Botte alla moglie? Ok se è islamica. E la chiamano Europa

botte islamichedal sito SVIPOP Sviluppo e popolazione aprile 2007

In Germania, rifiutato il divorzio a una donna marocchina perché le violenze del marito sono giustificate dalla cultura islamica. E’ un grave segnale del processo di tribalizzazione verso cui si è avviata l’Europa. Che ignora anche la possibile evoluzione dell’islam: negli stessi giorni in Niger i capi tradizionali chiedevano al locale governo di vietare i matrimoni precoci delle bambine.

di Anna Bono

Due notizie di segno opposto meritano un commento.

Nei giorni scorsi una donna islamica di origine marocchina, ma nata in Germania e residente a Francoforte, ha visto respinta la propria richiesta di una procedura d’urgenza di divorzio dal marito violento, anch’egli islamico e marocchino, che difatti lo scorso anno era stato diffidato dall’avvicinarsi a lei proprio a causa del suo comportamento aggressivo.

La motivazione del giudice è stata che, essendo di fede islamica, la donna al momento del matrimonio non poteva ignorare che la sua religione ammette l’uso di punizioni fisiche da parte dei capifamiglia: “diritto di disciplina” è definito nella sentenza.

La decisione del magistrato tedesco, che tra l’altro è una donna, sta suscitando polemiche e discussioni, ma non meraviglia gli attenti osservatori della realtà europea perché è soltanto uno dei tanti casi di relativizzazione dei diritti umani universali che si verificano ormai da anni in Europa dove nelle aule dei tribunali sempre più di frequente i giudici si trovano a dover amministrare la giustizia in base a valori e leggi che le parti in causa non condividono e spesso neanche comprendono.

Si sta in sostanza realizzando un processo di tribalizzazione della società europea che in altri contesti verrebbe definito apartheid, sviluppo separato su base etnica e religiosa. In sostanza questo porta a tollerare le violenze e le limitazioni alla libertà individuale qualora abbiano carattere di comportamento istituzionalizzato vale a dire quando, negli ambienti culturali in cui si verificano, non rientrino nella categoria degli atti illeciti, arbitrari, devianti, sanzionati dalla legge e universalmente riprovati, ai quali indulgono soltanto alcune incontrollate personalità violente e irresponsabili, ma siano invece comportamenti non soltanto ammessi e tollerati, ma approvati e in certi casi prescritti.

Come le punizioni fisiche, che rappresentano un dovere per un buon capofamiglia non solo nella tradizione islamica, sono istituzioni nella tradizione di centinaia di etnie africane e asiatiche i matrimoni imposti, il velo, la segregazione domestica, più nota come harem, i matrimoni infantili, il prezzo della sposa, il levirato, che costringe le vedove a sposare i fratelli dei mariti defunti, il ripudio.

Negli stessi giorni in cui in Germania veniva pronunciata questa sentenza, i capi tradizionali del Niger, uno degli stati africani a maggioranza islamica, hanno chiesto al loro governo di vietare per legge i matrimoni precoci delle bambine. Si tratta di un’iniziativa dal valore culturale straordinario dal momento che quella nigerina è una società molto tradizionale e che la componente fondamentalista della religione islamica difende l’istituzione del matrimonio infantile.

Proprio l’attaccamento alle tradizioni, inclusa quella che costringe bambine anche di età inferiore a 10 anni ad abbandonare la scuola e ad affrontare i rischi di gravidanze e parti precoci, ha fatto sì che finora il governo nigerino non ratificasse il Protocollo di Maputo, la carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli sottoscritta nel 2003, e il successivo Protocollo di Maputo sui diritti delle donne in Africa poiché in materia di successione, diritto di famiglia e condizione femminile contrastano con la legge islamica in vigore in Niger.

La decisione dei capi tradizionali, personaggi autorevoli e accreditati, giunge dunque a sostenere una battaglia per i diritti umani che finora ha ottenuto pochissimi risultati, come dimostra lo stato di povertà del Niger che nell’Indice dello Sviluppo Umano pubblicato nel Dossier 2006 sullo stato del mondo dell’Agenzia per lo Sviluppo delle Nazioni Unite, detiene il poco invidiabile primato di paese a più basso sviluppo umano del mondo.