Euro, uno sbaglio per l’Europa e l’Italia?

Euro, unno sbaglio per l'Europa e l'ItaliaAbstract: l’entrata nell’Euro fu uno sbaglio per l’Europa e per l’Italia? L’ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio ricorda  i problemi economici strutturali e le debolezze dell’Italia  ma i governi di sinistra del tempo non prestarono attenzione agli allarmi e vollero la nostra adesione alla moneta unica. Una decisione che ha gravi conseguenze anche oggi a oltre vent’anni di distanza

Il Timone n. 234 dicembre 2023 

L’Euro venti anni dopo  

Parla Antonio Fazio, che nel 2002 era governatore di Bankitalia. «Fu solo un rigido accordo di cambio, che ignorò la nostra debolezza strutturale». Risultato? «Oggi la nostra economia è un disastro e si sono persi i principi e i valori alla base dell’Unione» di

Vincenzo Sansonetti

Nel quinquennio 1997-202, con l’adesione all’euro come moneta comune, l’Italia si giocò il proprio futuro. Una decisione inevitabile, ma forse affrettata, voluta dai governi di sinistra di Prodi, D’Alema e Amato. A distanza di più di vent’anni Antonio Fazio, ex governatore della Banca d’Italia (che guidò dal 1993 al 2005), ripercorre quell’evento con uno sguardo alla situazione attuale della nostra economia, che da allora non si è ancora ripresa.

A più di 26 anni dall’ammissione dell’Italia nel sistema dell’auro, tracciamo un bilancio. Governatore, eravamo preparati alla moneta unica? Dove abbiamo sbagliato?

«La decisione di partecipare al sistema della moneta unica non fu sufficientemente analizzata a livello politico. Come governatore della Banca d’Italia avevo stabilizzato il tasso di cambio della lira – attraverso la severa politica monetaria degli anni Novanta – e avevo eliminato il grave spread dei rendimenti dei titoli pubblici, riducendolo da circa 800-900 punti a meno di 200. Avevo anche praticamente azzerato l’inflazione, riducendo la variazione dei prezzi al consumo sotto il 2 per cento annuo. Non avevo certo potuto correggere la situazione critica del disavanzo pubblico e soprattutto del debito pubblico. Avevo ampiamente e ripetutamente avvertito circa la debolezza della nostra produttività e competitività a livello internazionale. Ho ripreso alla lettera, nel testo Le conseguenze economiche dell’euro, quanto scritto ripetutamente alla fine degli anni Novata e nei primi anni Duemila. Gli avvertimenti furono purtroppo del tutto ignorati a livello di governo, del parlamento, della presidenza della Repubblica. Furono purtroppo del tutto ignorati anche dalle parti sociali, sindacati dei lavoratori e associazioni imprenditoriali. C’era l’illusione che, se avessimo potuto partecipare alla moneta unica, tutto si sarebbe aggiustato. Avendo una moneta stabile come quella tedesca, anche la nostra economia sarebbe diventata produttiva ed efficiente come quella di Berlino. Un errore drammatico. Riuscii a ottenere un “nulla osta” per l’ammissione all’euro grazie alle variabili monetarie e finanziarie e grazie all’annullamento dell’inflazione. Avvertii però che avremmo “pagato” l’ammissione con una sorta di bradisismo economico. Che è stato peggiore di quanto allora previsto»

Lei nel suo saggio usa termini come «inconvenienti» e «abusi», con ingiustificati ed esagerati aumenti dei prezzi. Può spiegare meglio?

Antonio Fazio mise in guardia sui pericoli dell'euro«Gli abusi avvennero numerosi e diffusi nel cambio delle banconote nazionali con le nuove banconote in euro. In Italia ciò che prima costava mille lire fu considerato pari ad un euro, mentre avrebbe dovuto essere solo 50 centesimi. Gli abusi per gli acquisti minuti ma importanti per le fasce di reddito più modeste avvennero anche in Germania: ciò che costava un marco [al cambio di allora un marco = 990 lire circa ndr]., fu trasformato in un euro. Abusi simili avvennero in tutti gli altri Paesi. Furono danneggiati i più poveri. Venendo ai giorni nostri, invece, possiamo dire che fu un tragico errore di politica monetaria – del Sistema europeo di Banche centrali e della Banca centrale europea – annunciare che era probabile un aumento dei prezzi senza però intraprendere drasticamente, prontamente e preventivamente un’azioneefficace di contrasto. Gli operatori ne hanno approfittato subito, alzando i prezzi dei loro beni e servizi venduti al pubblico. Non abbiamo ancora oggi corretto quell’errore. La politica monetaria della Bce, con 20 Paesi con economia diverse, è molto meno efficace delle politiche monetarie nazionali precedenti. Questo è un difetto strutturale dell’Euro».

Da allora nell’economia mondiale, in particolare nell’area dell’euro, ci sono stati alti e bassi, appunto il “bradisismo” cui lei accennava, e varie crisi. L’Italia, per la sua debolezza, è rimasta fanalino di coda, soprattutto riguardo alla crescita e all’occupazione. Che cosa non ha funzionato? In altre parole quali sono stati gli effetti a lungo termine della moneta unica?

«L’economia della Grecia è stata quella più pesantemente danneggiata dalla partecipazione all’euro. Ma anche l’economia italiana ha sofferto: a distanza di 16 anni è infatti ancora al di sotto del livello raggiunto nel 2007, quando scoppiò la “grande recessione”! Invece nella grande crisi degli anni Trenta del secolo scorso, dopo soli sette anni – nel 1936 – si era già riguadagnato il livello del 1929. Quello attuale è un disastro che era del tutto sconosciuto alla nostra economia, e alle conseguenze dell’occupazione sono evidenti. E’ un disastro quanto meno della nostra politica economica nell’euro, che si è riflesso anche nell’accresciuto debito pubblico».

A distanza di tempo parlerebbe di fallimento dell’euro? O, per lo meno, il sistema può essere riformato, e come? In particolare come si potrebbe intervenire sul costo del lavoro e la produttività?

«I dati si commentano da soli. E’ mancata anche a livello della politica economica dell’euro una visione d’insieme. Una prima presa di coscienza sta nell’adozione del cosiddetto Pnrr. Ma non basta, non c’è una capacità a livello europeo di monitorare e e governare l’economia complessiva dell’area. Il costo del lavoro e la produttività sono una responsabilità in primo luogo delle parti sociali. Non intravedo iniziative al riguardo. E il problema è serio. Nel mio saggio inizio ad affrontare alcuni temi con le necessarie analisi e quindi con il suggerimento di qualche possibile correzione».

Il principio di sussidiarietà – uno dei pilastri del Trattato di Roma, che nel 1957 istituì la Comunità economica europea – sembra svanito nel nulla, come pure la preoccupazione per un “bene comune europeo”. Com’è potuto accadere?

«Il principio di sussidiarietà è andato a farsi benedire con i vincoli aggiunti al debito pubblico fuori e dopo il Trattato di Maastricht del 1992, che varò l’Unione economica e monetaria. Problema da rivedere radicalmente, interrompendo una politica di controllo occhiuto della Commissione europea, che bada appunto solo ai vincoli e poco allo sviluppo economico complessivo»

Oggi non solo non c’è ancora un’Europa unita e solidale sul piano economico, ma ci appare preoccupata d’altro: la conversione green, i diritti Lgbtq+ e altri simili, controverse priorità. Siamo allo sbando? C’è un futuro per l’Europa come l’hanno concepita i padri fondatori?

«La mia visione dell’Europa non è quella dei numerosi “arruffapopolo” attuali, piuttosto quella delineata dal pensiero di Shumann, Adenauer, De Gasperi, non a caso tutti e tre cattolici. Visione che poi aveva preso forma nel Trattato di Roma. Uno dei miei ultimi esami universitari, alla fine degli anni Cinquanta, verteva sulla “politica economica europea”, costruita proprio sui principi della solidarietà e dell’attenzione al bene comune. Lo superai con entusiasmo prima della laurea, nel 1960. Dove sono finiti quei principi e quei valori? C’è comunque un errore di fondo nella comprensione di ciò che è la sostanza della presente situazione economica. Quella che definiamo la politica monetaria europea non è altro che un rigido accordo di cambio tra diverse monete, volto ad evitare la rivalutazione di quelle più forti e la svalutazione di quelle più deboli (favorendo esageratamente i Paesi con l’economia più efficiente, innanzitutto la Germania). E’ un assetto da ripensare completamente e in modo razionale, per costruire un’Europa prospera nella quale viga la sussidiarietà.

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Il progetto andava rifiutato

di Giuseppe Liturri

Non eravamo pronti o non saremmo dovuti entrare, a prescindere? E’ questa la non lieve differenza su cui si dibatte da oltre vent’anni a proposito dell’ingresso dell’Italia nell’euro. Dibattito che poi si allarga alla ipotetica scelta di uscire oggi dall’unione monetaria partita formalmente il 1 gennaio 1999, ma di fatto già esistente dal 1996.

Una tesi formulata da alcuni all’epoca del (mis)fatto è quella dell’impreparazione . Ma suona come un’interessata orazione Cicero pro domo sua, per almeno due motivi. Il primo è che se un assetto istituzionale ed economico strutturalmente disfunzionale – come peraltro noto anche all’allora governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio e dimostrato dall’affannosa ricerca di soluzioni all’ultimo minuto in occasione delle crisi dell’ultimo ventennio – lo è sempre. Non esiste un momento in cui non si è pronti e un altro in cui lo si è. Il progetto va rifiutato e basta, perché incapace di reagire efficacemente a gli shock macroeconomici e strutturalmente fondato sulla competizione intra euro basata sul contenimento dei prezzi, tra cui quello del lavoro. Con l’aggiunta dell’assenza di una capacità di bilancio dell’eurozona, nell’essenziale ruolo di esecutore di trasferimenti di risorse per mitigare le divergenze tra i diversi Stati membri.

Tutte cose ben note a numerosi economisti. Ci si sarebbe aspettati che qualcuno parlasse al momento giusto, almeno avrebbe animato un dibattito nell’opinione pubblica che sostanzialmente non c’è mai stato, e forse condotto a un ripensamento da parte dei governi dell’epoca, tutti invece anelanti le magnifiche e progressive sorti dell’euro. Il secondo motivo è che proprio in questo periodo stiamo assistendo al dibattito in corso in Repubblica Ceca. A Praga (come Varsavia, Sofia, e Budapest) l’euro non c’è, ma secondo i Trattati, prima o poi dovrebbe esserci. Da una parte ci sono imprenditori e numerosi esponenti politici che premono per l’adesione. Dall’altra c’è la Banca centrale che è contraria e sta mettendo in guardia tutti per la perdita di una decisiva leva di politica economica capace di assorbire gli shock macroeconomici. Meglio mettersi di traverso prima. Ciò che ci saremmo aspettati anche al momento dell’ingresso dell’Italia.