I “falsi miti” di un’Italia povera e in declino

Tracce n. 5 maggio 2006

Con un articolo in prima pagina su II Sole 24 ore, alla vigilia delle elezioni, aveva contestato l’allarme sulla povertà nel nostro Paese, lanciato dal centrosinistra in campagna elettorale. Tracce ha incontrato il professor Perotti per approfondire le ragioni della sua posizione controcorrente

a cura di Enrico Castelli

«I giornali hanno contribuito a diffondere una percezione della situazione ben diversa dalla realtà. Per esempio, le inchieste del Corriere della Sera e de la Repubblica sull’impoverimento degli italiani erano fuorvianti e non basate sui dati». Le ha dato fastidio sentir parlare di povertà in Italia con tale insistenza?

La domanda è per Roberto Perotti, Professore di economia, ordinario all’Università Bocconi di Milano. A dieci giorni dal voto ha deciso di andare un po’ controcorrente e ha pubblicato sulla prima pagina de Il Sole 24 ore un articolo dal titolo: «Falsi miti sulla povertà in Italia».

«Beh – risponde – mi sembra che si stia esagerando. Gli stipendi sono diminuiti? In parte è vero, ma usare aggettivi come “drammatica” per raccontare la situazione italiana, mi sembra decisamente fuori luogo».

Dati Istat e di Banca d’Italia

Quando gli chiediamo dei dati, il professor Perotti chiama in suo soccorso recenti studi sulla povertà in Italia che portano la firma di Andrea Brandolini, economista della Banca d’Italia. Studi disponibili sul sito lavoce.info, diventato molto noto negli ultimi tempi per aver ospitato numerosi articoli e saggi di economisti non certo teneri con il governo Berlusconi.

Studi sviluppati negli anni scorsi e che il professor Perotti conferma oggi con i dati aggiornati al 2004, i più recenti a disposizione. Fa una differenza tecnica, ma anche sostanziale, tra povertà relativa e assoluta. Quest’ultima ha continuato a scendere mentre la prima, la povertà relativa – che misura il reddito di una famiglia rispetto a una media (nel 2004 era fissato a 920 euro per una coppia) – è leggermente cresciuta nel 2004.

«Ma, sia ben chiaro – ci tiene a precisare Perotti – in quantità minime rispetto a quanto avvenne nel biennio di recessione 1992-93. Prima di parlare di impoverimento e di proletarizzazione bisognerebbe andare a rileggere le pagine sulla Sicilia e la Basilicata degli anni 40 e 50 scritte da Sciascia e da Scotellaro, con le descrizioni dei bambini con la pancia gonfia per mancanza di cibo. Quella era povertà! Invece ciò che è avvenuto è, a mio parere, un’altra cosa: la gente si aspettava di veder crescere il proprio stipendio secondo la tendenza degli anni precedenti. E questo, in realtà, non è avvenuto. Gli aumenti degli anni Ottanta e Novanta non ci sono più stati, Ma dire questo è ben diverso dal dire altro… Un conto è dire: andavo a 100 all’ora, ora vado a 50 chilometri all’ora. Altra cosa è dire: non vado avanti, anzi, vado indietro a 30 all’ora. Questo non è vero»,

AI professor Perotti, 45 anni, con un diploma in Economia al prestigioso Mit di Boston nel 1991 e con 10 anni alla Columbia University, oltre che consulente della Inter-American Development Bank e di istituzioni internazionali come la Banca Mondiale e la Banca Centrale Europea, non è proprio piaciuto il rapporto Eurispes sull’Italia dove si leggeva che «in Italia lo spettro della povertà si allarga. I ceti medi sono costretti per la prima volta dopo decenni a difendersi dal pericolo di un’incalzante proletarizzazione».

«La povertà – incalza Perotti – è un problema reale e drammatico, ma con simili assurdità non si contribuisce a capirne le cause e a risolverla». Per questo si è impegnato a ragionare, a confrontare i dati storici, le statistiche dell’Istat e della Banca d’Italia per sgombrare il campo da quello che su Il Sole 24 ore ha chiamato «i quattro miti» che circolano con troppa insistenza.

Quattro punti

Ecco in sintesi le sue osservazioni fatte sul quotidiano economico.

1) II ceto medio che si è impoverito. «Su questo – ci spiega il prof. Perotti – le dico semplicemente che se fosse vero che il costo della vita è aumentato in Italia del 30% in due anni e che se il benessere fosse diminuito nella stessa misura, noi avremmo avuto un crollo ben superiore a quello avvenuto in Argentina durante la devastante crisi del 2001».

2) La povertà è aumentata negli ultimi anni. «Qui ribadisco quello che le ho già detto: tutti i redditi ultimamente sono cresciuti meno che negli anni Ottanta perché l’economia ristagna da tempo e alcune categorie possono aver subito una riduzione del proprio tenore dì vita, ma in generale i redditi del ceto medio e dei meno abbienti non sono diminuiti».

3) La diminuzione delle retribuzioni reali dei lavoratori. «I dati parlano chiaro: nell’ultimo decennio, come pure nel periodo 2000-2005, la retribuire media dei lavoratori dipendenti è cresciuta in mini reali e l’aumento è stato superiore a quello [la produttività. II che spiega anche perché le imprese italiane abbiano perso in competitività». L’Italia è diventata il Paese delle rendite. Qui il discorso sarebbe lungo.

A me interessa sgombrare il campo da possibili equivoci e soprattutto dall’utilizzo in modo improprio del termine rendita. Molti tendono a considerare rendita tutto ciò che non è salario. “Rendita” diventa un termine per indicare o ciò che non è “produttivo” guadagnato con il sudore del proprio lavoro. Ma i rendimenti del risparmio o guadagnati con il proprio lavoro, in che senso sono una rendita improduttiva?».

Precarietà e flessibilità

Insomma – gli domandiamo – per lei la generazione 1000 euro, un modo diventato comune per indicare soprattutto i giovani precari che vivono con questa cifra al mese, è un’invenzione? Come pure la crescita dell’indebitamento delle famiglie italiane?

«A me piace ragionare sui fatti e sui dati. Io dico che a qualche anno fa le famiglie non potevano neppure indebitarsi perché nessuno faceva credito. Ora è o più facile ed è un segno della maturità e dell’evoluzione dei nostri mercati finanziari. E non è detto che a fronte di tassi contenuti siano solo le famiglie meno abbienti a indebitarsi. Anche per chi ha un buon reddito può essere utile, finanziariamente, pagare a rate. In secondo luogo, se andiamo a vedere perché una persona spesso si indebita, vediamo che lo fa per acquisti di beni durevoli e questo non è un segno di povertà.

Per quanto riguarda il tema della precarietà, soprattutto quella legata ai giovani, occorre capirsi. Innanzitutto dobbiamo distinguere tra precarietà e flessibilità. Molti giornali hanno identificato automaticamente la flessibilizzazione del lavoro con la precarizzazione dell’impiego. Tutto ciò che non è impiego definitivo, viene visto come precario. Così non è. La vera precarizzazione, a mio parere, scatta quando a fronte di una capacità lavorativa il contratto a termine viene sempre rinnovato, rinviando sine die l’assunzione definitiva. Ma la legge Biagi in Italia, come pure quella tanto contestata in Francia, non dicono questo. Non solo. Aggiungo che tutte queste discussioni sulla legge Biagi mi sembrano fuori luogo in quanto non ci sono ancora dati su cui poter ragionare».

Quando si parla di paura del futuro che effetto le fa?

«Dico che nei periodi di recessione la gente ha sempre più timore nel futuro: un conto è fare questa osservazione, un altro è vedere tutto nero. Sono convinto che molti giornali abbiano contribuito a diffondere una percezione della situazione ben diversa dalla realtà».