Il ritorno di Ortega

Daniel OrtegaDa: ragionpolitica.it – 16 novembre 2006

di Stefano Magni

La memoria è un problema grave per i Paesi che hanno vissuto l’esperienza del totalitarismo comunista. Il tono trionfale con cui Daniel Ortega si è ripresentato alle ultime elezioni in Nicaragua ne è un’ulteriore dimostrazione. Sarebbe riduttivo parlare di «scheletri nell’armadio» per il candidato di sinistra che, il 5 novembre, è stato il più votato nell’ultima competizione elettorale.

Ortega fu uno dei protagonisti della rivoluzione che nel 1979 scacciò dal potere il dittatore nazionalista Anastasio Somoza. Leader del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale, il potere di Ortega divenne ben presto molto più repressivo rispetto alla dittatura che aveva contribuito a scacciare. Fin da subito non fu rispettato il diritto di proprietà: le terre furono confiscate, ma quasi mai furono redistribuite ai contadini, come invece fece credere la propaganda del regime (a cui fa eco tuttora il film di Ken Loach «La canzone di Carla»). Tutta l’economia fu nazionalizzata, secondo i dettami della dottrina marxista-leninista. Gli investitori stranieri dovettero andarsene e l’economia fu distrutta nel giro di pochi anni.

Dopo due lustri di regime sandinista, il Nicaragua registrava un’indice di inflazione da record del 30.000%. «Di che uguaglianza di parla quando vai da un contadino, gli rubi tutto quello che ha prodotto senza dirgli niente?», scrive un nicaraguense testimone diretto del periodo sandinista. «Di che uguaglianza si parla quando il governo uccide le persone che hanno più successo nella società?

La lotta contro il governo lanciata dai Contras scoppiò per questi motivi: perché molti dei Contras erano contadini e agricoltori stanchi di veder confiscate le loro proprietà, stanchi di vedere le loro figlie, mogli e madri violentate e uccise dai Sandinisti». Quando i contadini e i proprietari si ribellarono al nuovo regime, quest’ultimo non fece marcia indietro. Anzi: trovò una giustificazione ideologica in più per consolidare il suo potere assoluto e sopprimere quanto restava della democrazia.

Attribuì al nemico interno l’etichetta di «Contras» (controrivoluzionari) e passò da subito alla repressione armata. Quando gli Stati Uniti, con Reagan, iniziarono a condannare il nuovo regime e ad appoggiare la resistenza interna, Ortega alimentò ancor di più la retorica staliniana dell’accerchiamento imperialista e a dare ulteriori giri di vite alla repressione del suo popolo.

Già nel 1982 tutti i diritti di libertà erano calpestati. Tutti i maschi giudicati idonei dovevano prestare servizio nell’esercito dall’età di 15 anni, durante il periodo la scuola superiore. Nonostante la retorica della «scolarizzazione», i giovani del Nicaragua dovevano soprattutto addestrarsi alla guerra contro i nemici interni ed esterni. Tutta la popolazione fu inquadrata in organizzazioni di regime.

E in tutti i quartieri sorsero degli organi di controllo reciproco e delazione, chiamati Comitati per la Difesa Sandinista. Nel 1984, quando si tennero le prime elezioni, c’erano 20.000 oppositori (o sospetti tali) in carcere, costretti a vivere in condizioni disumane. Il carcere/gulag di Las Tejas è diventato famoso nella storia delle repressioni per le sue cellette di un metro cubo, il cui il prigioniero non poteva né dormire né muoversi.

Il diritto alla vita non fu mai rispettato dal regime sandinista. L’Ortega di oggi proclama evangelicamente: «Amatevi gli uni gli altri». Ma lo stesso Ortega, vent’anni fa, fece assassinare circa 8000 oppositori politici, direttamente o attraverso le armi della carestia artificiale e della deportazione, come nell’Unione Sovietica di Stalin.

Lo fece perché lo riteneva giusto ai fini della rivoluzione. Il regime di allora ritenne necessario deportare le popolazioni indio della costa atlantica del Nicaragua per integrarle a forza nelle città. Serviva per il loro «progresso». E adesso i cittadini del Nicaragua lo vogliono ancora come loro presidente. Non solo: dalle capitali europee, le stesse da cui si sono levate le condanne per leaders neofascisti come Jorg Haider e Jean-Marie Le Pen (che non hanno morti sulla coscienza), non è giunta alcuna protesta. Ebbene sì: abbiamo un problema di memoria. Ed è un problema tutto ideologico.