Newsletter di Giulio Meotti 30 Ottobre 2025
“Sappiamo dove vivi, ti scuoieremo”. Scampato all’Isis, gli hanno tagliato la gola sotto casa per la sua fede cristiana. La storia incredibile che non indigna né illumina la nostra notte dello spirito
Giulio Meotti
All’Occidente piacciono sempre le storie dei rifugiati. Non tutte le storie. Non questa. Non la storia di un cristiano fuggito da Oriente per vivere e morto in Occidente per credere. La sua storia dovrebbe essere al posto dello sbadiglio di Gramellini sul Corriere della Sera e dell’amaca di Serra sulla Repubblica. Invece niente. Niente neanche sui media cattolici, da Avvenire all’Osservatore Romano.
Ne avevo scritto il 15 settembre ed era subito stato evidente che fosse una storia incredibile e censurata. Ora stanno emergendo le peggiori conferme di chi ha capito subito la posta in gioco in quel sangue.
Erano le 22:30 quando l’assiro Ashur Sarnaya è tornato nell’appartamento che condivideva con la sorella a Lione, in un tranquillo quartiere dove le case popolari si affiancano a campus studenteschi, sedi aziendali e qualche negozio. Il 45enne cristiano iracheno, rifugiato della comunità assiro-caldea, è disabile dalla nascita. Utilizza una sedia a rotelle. Quella sera, come di consueto, si è dedicato a un live su TikTok per parlare della sua fede cristiana. Ashur realizza i suoi video in arabo o aramaico, iniziandoli con il segno della croce. Durante la diretta, Ashur Sarnaya è sgozzato e giace morente sulla sedia a rotelle.
Il suo unico piacere era girovagare per il quartiere, dove era benvoluto da tutti, e soprattutto, la sua occupazione principale era condividere la sua fede su TikTok. Per questo è stato vigliaccamente martirizzato a colpi di machete. Leggeva i Vangeli e recitava i Salmi ebraici, cosa impensabile per l’Islam più radicale.
Sabri B., cittadino algerino indiziato dell’assassinio e legato all’Isis, subito dopo l’omicidio di Ashur disattivò il suo telefono e lasciò Lione quella notte, diretto in Italia. Passò per Milano, Roma e da lì raggiunse la Puglia. La sua fuga si è conclusa lì dieci giorni dopo, in una casa di Andria, dove un suo connazionale algerino lo ospitava. Del suo caso in Italia, a parte questa newsletter, ha parlato soltanto la cronaca pugliese del Corriere della Sera.
Le indagini ora descrivono dettagliatamente le minacce a cui Ashur era stato sottoposto, sia online che di persona.
Sappiamo che l’assassino, Sabri B., si era collegato al live del cristiano, senza intervenire, trenta minuti prima del crimine. I live di Ashur erano regolarmente guardati da individui ostili. Uno di loro ha pubblicato un estratto del Corano: “Coloro che non credono nei nostri versetti, li bruceremo nel fuoco. Ogni volta che la loro pelle sarà consumata, la scambieremo con altre pelli affinché possano gustare il castigo”. Quindi, Ashur e i suoi interlocutori sono condannati all’inferno in una sera di fine estate.
Descrivendosi come palestinese residente a Lione, un utente di Internet si è regolarmente autoinvitato alle dirette, insultando e minacciando Sarnaya: “Arrivo, preparati”. Un altro, sostenendo di essere tunisino, ha chiesto di sapere dove vivesse l’influencer cristiano, dicendo che prima o poi lo avrebbe trovato. “Ti uccidiamo”.
Pur non volendo lasciarsi intimidire o impressionare, forse perché dopo essere fuggito dall’Iraq non si aspettava il peggio in Francia, Ashur aveva raccontato ai parenti alcuni eventi preoccupanti. In estate uno gli inviò un messaggio che recitava: “Sappiamo dove sei, non continuerà così”. Il messaggio era accompagnato da una foto di Ashur vicino casa sua.
La sorella ora si sente “in pericolo” in Francia. Madlin Sarnaya ha dichiarato a BFMTV che lei e il fratello erano “venuti in Francia perché avevamo bisogno di protezione”. Erano fuggiti dall’Iraq nel 2014 dopo che “un islamista armato gli aveva intimato di convertirsi o di andarsene”.
“Uccidere mio fratello perché parla di fede cristiana, pensate che sia normale?”, chiede la sorella.
Molti in Occidente sì, lo pensano.
Ashur faceva parte dei “resti”. Li descrive Pierre Vermeren: “Europei (coloni o immigrati), ebrei autoctoni o immigrati, cristiani orientali, minoranze religiose (zoroastriani, musulmani convertiti ad altre religioni, yazidi, ecc.) o minoranze culturali (curdi, berberi, ecc.) furono cacciati, combattuti, espulsi, venduti o addirittura eliminati”.
Il termine “dhimmitudine” è stato reso popolare trent’anni fa da Gisèle Littman in un libro intitolato La christianisme d’Orient entre djihad et dhimmitudine. La dhimmitudine, uno stato di rassegnazione, era una strategia di sopravvivenza per ebrei e cristiani sotto l’Islam, ma avveniva al prezzo di un’umiliazione interiorizzata. Il sionismo è una rivolta contro la dhimmitudine, che oggi percuote un mondo di origine cristiana e che cerca di non vedere la guerra che gli viene condotta.
Il giornalista franco-siriano Omar Youssef Souleimane ha pubblicato un libro sui “complici del male” che ha scatenato il panico negli ambienti di sinistra, che hanno tentato, per vie legali, di procurarsene una copia prima della pubblicazione, ma senza successo. “Vengo dalla Siria, un paese dominato dagli islamisti”, ha appena detto Souleimane alla commissione d’inchiesta del Parlamento francese. “Quando sono arrivato in Francia, ciò che mi ha davvero scioccato è stato trovare quell’atmosfera da cui ero fuggito”, ha continuato lo scrittore e giornalista.
Decine di esuli dal mondo islamico come Ashur hanno trovato la morte o la guerra in Europa. Un esule iraniano, Afshin Ellian, lavora all’Università di Utrecht, in Olanda, dove è protetto da guardie del corpo. Sembra una banca, più che un dipartimento di Diritto.
L’esule iracheno Salwan Momika è stato assassinato durante una diretta social in Svezia: assassinato “urlando come un maiale” (lo riporta l’Expressen), Momika era cresciuto come siriaco cattolico nella provincia di Ninive in Iraq e ha assistito alla persecuzione dei cristiani da parte dell’Isis, che ha ucciso i suoi famigliari.
Kadra Yusuf, giornalista somala, si è infiltrata nelle moschee di Oslo e vive sotto protezione. Non si muove senza scorta Mina Ahadi, che in Germania ha fondato il Consiglio degli ex musulmani, che hanno abbandonato l’Islam compiendo “apostasia”, reato passibile di pena di morte in decine di paesi musulmani (compresi molti “alleati” dell’Occidente, sauditi compresi).
Come Fatma Bläser, vittima di un matrimonio forzato e autrice del romanzo Hennamond, protetta dalla polizia.
A Parigi sotto scorta è Mohammed Sifaoui, giornalista scappato dall’Algeria. A Berlino, la turca Seyran Ates è protetta da cinque agenti armati fino ai denti. In Olanda la scrittrice turca Lale Gül vive protetta. Ayaan Hirsi Ali è dovuta scappare dall’Europa. Ieri in Oriente, oggi in Occidente.
E ora nel silenzio torbido della nostra coscienza occidentale risuona l’eco di questa tragedia inaudita: un rifugiato cristiano che aveva cercato rifugio e speranza, è stato straziato qui, in un terreno che proclamava accoglienza ma ha mostrato la sua ferita più oscura. La sua colpa? La fede, la libertà di testimoniare un credo. La morte di questo uomo — che aveva attraversato il deserto della persecuzione per giungere alla promessa di una nuova patria europea — diventa simbolo della crisi dell’Occidente: un Occidente che ha smarrito il coraggio e ha ceduto al ricatto della violenza e del silenzio. E in questo crimine si leggono le crepe profonde di una civiltà che un tempo osava proclamare “mai più”, e ora pare dimenticare. È come se il cuore stesso della civiltà cristiana avesse smesso di battere, lasciando spazio a un gelo morale che corrode tutto.
Il rifugiato è caduto e il suo sangue grida sul suolo che avrebbe dovuto custodirlo: è grido di avvertimento, monito di catastrofe imminente. È la rivelazione tragica che la libertà religiosa non è un fronzolo da cartolina: è linfa vitale di comunità che crollano quando l’indifferenza trionfa.
349 giorni: tanti ne sono passati intanto da quando un grande scrittore, Boualem Sansal, il cui unico crimine è quello di pensare e scrivere liberamente, è tenuto in ostaggio in Algeria. Dal suo comitato di sostegno giungono notizie allarmanti. Lo scrittore ha il cancro. Ha chiesto di essere ricoverato in ospedale. Niente: cella di isolamento. Gli ambientini culturali petalosi sono assenti. Gli artistoidi che denunciano il genocidio di Gaza non si preoccupano di Sansal più di quanto non si preoccupino dei palestinesi uccisi pubblicamente da Hamas. Se Sansal fosse in una prigione israeliana, sarebbero tutti per strada. Ma poiché il suo crimine è denunciare l’Islam politico, tanti saluti. Dall’Eliseo, Macron dice che è una sua priorità. Contiamoci. Un continente serio avrebbe già ottenuto la liberazione di Sansal. Con la diplomazia o con la forza.
Ma siamo entrati nella notte dello spirito, il tramonto di un’identità che si dissolve mentre i testimoni della fede vengono colpiti nel nome dell’odio. Se neanche la voce spezzata di un cristiano in sedia a rotelle ci scuote, allora davvero il crepuscolo dell’Occidente è già iniziato e nessuno potrà più dire di non averlo visto arrivare.
 
		                            		                        			            	 
                
                                                                





