Amazzoni di Wakanda, favoletta woke

Abstract: Amazzoni di Wakanda, favoletta woke che travisa la realtà e falsifica i fatti. Non erano infatti le amazzoni guerriere della Marvel a proteggere gli schiavi  bensì gli Oyo, che si erano posti come protettori delle tribù angariate dal Dahomey.  L’esatto contrario di quanto si racconta nel film. Ecco la vera storia

Il Timone n-230 Luglio-Agosto 2023

Le vere amazzoni di Wakanda

In due film di recente uscita, il nome dell’ideologia wok si esaltano le guerriere d’africa. Anche a costo di travisare o capovolgere del tutto la storicità dei fatti.

di Rino Cammilleri

La Marvel, casa americana di fumetti, dopo l’Uomo Ragno creò via via una serie di super eroi tale da coprire ogni categoria e provenienza geografica. Per i neri c’era Black Panther, cioè T’Challa, re dell’africano Wakanda. Poi l’afroamericano venne di moda e al cinema non parve vero. Da qui Wakanda forever, film di soli neri in cui il Wakanda è un regno ricco e felice, ipertecnologico e per giunta governato da una donna. Che si vuole di più? La ciliegina: a succedere a Black Panther come supereroe è sua sorella, una donna. Ovviamente, più che fantasia cinematografica è un sogno woke: se in Africa ci fosse davvero un posto così, sarebbe già stato subissato di migranti. Ma nel film il woke strafà: il nemico, poi alleato, e Namor, il Sub-Mariner, vecchio personaggio della Marvel qui diventato il re dei Maya i quali, per sfuggire ai genocidi spagnoli, si sono trasformati in uomini-pesce. State pensando ai sacrifici umani in cui gli imperi precolombiani erano particolarmente versati? Bah, nel film i cattivi sono gli spagnoli e la loro “cultura”. Infatti, Namor da bambino si guadagna la corona ammazzando un frate. Ma Hollywood, mai sazio di woke, ne ha sfornato un altro, di film, eppure “migliore”, perché se Wakanda è fantascienza The Woman King ha pretese storiche.

Politicamente corretto al massimo grado

Questo film, successivo di pochi mesi (sono entrambi del 2022), si svolge pure esso in Africa e celebra l’eroismo delle Mino, donne combattenti del Dahomey, dette anche “amazzoni del Benin”. Ovviamente, nel film queste combattono bisogna mettere sì, per il re (del quale erano la guardia personale), ma anche per l’abolizione della schiavitù. Contro, perciò, i potenti vicini Oyo dell’attuale Nigeria. Ripetiamo: è puro woke (cioè politicamente corretto al massimo grado), perché le cose stavano esattamente al contrario. Il Dahomey era un pezzo del Benin che era riuscito a ritagliarsi una fetta di costa del Golfo di Guinea a ridosso del Togo. Capitale Abomey, oggi nel Benin, dove una statua ricorda e vanta le amazzoni di cui parliamo. 

Ravanando in internet sono addivenuto e ricostruire quanto segue: Il Dahomey dalla metà del secolo XVII era riuscito, a forza di incursioni e saccheggi, a danno dei vicini a porsi come unico interlocutore dei portoghesi brasiliani, ai quali vendeva gli schiavi frutto delle sue scorrerie. In breve divenne il principale attore della tratta nell’Africa occidentale. Il nemico storico erano gli Oyo, dai quali si era scisso. E gli Oyo, perciò, si erano posti come protettori delle tribù angariate dal Dahomey. Cioè il contrario della narrazione del film. Verso il 1723 gli Oyo prevalsero, ma un secolo dopo il Dahomey si svincolò (il film è ambientato in questo periodo). Ora, tutta la sua economia era basata sulla vendita degli schiavi, cosa che lo rendeva ricchissimo. Tanto da poter comprare dagli europei fucili e cannoni.

Fanatiche e intrattabili

E’ qui che, a corto di maschi (a furia di venderli agli schiavisti), vengono organizzate le famose amazzoni, un corpo sceltissimo di circa duemila donne (ma c’è chi dice seimila) reclutate tra fanatiche, mogli o figlie ritenute intrattabili e cedute dai padri o dai mariti, prigioniere chiamate a scegliere tra la morte e l’arruolamento. L’allenamento durissimo le rendeva vere macchine belliche spietate e insensibili al dolore. Alla spartana, dovevano anche affrontare una settimana da sole nella savana armate soltanto di un macete. Ma diversamente dal film, usavano fucili e pure cannoni.

Attorno al 1830 le tribù particolarmente vittime delle incursioni del Dahomey a caccia di schiavi chiesero aiuto agli inglesi, che nel 1807 avevano abolito la tratta e si erano eretti a paladini dell’antischiavismo con diritto di ispezione sulle navi che solcavano l’Atlantico. Il movimento capeggiato dal deputato e pastore anglicano William Wilberforce inizialmente aveva trovato opposizione perché anche nelle colonie britanniche c’erano schiavi. Mappa poi prevalse l’abolizionismo, ormai diffusosi nell’opinione pubblica britannica. Del resto, un impero commerciale e marittimo quale quello inglese poteva fare a meno del lavoro schiavile. E l’abolizionismo tornava utile per mettere i bastoni tra le ruote alle potenze concorrenti.

Una delle quali era il Brasile portoghese così, gli inglesi volentieri intervennero, attuando, come loro costume, un blocco navale davanti alla costa del Dahomey. Il re Ghezo, non avendo navi, dovette scendere in trattative. Fini che per alcuni decenni il Dahomey fu costretto a campare di esportazioni ti olio di colza. Cioè, a impoverirsi drasticamente, perché la tratta rendeva infinitamente di più.

L’intervento dei francesi

Naturalmente, neanche gli inglesi potevano tenere un blocco navale in eterno e verso la fine del secolo lentamente le cose tornarono come prima. Ma erano cambiati anche gli equilibri europei e questa volta le tribù oggetto dei continui attacchi del Dahomei si rivolsero alla Francia per scrollarsi di dosso l’ingombrante padrone-predone. I francesi non si fecero pregare, anche perché era per loro un’ottima occasione di mettere piede in quella parte dell’Africa. Nel 1892 un contingente francese affiancato da alcune centinaia di coloniali senegalesi sbarco nel Dahomey e affrontò l’esercito, di gran lunga numericamente superiore, del re Behanzin. Circa 1.200 uomini contro 15.000.

Ma l’armamento moderno e la superiore disciplina degli europei ebbero la meglio. Non si conosce il numero di amazzoni morte in quella battaglia, ma si sa che caddero come mosche. Nel 1894 il Dahomey non esisteva più, e nemmeno le sue amazzoni il territorio divenne protettorato francese. La storia delle origini delle “Mino del Dahomei” o “Amazzoni del Benin” è avvolta nella leggenda.

Pare che nei primi decenni del XVII secolo siano state create da Tasi Hangbé, figlia del re fondatore del Dahomey. Aveva un fratello gemello cui sarebbe spettata la successione al trono. Ma questi morì, forse in battaglia. Lei indossò i suoi abiti e, così travestita, assunse il comando dell’esercito. Ovviamente aspirava al trono, ma fu scoperta e sostituita da un terzo fratello. Il suo nome venne cancellato dagli elenchi ufficiali dei regnanti. Fu lei a creare il corpo delle amazzoni quali guardie reali. Poiché si dimostrarono efficienti in guerra quanto e forse più degli uomini, vennero mantenute. Erano consacrate alla lotta e al sacrificio supremo per la salvaguardia del re. Non potevano sposarsi, né intrattenersi con uomini. Erano le “vergini del re”. L’ultima di loro si spense all’età di cent’anni del 1979.