Fratus: “Il fenomeno OnlyFans? I creator digitali non sono imprenditori ma precari auto-sfruttati”

Il Ghibellino 29Agosto 2025

di Cristiano Puglisi

Fabrizio Fratus, instancabile intellettuale-attivista classe 1973, lombardo, è forse il sociologo che, in Italia, ha più di ogni altro indagato, con scritti e conferenze, il fenomeno della pornografia nei suoi risvolti più “politici”, partendo da un punto di vista anti-modernista e comunitarista (è, per l’appunto, attualmente il principale teorico italiano del comunitarismo). Recentemente, dopo aver dato alle stampe, in più edizioni (l’ultima pubblicata da Il Cerchio) il suo saggio sul tema, “L’ideologia del godimento“, scritto a quattro mani con lo psichiatra Paolo Cioni, è tornato a scrivere sull’argomento con il nuovo volume “OnlyFans. La nuova frontiera della prostituzione e della pornografia”, edito da StreetLib. Il libro indaga, tra le altre cose, le relazioni che intercorrono tra il modello socio-economico neoliberale e il social network che ha consentito a molti creator digitali di utilizzare il proprio corpo e, nei casi più spinti, anche le proprie performance sessuali per generare reddito.

Il modello OnlyFans ha spesso catturato l’attenzione dei giornali più importanti, che hanno rilanciato le storie di diverse donne, insegnanti o impiegate, anche italiane, che grazie a questo strumento, esibendo il proprio corpo, sono riuscite a guadagnare e accantonare cifre molto superiori a quelle che avrebbero percepito solo con il loro impiego. Tanto che qualcuna si è pure licenziata. Partiamo da qui, non ti sembra che l’attenzione morbosa della stampa rischi di spingere ulteriormente l’emulazione di questi casi? Qual è il messaggio che passa?

«L’attenzione mediatica che circonda casi di successo su piattaforme come OnlyFans non è affatto casuale. Anzi, è un meccanismo intrinseco del sistema capitalista che sfrutta e amplifica queste storie per un obiettivo ben preciso: creare un’illusione di mobilità sociale e indipendenza economica. I giornali non si limitano a raccontare un fenomeno; lo promuovono attivamente. Il messaggio che passa è chiaro e pericoloso: “Se non ce la fai con il tuo lavoro ‘tradizionale’, puoi sempre vendere il tuo corpo e i tuoi contenuti digitali per ottenere successo e denaro”. Questo tipo di narrazione è un modo per spostare l’attenzione dalla radice del problema, che è la precarietà sistemica e la svalutazione del lavoro. Invece di interrogarsi sul perché un’insegnante non guadagni abbastanza per vivere dignitosamente, si esalta la sua decisione di intraprendere una via alternativa, presentandola come una scelta di libertà individuale. In questo modo, il sistema capitalista si autogiustifica e distoglie le masse dalla lotta per i per salari più equi».

Che società è quella in cui un essere umano riesce a mantenersi meglio realizzando video spinti online che, magari, insegnando in una scuola dopo anni di studio e sacrificio?

«La società che esalta il successo su OnlyFans rispetto a quello di un insegnante è una società che ha sostituito il valore intrinseco del lavoro con il suo potenziale di profitto e di intrattenimento. L’insegnamento, la cura, la produzione di conoscenza — tutte attività fondamentali per il benessere collettivo — vengono svalutate perché non generano un profitto immediato e spettacolare. Al contrario, la creazione di contenuti pornografici, che si basa sull’esposizione e sulla mercificazione del corpo, viene remunerata in modo sproporzionato perché si inserisce perfettamente nella logica del capitalismo della piattaforma, che monetizza l’attenzione e la fame di intrattenimento. In questa logica, il valore di un essere umano non si misura più dalla sua utilità sociale, dalla sua conoscenza o dalla sua creatività, ma dalla sua capacità di trasformare sé stesso in una merce vendibile. È la vittoria definitiva del capitale sul lavoro, dove l’unica “arte” che paga è quella di “vendere sé stessi” al miglior offerente digitale».

Il femminismo, in passato, ha lottato per liberare la donna da vincoli e oppressioni, per rivendicare la sua autonomia e dignità. Oggi, l’esibizione del corpo su piattaforme digitali viene presentata come l’apice di questa liberazione. Ma è davvero così?

«No, non lo è. L’impressione di libertà che si prova su queste piattaforme è illusoria. Le donne che vendono contenuti sessuali non si liberano, ma si re-imprigionano in una nuova forma di sfruttamento. Il loro corpo, che avrebbe dovuto essere un simbolo di autonomia, diventa uno strumento di produzione, un bene da esporre, da vendere e da consumare. Esse sono portate per denaro a soddisfare le richieste e le fantasie di un pubblico, perdendo il controllo sulla propria immagine e sulla propria dignità. Invece di essere soggetti attivi, diventano oggetti passivi in un mercato digitale che le spoglia di ogni autonomia».

Allarghiamo il campo a tutto il mondo dei creatori di contenuti digitali, non solo relativi al sesso, ma di ogni tipo: spesso si dice che questi ragazzi e ragazze, uomini e donne, siano liberi perché indipendenti da un datore di lavoro. È, insomma, la nuova frontiera di quello che una volta era chiamato, con enfasi, “imprenditore di sé stesso”. L’impressione, però, è che queste persone, a prescindere dai guadagni, facciano una vitaccia, costretti a essere perennemente connessi e sotto la costante minaccia di una “shitstorm“…

«Anche per i creatori di contenuti non legati al sesso, la narrativa dell’indipendenza e della libertà è una trappola ideologica del sistema capitalista. Questi individui non sono imprenditori liberi; sono, in realtà, lavoratori altamente precari che internalizzano tutti i rischi e i costi che una volta erano a carico del datore di lavoro. L’apparente assenza di un “capo” è compensata dalla costante necessità di auto-sfruttamento. Non c’è più un orario di lavoro, ma una perenne disponibilità. Non c’è più un datore di lavoro, ma l’algoritmo, che decide chi viene visto e chi no, e un pubblico volubile e a tratti ostile. La minaccia di una “shitstorm” non è un semplice rischio accessorio; è la dimostrazione che questi “imprenditori” non controllano la propria immagine o il proprio destino. Sono costantemente in balia dell’umore delle masse digitali e dei capricci delle piattaforme, costretti a produrre ininterrottamente per non essere dimenticati. Non è la libertà dell’imprenditore, ma la servitù del precario digitale, costretto a una vita di ansia e iper-connessione in cambio di una fragile promessa di successo. In definitiva, questo sistema mostra la capacità del capitalismo di adattarsi e di creare nuovi strati di sfruttamento sotto la falsa bandiera della libertà e dell’autonomia”.