Chiesa e crisi finanziaria, il monito della dottrina sociale

Quadragesimo_coverVita e Pensiero n.6-novembre-dicembre 2008

La dottrina sociale cattolica spesso anticipa temi cruciali: ecco come alcune encicliche già affrontarono la questione di rischi e limiti del potere economico e finanziario, ponendo in eviden­za la centralità concreta e imprescindibile del lavoro umano

di Simona Beretta *

E’ sempre un’operazione interessante ripercorrere i documenti del Magistero sociale. Scritti in un particolare momento, parlano delle «cose nuove» di quel tempo, dei loro pericoli e delle loro opportunità.Letti a distanza di decenni, si possono mettere alla prova per verificare se e come e vero che la dottrina sociale è davvero uno scrigno da cui  trarre «cose nuove e cose antiche» (enciclica Centesimus Annus, 3), capaci di illuminare le radici e le prospettive delle «cose nuove» di oggi.

In questo momento di grave crisi finanziaria, vorrei rivisitare un documento del Magistero che parla di finanza. Lo farò nel modo che ritengo più efficace: ripresentando i testi, letteralmente; chissà che mi riesca di sfatare il luogo comune che la dottrina sociale non sa parlare di finanza e di globalizzazione.

Siamo nel 1931. Il mondo sta cominciando a rendersi conto delle conseguenze sistemiche reali di quella che, a posteriori, avremmo chiamato la “Grande Crisi” (solo nel 1933 Franklin Delano Roosevelt lancerà il New Deal). Ricorre anche il quarantesimo anniversario della prima enciclica sociale, la Rerum Novarum, che nel 1891 era intervenuta sulla questione operaia sostenendo la priorità del lavoro rispetto al capitale e il principio di collaborazione, contro la lotta di classe.

In quei quarantenni l’economia e la società erano profondamente cambiate: i processi di industrializzazione si erano accompagnati al rafforzamento del potere dei gruppi finanziari, nazionali e internazionali; lo stesso “capitale produttivo” – espressione del potere dei capitalisti di quarant’anni prima – era ormai uno strumento concentrato nelle mani dei proprietari del “capitale finanziano”, forma del potere emergente.

Così, dunque, dalla Quadragesima Anno pubblicata in quel 1931 leggiamo la ricognizione della situazione: «Ciò che ferisce gli occhi è che ai nostri tempi non vi è solo concentrazione della ricchezza, ma l’accumularsi altresì di una potenza enorme, di una dispotica padronanza dell’economia in mano di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento» (105).

Proprio la concentrazione del potere di mercato finisce per distruggere il mercato stesso: «La libera concorrenza cioè si è da se stessa distrutta; alla libertà del mercato è sottentrata la egemonia economica […] l’internazionalismo bancario o imperialismo internazionale del denaro, per cui la patria è dove si sta bene» (109).

L’enciclica registra dunque un evidente problema; il “libero” mercato tende ad autodistruggersi (e la patria non fa una fine migliore…). Come mai? Dove sta la radice della contraddizione? L’enciclica risponde con tre passaggi, molto interessanti, sulle dimensioni economiche, giuridiche e culturali della crisi.

Ecco il primo passaggio: «Poiché l’instabilità della vita economica, e specialmente del suo organismo, richiede uno sforzo sommo e continuo di quanti vi si applicano, alcuni vi hanno indurito la coscienza a tal segno che si danno a credere lecito l’aumentare i guadagni in qualsiasi modo […]. I facili guadagni, che l’anarchia del mercato apre a tutti, allettano moltissimi allo scambio e alla vendita, e costoro unicamente agognando di fare guadagni pronti e con minima fatica, con la sfrenata speculazione fanno salire e abbassare i prezzi secondo il capriccio e l’avidità loro, con tanta frequenza, che mandano fallite tutte le sagge previsioni dei produttori» (132).

Ossia: quando si offusca negli operatori la consapevolezza della natura e del significato del fare finanza, quando l’orizzonte del loro lavoro quotidiano si appiattisce sull’obiettivo dei «facili guadagni» che si ottengono dallo scambiare titoli traendo profitto dalla volatilità dei prezzi delle attività, la finanza smette di perseguire il suo scopo – essere il ponte fra risparmi e investimenti – e, conseguentemente, si auto-condanna al fallimento nel medio e lungo periodo

I profitti finanziari di breve periodo vengono, infatti, dalla gestione dell’instabilità (più ce n’è, più si fanno affari); ma questa instabilità danneggia «le sagge previsioni dei produttori» ostacolando esattamente la realizzazione di quei profitti necessari a remunerare adeguatamente l’attività finanziaria “vera”.

La finanza è destinata al fallimento se non ha un “senso”, se gli uomini che ci lavorano non puntano nella direzione di avanzare il bene comune di chi presta, di chi riceve e di chi lavora. Solo prestando a chi ha buone idee imprenditoriali, infatti, si creano occasioni di lavoro per tutti – incluso chi fa finanza

II secondo passaggio: «Le disposizioni giuridiche poi, ordinate a favorire la cooperazione dei capitali, mentre dividono la responsabilità e restringono il rischio del negoziare, hanno dato ansa alla più biasimevole licenza; […] e sotto la coperta difesa di una società che chiamano anonima, si commettono le peggiori ingiustizie e frodi, e i dirigenti di queste associazioni economiche, dimentichi dei loro impegni, tradiscono non rare volte i diritti di quelli di cui avevano preso ad amministrare i risparmi» (132). Ossia: anche le innovazioni giuridiche più “intelligenti”, ordinate al miglior funzionamento del mercato, possono ritorcersi contro il mercato stesso.

L’esempio dell’enciclica sono le società per azioni, che consentono la partecipazione diffusa alla proprietà d’impresa limitando il rischio individuale, ma concentrano il potere decisionale nelle mani di pochi. Oggi potremmo riferirci all’utilizzo dei contratti derivati, elemento dominante della finanza globale, che consentono a taluno di assicurarsi contro il rischio ma si prestano a costruire ardite piramidi finanziarie virtuali.

Queste innovazioni, piegate agli scopi di una coscienza indurita dalla sete di profitti e dalla brama di potere, si trasformano facilmente in “strutture di peccato”; oggi come allora, i loro effetti negativi si ripercuotono su chi non ha potere, «quelli di cui avevano preso ad amministrare i risparmi».

Terzo, un passaggio sulla dimensione culturale della crisi: «Avendo il nuovo ordinamento economico cominciato appunto quando le massime del razionalismo erano penetrate in molti e vi avevano messo radici, ne nacque in breve una scienza economica separata dalla legge morale; e per conseguenza alle passioni umane si lasciò libero il freno. Quindi avvenne che in molto maggior numero di prima furono quelli che non si diedero più pensiero di altro che di accrescere ad i ogni costo la loro fortuna […].

I primi poi che si misero per questa via larga che conduce alla perdizione (cfr. Mat, 7,13), trovarono molti imitatori della loro iniquità sia per l’esempio della loro appariscente riuscita, sia per il fasto insolito delle loro ricchezze, sia per il deridere che fecero, quasi vittima di scrupoli insulsi, la coscienza altrui, sia infine schiacciando i loro competitori più timorosi» (133).

Ossia: la «iniquità» nei comportamenti si origina nella sfera della conoscenza. Il «razionalismo» non è sufficiente a rendere ragione della realtà economica, che non è un grande meccanismo prevedibile sulla base delle sue «leggi», ma uno spazio di relazioni e di legami creato dal lavoro umano, nella concretezza del tempo e dell’incertezza; relazioni di conflitto o legami di collaborazione, che creano istituzioni di giustizia o strutture di peccato. Solo «allargando la ragione» ci attrezziamo a capire la realtà, inclusa la crisi presente, e a tentare delle soluzioni.

Queste ultime non appartengono solo alla sfera “tecnica” delle competenze economiche, politiche e giuridiche; ma onestamente non mi accontenterei di invocare “più etica”: il raffinatissimo codice etico Enron non l’ha salvata dallo sfacelo; molte banche che offrono prodotti nel segmento della “finanza erica” sono le stesse che, finché è durata la fase di euforia, hanno rincorso i profitti che venivano dai segmenti innovativi della finanza (ora li chiamiamo “tossici”).

Per la soluzione della crisi, naturalmente, «la Chiesa non ha modelli da proporre» (Centesimus Annus, 43), ma ha molto da dire. Due cose mi colpiscono: primo, che le encicliche sociali prendano di petto la questione del potere (economico, finanziario, culturale), anche utilizzando espressioni forti, come quelle sopra riportate. Secondo, che pongano sempre in evidenza la centralità concreta e umile del lavoro umano.

La Rerum Novarum, nel 1891, difende il lavoro salariato, schiacciato dal potere di chi detiene la proprietà dei mezzi fisici di produzione (il “capitale”, vecchia maniera). La Quadragesima Anno, nel 1931, difende «le sagge previsioni dei produttori» dal potere di un mercato finanziario internazionale autoreferenziale – e quindi intrinsecamente instabile.

Più recentemente, la Centesimus Annus, nel 1991, parla ancora di lotta: «contro un sistema economico, inteso come metodo che assicura l’assoluta prevalenza del capitale, del possesso degli strumenti dì produzione e della terra rispetto alla libera soggettività del lavoro dell’uomo» (35), e mette in evidenza la forza dirompente della centralità del lavoro sulle strutture di potere: l’«integrale sviluppo della persona umana nel lavoro non contraddice, ma piuttosto favorisce la maggiore produttività ed efficacia del lavoro stesso, anche se ciò può indebolire assetti di potere consolidati» (43).

Cosa può voler dire nell’attuale crisi finanziaria, che è certamente la crisi di un sistema di potere economico, politico e culturale, la centralità dell’integrale sviluppo della persona, del lavoro umano nel suo pieno significato?

Pensiamo al lavoro di chi fa intermediazione finanziaria, nella sua forma più semplice: raccoglie risparmi che devono essere prontamente disponibili ai depositanti che li ritirino, da un lato; dall’altro, individua impieghi del risparmio stesso “scommettendo” sulla capacità del prenditore di realizzare la sua opera, crescere, restituire.

Quando si “scommette” scegliendo accuratamente il partner, ciascuno confida nell’abilità dell’altro e insieme stipulano un patto pensato per resistere al tempo e all’incertezza.

Questa è una finanza “generativa”, aperta al futuro: sostiene imprese, opere, occasioni di lavoro; fa anche profitti, forse non mirabolanti, ma non virtuali. Tuttavia, nel mondo della finanza si possono anche prendere scorciatoie, prestando e prendendo a prestito dentro relazioni anonime, “di mercato”, appiattite sul presente, con controparti che si intende abbandonare velocemente quando il vento cambia direzione.

La tentazione della scorciatoia è forte, perché sembra permettere di fare i propri affari in tutta libertà, senza creare legami stabili con nessuno: una finanza “liquida” per una società “liquida”… «Sarebbe fatale, se la cultura […] di oggi potesse comprendere la libertà ormai solo come la mancanza totale di legami», si legge nel discorso di Benedetto XVI al College des Bernardins. Almeno nel mercato finanziario, abbiamo la prova provata che la “libertà” di comprare e vendere rischi finanziari su un mercato anonimo che non chiede l’impegno dei legami, alla lunga, si è davvero rivelata fatale.

(*) Simona Beretta è professore ordinario presso la Facoltà Scienze politiche dell’Università Cattolica dei Sacro Cuore, dove insegna Politiche economiche internazionali ed Economia applicata alla finanza per lo sviluppo. Coordina il Master in Cooperazione Internazionale per lo Sviluppo e partecipa al Master International Relations Management presso l’Alta Scuola di Economia e Relazioni internazionali (Aseri). E’ membro del comitato direttivo del Centro di Ateneo per la dottrina sociale della Chiesa