Diritto di famiglia Costituzione e matrimonio

Abstract: Diritto di famiglia Costituzione e matrimonio. Un’intensa stagione di riforme legislative e di interventi giurisprudenziali sta trasformando il volto della famiglia. Si tratta di trasformazioni così radicali da mettere in discussione gli stessi paradigmi costituzionali del matrimonio e della filiazione. Intervento di Emanuele Bilotti, Ordinario di diritto privato nell’Università Europea di Roma, al convegno Lo stato della famiglia tra Italia e Stati Uniti, tenutosi a Roma il 19 maggio 2023.

Centro Studi Rosario Livatino 25 Maggio 2023

Il nuovo paradigma del diritto della famiglia

e il disegno costituzionale

 Intervento di Emanuele Bilotti, Ordinario di diritto privato nell’Università Europea di Roma, al convegno Lo stato della famiglia tra Italia e Stati Uniti, tenutosi a Roma il 19 maggio 2023.

Un’intensa stagione di riforme legislative e di interventi giurisprudenziali sta trasformando il volto della famiglia. Si tratta di trasformazioni così radicali da mettere in discussione gli stessi paradigmi costituzionali del matrimonio e della filiazione: il paradigma istituzionale del matrimonio e quello naturalistico della filiazione. Certe trasformazioni non sono prive di riscontro nella coscienza collettiva. Prima ancora di trovare spazio nelle norme e nel cd. diritto vivente esse sono maturate in prassi sociali animate da una sintesi culturale materialista, segnatamente di stampo liberal-capitalista. Senza una simile consapevolezza – senza la consapevolezza, cioè, che è innanzitutto l’evoluzione sociale ad aver tradito lo spirito della Costituzione (Francesco D. Busnelli) – ogni tentativo di incidere su certi processi è destinato a rimanere frustrato.

Ma è bene anzitutto aver chiaro il carattere radicale delle trasformazioni in atto. E chiedersi poi quale sia la reale posta in gioco.

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Quanto anzitutto al paradigma istituzionale del matrimonio, nella prassi giurisprudenziale è ormai superata da tempo l’idea di un rapporto di coppia che, per quanto dissolubile, sia sottratto alla disponibilità dei suoi protagonisti. Taluni interventi del legislatore sulla disciplina del divorzio – soprattutto la possibilità dello scioglimento del matrimonio in via amministrativa o negoziale – hanno ancor più accelerato questo processo di cd. deistituzionalizzazione.

La garanzia costituzionale di stabilità accordata al vincolo coniugale appare ormai logora. Certo, quella garanzia risulta tuttora dal riferimento all’unità della famiglia nell’art. 29, co. 2, Cost. Eppure, in un’importante decisione del 2018 della Suprema Corte di cassazione si parla di un “modello costituzionale del matrimonio” fondato, tra l’altro, sul principio di “reversibilità della decisione” di sposarsi (Cass., sez. un., n. 18287/2018). E dunque si accredita l’idea di un rapporto nella piena disponibilità dei coniugi.

Sfuma nella percezione degli interpreti la stessa giuridicità dei doveri coniugali. L’irrilevanza della colpa nella separazione, l’estinzione di ogni dovere coniugale già nel corso della separazione e prima ancora del divorzio, la tendenza a ridurre la misura della solidarietà postconiugale, l’idea che nei rapporti tra coniugi la responsabilità civile non debba sanzionare la violazione dei doveri familiari, ma unicamente una lesione particolarmente grave di diritti fondamentali della persona: sono tutti indici del rifluire del rapporto coniugale verso il mero convivere, della sostanziale riduzione dei doveri coniugali a semplici doveri della morale sociale (Massimo Paradiso, Andrea Nicolussi).

Ma la spinta nel senso della relativizzazione del modello investe ormai anche profili ulteriori, a cominciare dalla stessa diversità di sesso dei coniugi.

Si è detto in verità che tra il matrimonio e la specifica forma giuridica riservata alle coppie formate da persone dello stesso sesso – la cd. unione civile – non può darsi confusione. È il cd. Differenzierungsgebot (precetto di differenziazione). Anche la Corte costituzionale ha affermato che “le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio” (Corte cost. n. 138/2010). E questa impostazione non è stata certo messa in discussione neppure dalla Corte di Strasburgo (cfr. Schalk e Kopf c. Austria, n. 30141/04 del 24 giugno 2010; Oliari e altri c. Italia, n. 18766/11 e n 36030/11 del 21 luglio 2015).

Eppure, solo una parte largamente minoritaria degli interpreti appare disposta a valorizzare talune differenze di disciplina tra matrimonio e unione civile, che invece proprio nella logica indicata del Differenzierungsgebot dovrebbero essere riconosciute come decisive (Michele Sesta, Giovanni De Cristofaro, Emanuele Bilotti).

Si allude in particolare – ma non solo – alla mancata previsione dell’obbligo di fedeltà tra i partner dell’unione civile e alla possibilità di sciogliersi unilateralmente da essa, salvo preavviso, in virtù di una dichiarazione dinanzi all’ufficiale di stato civile. Si tratta in effetti di dati che attestano con chiarezza la diversità del rapporto nascente dall’unione civile rispetto al rapporto coniugale: il primo rapporto, a differenza del secondo, rimanendo nella disponibilità dei suoi protagonisti, non si configura come un rapporto di status, ma come un semplice rapporto contrattuale di reciproca assistenza morale e materiale.

Il legislatore italiano si è dunque sforzato di dare corpo al Differenzierungsgebot, adottando una soluzione originale, che non trova corrispondenza in altri ordinamenti. Tra gli interpreti è prevalsa nondimeno l’idea secondo cui le differenze tra unione civile e matrimonio, almeno con riferimento alla disciplina del rapporto di coppia, sarebbero “più di forma che di sostanza”. Si tratterebbe – così ha scritto un Autore – di “proclami retorici di principio, volti a rimarcare l’idea che solo quella matrimoniale meriterebbe il nome di famiglia” (Leonardo Lenti). E un altro Studioso autorevole ha osservato come tra gli interpreti sia “possibile riscontrare un significativo punto di convergenza nella caratterizzazione in termini di status della situazione conseguente alla costituzione di una unione civile e di status, in particolare, di carattere specificamente familiare” (Enrico Quadri). La differenza riguarderebbe solo la “pienezza” dello status, il suo contenuto. Ma si tratterebbe comunque di status.

Si comprende allora come sia rimasta largamente minoritaria anche l’idea secondo cui ad essere discriminatoria sarebbe in realtà la scelta di riservare il modello dell’unione civile solo a coppie formate da persone dello stesso sesso. E di non aprirlo invece a tutte le convivenze fondate sulla reciproca assistenza morale e materiale, finanche al di là degli stessi rapporti di coppia, con conseguente irragionevolezza, nella disciplina delle unioni civili, di ogni riferimento all’esercizio della sessualità “importato” dalle norme codicistiche sul matrimonio (Emanuele Bilotti).

Vero è che, come si è detto, il processo in atto di deistituzionalizzazione del matrimonio fa sì che con sempre maggiore difficoltà si riesca a metterne a fuoco la differenza specifica rispetto ad altre forme dello “stare insieme”. Ha buon gioco allora chi ritiene che la diversità tra matrimonio e unione civile debba ricondursi a un’idiosincrasia del legislatore, il cui fondamento razionale rimane sfuggente (Leonardo Lenti). La coscienza collettiva, del resto, già registra questa impostazione. Ma così il passaggio dalla logica del Differenzierungsgebot – del precetto di differenziazione – alla logica opposta del Differenzierungsverbot – del divieto di discriminazione – diventa del tutto agevole, addirittura naturale. L’esperienza di altri ordinamenti europei lo dimostra. In tal senso il caso tedesco è davvero emblematico.

Ma in questo quadro il dato che in questa sede più preme mettere in evidenza è che, nella giurisprudenza costituzionale, la cd. garanzia d’istituto del matrimonio – quella garanzia costituzionale addotta al fine di impedirne l’estensione alle coppie formate da persone dello stesso sesso – è stata ritenuta fondata semplicemente sul suo “significato tradizionale”: sul fatto che la Carta abbia fatto proprio un modello già accolto dalle norme codicistiche all’epoca della sua redazione (Corte cost. n. 138/2010). Non si è andati al di là di quest’argomento “originalista”. Continua a far difetto, in particolare, qualsiasi riferimento ad un radicamento dei caratteri essenziali del matrimonio nelle direttive di fondo del disegno costituzionale. Ed è questo, ai fini del prosieguo della nostra riflessione, il dato più rilevante.

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Quanto al paradigma naturalistico della filiazione, è ben noto anzitutto che l’accesso consentito dal legislatore alla tecnica omologa di procreazione medicalmente assistita ha poi consentito alla Corte costituzionale di ammettere anche il ricorso alla tecnica eterologa a parità di condizioni (Corte cost. n. 162/2014).

Il sindacato di ragionevolezza che ha permesso questo risultato è invero assai problematico. È un dato, tuttavia, che, sia pure in una logica di eccezionalità, la Corte costituzionale ha riconosciuto un criterio volontaristico a priori di formazione dello stato di figlio. E dunque una forma concorrente – e non più solo suppletiva, com’è invece nel caso dell’adozione – di genitorialità volontaria.

Continuano invero ad essere vietati sia la fecondazione post mortem sia l’accesso alla fecondazione eterologa da parte di coppie formate da due donne sia la surrogazione di maternità. Quest’ultima pratica, in particolare, in considerazione del grave disvalore sociale ad essa riconosciuto, è anche sanzionata penalmente. Allo stato, tuttavia, finisce per rimanere sostanzialmente impunita quando il cittadino italiano vi ricorra all’estero.

In effetti, il “turismo procreativo” consente facilmente di eludere tutti i divieti indicati, alimentando un fiorente mercato internazionale di servizi riproduttivi. I giudici si trovano così nella difficile situazione di doversi confrontare col fatto compiuto. E certo, nell’assolvere a questo compito, non possono permettere che la dignità del nato sia strumentalizzata allo scopo di conseguire esigenze general-preventive che lo trascendono.

E così, nel superiore interesse del minore, la giurisprudenza di legittimità ha ammesso l’accertamento della paternità dell’uomo che abbia consentito all’impiego del proprio seme crioconservato per la fecondazione post mortem del coniuge superstite da realizzare all’estero: un padre già morto al momento del concepimento (Cass. n. 13000/2019).

Inoltre, sempre nel superiore interesse del minore, la giurisprudenza di legittimità ha ammesso pure che possano divenire efficaci in Italia gli atti di nascita esteri che accertino una doppia maternità in caso di ricorso alla tecnica fecondativa eterologa da parte di coppie di donne (Cass. n. 14878/2017 e n. 23319/2021: casi in cui una stessa donna ha fornito il materiale genetico e ha portato avanti la gravidanza; Cass. n. 19599/2016: caso in cui una donna ha fornito il materiale genetico e l’altra ha portato avanti la gravidanza). L’ipotesi di una maternità puramente intenzionale non è così più estranea al nostro ordinamento. Si continua nondimeno ad escludere che l’accertamento di una doppia maternità sia possibile in caso di nascita in Italia (Cass. n. 7668/2020, n. 8029/2020, n. 23320/2021, n. 23321/2021, n. 6383/2022, n. 7413/2022, n. 22179/2022). Né quest’ultima soluzione è stata dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale, che pure è stata investita del problema in tre distinte occasioni (Corte cost. n. 237/2019, n. 230/2020 e n. 32/2021).

Il riconoscimento automatico della genitorialità intenzionale accertata all’estero continua peraltro ad essere escluso risolutamente in ogni caso di nascita da una madre surrogata (Cass., sez. un., n. 12193/2019 e n. 38162/2022). E ciò, com’è ormai chiaro, senza che sia possibile distinguere tra una maternità surrogata commerciale e una maternità surrogata cd. altruistica o solidale (Cass., sez. un., n. 38162/2022). Anzi, da ultimo, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che il riconoscimento automatico della genitorialità accertata all’estero del committente privo di legame biologico col nato da madre surrogata – per il tramite della trascrizione dell’atto straniero nei registri italiani di stato civile – è da escludere non solo perché finirebbe per legittimare in maniera ipocrita e surrettizia una pratica degradante, ma anche perché non sarebbe una soluzione idonea a realizzare l’interesse del minore (Cass., sez. un., n. 38162/2022).

È vero che, sia nel caso di nascita da madre surrogata sia nel caso di nascita in Italia a seguito del ricorso all’estero alla fecondazione eterologa da parte di una coppia di donne, la formalizzazione del rapporto col cd. genitore d’intenzione rimane comunque un risultato raggiungibile ex post, attraverso il ricorso ad una particolare forma di adozione (Cass., n. 12962/2016, sez un. n. 12193/2019 e n. 38162/2022). Devono peraltro considerarsi ormai superati i profili di inadeguatezza di questa soluzione indicati dalla Corte costituzionale (Corte cost., n. 32 e n. 33 del 2021; Corte cost. n. 79/2022 e Cass., sez. un., n. 38162/2022). In ogni caso, tale soluzione presuppone comunque un concreto vaglio giudiziale sulla conformità del rapporto in atto col superiore interesse del minore. Il rapporto genitoriale che viene così formalizzato risponde dunque ad una logica puramente rimediale, che, almeno nelle intenzioni dei giudici, non intende certo assecondare il progetto genitoriale degli adulti (Cass., sez. un., n. 38162/2022).

Resta il fatto che la piena efficacia degli accertamenti esteri di doppia maternità stride con l’idea secondo cui un rapporto genitoriale non potrebbe fondarsi sulla semplice volontà degli adulti. A ben vedere, tuttavia, quest’idea è già contraddetta nel caso dell’uomo e della donna con problemi di infertilità non altrimenti superabili che abbiano fatto ricorso alla fecondazione eterologa. È vero: si tratta pur sempre di un’eccezione. E sul punto concordano ora anche il Giudice delle leggi e la Suprema Corte (Corte cost. n. 221/2019 e Cass., sez. un., n. 38162/2022). Ma si tratta di un’eccezione difficilmente giustificabile, se non a costo di storicizzare – e relativizzare – il paradigma della genitorialità naturale.

Si comprende allora come ad essere decisivo nell’impedire il riconoscimento automatico di una genitorialità puramente intenzionale sia soprattutto il disvalore associato alla pratica della maternità surrogata. E come invece il divieto di ricorso alla fecondazione eterologa per le coppie di donne appaia ormai precario.

La Corte costituzionale, del resto, ha ritenuto che quest’ultimo divieto, per quanto non possa considerarsi né arbitrario né irrazionale, in quanto espressione delle “condizioni ritenute migliori per lo sviluppo della personalità del nuovo nato” in un certo momento storico, rappresenti comunque un approdo storicamente e socialmente condizionato: il portato di una convenzione sociale e non un’esigenza irrinunciabile in vista della realizzazione del progetto costituzionale (Corte cost. n. 221/2019).

Il paradigma naturalistico della filiazione condivide così la stessa sorte del paradigma istituzionale del matrimonio. Anche la genitorialità naturale appare ormai interamente storicizzata. L’evoluzione della coscienza ben potrebbe indurre il legislatore ordinario a un diverso assetto dei rapporti tra genitorialità volontaria e genitorialità naturale. E ciò senza trovare alcun ostacolo nel dato costituzionale.

Ciò almeno con riferimento al superamento dell’attuale divieto di accesso alla tecnica eterologa di procreazione medicalmente assistita per le coppie di donne (Corte cost. n. 221/2019). Come si è detto, infatti, nel caso del ricorso alla maternità surrogata continua a pesare il grave giudizio di disvalore sociale associato alla pratica.

In verità, più di qualcuno – anche tra gli interpreti istituzionali – è dell’avviso che una qualche forma cd. altruistica o solidale di maternità surrogata potrebbe senz’altro essere ammessa dal legislatore e perfino dall’interprete (Vincenzo Scalisi, Ugo Salanitro). Come si è detto, tuttavia, almeno per il momento, la Suprema Corte ha escluso certe prospettive in maniera categorica.

Da ultimo ha affermato infatti che “nella maternità surrogata il bene tutelato è la dignità di ogni essere umano, con evidente preclusione di qualsiasi possibilità di rinuncia da parte della persona coinvolta”. E ciò perché – afferma ancora la Suprema Corte – “nel nostro sistema costituzionale la dignità ha una dimensione non solo soggettiva, ancorata alla sensibilità, alla percezione e alle aspirazioni del singolo individuo, ma anche oggettiva, riferita al valore originario, non comprimibile e non rinunciabile di ogni persona” (Cass., sez. un., n. 38162/2022).

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Da questa sommaria considerazione delle trasformazioni in atto emerge con chiarezza come il nuovo volto del diritto di famiglia si caratterizzi anzitutto per la negazione del legame tra famiglia e matrimonio: una negazione che si realizza con la sostanziale assimilazione del rapporto coniugale ad ogni altra forma dello “stare insieme” e che riduce l’unità della famiglia a contingente comunione di vita, a mero fatto di sentimento. Il paradigma istituzionale del matrimonio, per quanto accolto con chiarezza nell’art. 29 Cost., non è riuscito a impedire una simile evoluzione

Il nuovo volto del diritto di famiglia si caratterizza poi per la negazione del legame esclusivo tra esercizio della sessualità e generazione umana, che consegue alla progressiva estensione dell’accesso alle tecniche riproduttive. In effetti, come si è visto, a tale estensione, almeno per il momento, sembra ancora opporre un argine solido solo il grave disvalore associato alla pratica della maternità surrogata, non certo l’inderogabilità del paradigma naturalistico della filiazione, anch’esso accolto con chiarezza nell’art. 30 Cost.

La storicizzazione – e la conseguente relativizzazione – di certi paradigmi costituzionali, maturata anzitutto nella coscienza sociale, non è rimasta senza effetti. Quei paradigmi sono stati progressivamente svuotati dall’interno soprattutto perché considerati come prodotti occasionali di una contingenza storica. E perciò privi di una reale forza cogente. Qualcuno è arrivato addirittura ad ipotizzare la necessità di una loro rilettura alla luce dei dati risultanti dalla legislazione ordinaria e dal diritto vivente (Roberto Bin). Di quei modelli non si è colto il radicamento profondo nelle fondamenta del progetto costituzionale. Non si è ritenuto, in altri termini, che tra essi e la Grundnorm personalista vi sia un’implicazione necessaria. Il rapporto tra gli uni e l’altra è stato considerato puramente accidentale: un mero dato storico, privo di implicazioni di ordine dogmatico.

È proprio così? È ancora credibile, in altri termini, la promessa costituzionale di un ordine sociale a garanzia della dignità della persona se viene negato il legame tra matrimonio e famiglia e quello tra generazione umana ed esercizio della sessualità?

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Non è difficile anzitutto rendersi conto che solo se è preservato un legame esclusivo tra generazione umana ed esercizio della sessualità rimane aperta la possibilità per gli adulti di relazionarsi al generato secondo una logica non utilitaristica, di pura gratuità.

In effetti, solo la generazione attraverso l’esercizio della sessualità garantisce che, con riferimento al nascere dell’uomo, il “provenire da” che è proprio di ogni vita che nasce – la relazione di dipendenza che inevitabilmente si dà tra i generanti e il generato – non si riduca a un “essere prodotto da”. E dunque che la relazione umana originaria non sia consegnata a dinamiche che sono proprie del mondo delle cose e che vizierebbero in maniera irrimediabile il rapporto tra gli adulti e il generato.

Un esito di questo tipo sembra invece inevitabile in ogni caso di ricorso a tecniche fecondative, e cioè laddove la generazione umana sia separata dall’esercizio della sessualità. Solo nella generazione attraverso l’esercizio della sessualità è dunque garantita la dignità del nascere dell’uomo.

È quanto riconosce con esemplare chiarezza anche Mauro Ronco quando dice che la tecnica “trasforma la generazione umana in una relazione di mero possesso, in cui i gameti… sono ridotti a una cosa che serve per costruire colui che dovrà nascere, visto come un mero prodotto, e non come un dono che l’amore dei coniugi e la natura danno all’uomo e alla donna”. Sempre Ronco afferma anche che “mediante la tecnologia la generazione diventa oggetto di un atto di potere scientistico, siccome priva del significato di dono reciproco tra i coniugi… e ridotto a processo di selezione e di appropriazione”.

In verità, nel contesto da cui sono tratte, certe argomentazioni sono svolte con specifico riferimento alla tecnica eterologa di procreazione medicalmente assistita. Non sembra però che la situazione sia diversa, almeno in linea di principio, anche in caso di ricorso alla tecnica omologa.

L’illustre Autore precisa in verità che il significato autentico dell’umana generazione sarebbe “ancora presente, sia pure in modo incompleto, nella fivet omologa”. È certamente così. Ma l’indicata incompletezza di significato personalistico della generazione umana è già un indice sufficiente di un pregiudizio al valore sovrautilitaristico della persona. Si tratta certamente di un pregiudizio meno grave di quello che si realizza col ricorso alla tecnica eterologa. Ma è comunque un pregiudizio.

Non sembra davvero persuasiva, in altri termini, l’idea di alcuni, secondo cui la tecnica omologa, a differenza di quella eterologa, non altererebbe la natura del fenomeno procreativo, in quanto geneticamente il generato è pur sempre figlio dei due componenti della coppia che ha fatto ricorso alla tecnica (Marco Olivetti).

In realtà, l’idea che il diritto fondamentale alla procreazione possa estendersi anche alla fecondazione artificiale, e dunque anche ad ipotesi in cui la generazione umana si dà a prescindere dall’esercizio della sessualità, sembra comunque sufficiente a determinare una strumentalizzazione del generato. E ciò quale che sia la tecnica fecondativa – omologa o eterologa – cui si sia fatto ricorso.

Emerge comunque una logica di potere sulla vita: una logica che non sembra affatto coerente con la garanzia del valore sovrautilitaristico della persona. E perciò neppure con la garanzia della pari dignità di tutti. Bisogna piuttosto riconoscere che in una prospettiva autenticamente realistica – e non ideologica – una simile garanzia può darsi davvero solo nella generazione attraverso l’esercizio della sessualità.

È dunque in questi termini che dovrebbe essere correttamente compreso il paradigma costituzionale della genitorialità naturale. E che dovrebbe quindi essere affermato il suo profondo radicamento nella norma personalista.

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Almeno a prima vista l’implicazione tra il paradigma istituzionale del matrimonio e la garanzia del valore sovrautilitaristico della persona è forse meno facile da cogliere. Ma sussiste anch’essa. Per rendersene conto bisogna muovere dalla considerazione che, al fine di garantire la dignità del nascere dell’uomo, il paradigma naturalistico della filiazione è una condizione necessaria, ma non ancora sufficiente.

Il rischio che i generanti si relazionino al generato secondo una logica strumentale è comunque presente anche nella generazione attraverso l’esercizio della sessualità. La logica del dono non può davvero “trasfigurare” il rapporto di dipendenza tra i generanti e il generato fintanto che quel rapporto continui ad atteggiarsi come rapporto di derivazione diretta, privo di qualsiasi mediazione.

A ben vedere, però, è appunto attraverso il “per sempre” del matrimonio – e dunque per il tramite della forma istituzionale del rapporto coniugale – che una mediazione diviene possibile. Solo la peculiare forma giuridica dello status, infatti, nel dischiudere la possibilità di una donazione di sé in totalità personale, e dunque di una relazione di piena reciprocità tra i sessi, dà vita a un’autentica comunione di persone: un nuovo ente – la “società naturale” di cui parla la Costituzione – capace di mediare il rapporto di dipendenza tra i generanti e il generato, ponendo così tutti su uno stesso piano.

È significativo, del resto, che anche Ronco, quando individua il significato autentico della generazione umana, parla di un dono reciproco dei coniugi. Non parla genericamente dell’uomo e della donna che generano attraverso l’esercizio della sessualità. L’uomo e la donna sono qualificati come coniugi. La terminologia adoperata non è approssimativa. Solo nell’atto coniugale, infatti, proprio in virtù del rapporto di status che intercorre tra il marito e la moglie, si danno le premesse affinché la generazione umana possa essere davvero rispettosa delle esigenze della norma personalista.

Si chiarisce così anche la ragion d’essere del modello istituzionale del matrimonio. E dei caratteri che lo contraddistinguono, tra i quali anche la diversità di sesso dei coniugi.

Nella prospettiva indicata, infatti, il vincolo coniugale non serve semplicemente a sottrarre il rapporto di coppia a logiche strumentali. Se così fosse, venendo in considerazione un fine che riguarda unicamente la sfera della moralità individuale, il matrimonio dovrebbe rimanere estraneo ad un ambito di regolazione propriamente giuridico.

Il dato rilevante per l’ordinamento, in quanto pertinente al bonum externum, è piuttosto che il matrimonio coopera con la genitorialità naturale al fine di preservare il significato personalistico della generazione umana. È per questo che l’unione stabile dell’uomo e della donna interest rei publicae.

Il matrimonio, infatti, in quanto dà vita a uno status, e dunque proprio perché è istituzione (Andrea Nicolussi, Andrea Renda), società “naturale” e non artificiale, consente la formazione di un contesto di vita comunitaria, dal quale, insieme alla dipendenza originaria, è bandita, almeno in potenza, ogni altra forma di dipendenza: un contesto di vita nel quale e a partire dal quale la realizzazione di sé nell’esistere e nell’agire insieme con gli altri può cessare di essere una prospettiva utopistica ed aspirare a divenire una possibilità concreta.

Ecco perché, come il paradigma naturalistico della filiazione, neppure il paradigma istituzionale del matrimonio – l’unione stabile dell’uomo e della donna – può esser considerato una contingenza storica, semplice espressione delle tradizioni di un popolo. In quel modello c’è molto di più. Anche per il matrimonio ciò che rileva è il suo essere garanzia essenziale di credibilità di un edificio costituzionale che riconosce nella norma personalista la sua “pietra angolare”. E perciò anche una condizione imprescindibile della sua realizzazione.

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È chiaro a questo punto quale sia la reale posta in gioco nelle trasformazioni in atto del diritto di famiglia: insieme al paradigma naturalistico della filiazione e al paradigma istituzionale del matrimonio ad essere messa in discussione è la stessa dignità del nascere dell’uomo. E perciò un intero progetto sociale volto a promuovere un modello di relazioni umane che escluda ogni logica strumentale e che realizzi davvero l’imperativo kantiano di trattare l’umanità “sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”.

Si pone a questo punto l’ulteriore problema di come, nel nostro mondo dinamico e secolare e di fronte all’imporsi di prassi sociali radicalmente individualiste, si possa restituire credibilità ad un simile progetto sociale, che poi non è altro che l’originario progetto costituzionale. Non si tratta infatti solo di norme né della loro interpretazione. Qui si apre piuttosto lo spazio per un’elaborazione culturale di respiro assai ampio chiamata a dar vita ad una rinnovata coscienza sociale e politica.

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Diritto di famiglia  e matrimonio. Per approfondire:

L’“onda lunga” della Rivoluzione francese nel diritto di famiglia italiano