e più antiche. E dopodomani, forse, qualcuno che crede negli stessi valori in cui credete voi. La libertà religiosa non è un privilegio per pochi. È un diritto per tutti. Anche per chi crede in modo diverso e, naturalmente, anche per chi non crede. Anche per chi crede in qualcosa che non capiamo. Anche per chi crede in qualcosa che non condividiamo.

Vi ringrazio per l’attenzione, il vostro tempo e il vostro impegno. E vi auguro buon lavoro, con mente aperta, cuore giusto e spirito libero. Grazie.