A lezione da Paolo

 Avvenire, 27 giugno 2008

Maestro del dialogo autentico perchè non celava le differenze

di Edoardo Castagna

Accanto all’intelligenza, alla cultura e allo slancio missionario, nel cittadino Gaio Giulio Paolo doveva esserci anche un’altra dote: la simpatia. «Quello che mi sorprende, nella vita di Paolo, è la sua straordinaria capacità di legarsi rapidamente alle persone che si trovava accanto. Amici o nemici, umili o potenti».

La storica Marta Sordi – docente emerita di Storia greca e Storia romana presso l’Università Cattolica di Milano, massima esperta dell’epoca dell’Apostolo delle genti – descrive Paolo nella sua concretezza, lo riporta sulle strade polverose dell’Anatolia, dove la sua missione mosse i primi, decisivi passi.

Una lettura umana che, alla vigilia dell’apertura dell’Anno Paolino, dona ancor maggiore risalto all’originalità e all’attualità della sua opera, capace ancora oggi di indicare strade concrete da percorrere nel confronto tra i cristiani e tutti gli uomini.

«La sua capacità di stringete amicizia era davvero eccezionale. Lo si vede fin dall’incontro con il proconsole di Cipro, Sergio Paolo, che ebbe un ruolo fondamentale nel determinare il cammino della sua predicazione. Il legame con l’apostolo fu talmente stretto che Paolo lasciò il suo vecchio cognomen, Saul, per adottare quello dell’amico. Era un uomo dalle doti umane straordinarie, che si accompagnavano a quelle intellettuali, allo spessore teologico».

In effetti, l’importanza del suo pensiero e della sua opera è tale che talvolta si sente indicare in Paolo, e non in Gesù, il vero fondatore del cristianesimo…

«Sì, tra i non cristiani ricorre la tesi che Paolo sarebbe andato al di là dei comandi di Cristo, annunciando il Vangelo al, mondo intero e non solo agli Ebrei, fondando concretamente il cristianesimo. Questo non è vero. Non è vero storicamente, perché era stato Pietro a convenire per primo un pagano. E non è vero nemmeno teologicamente, perché in fondo Paolo non fece che ripetere quello che aveva fatto Gesù Cristo stesso. Inizialmente predicava solo agli Ebrei, nelle sinagoghe; fu Sergio Paolo a “costringerlo”, in un certo senso, a predicare il Vangelo tra i pagani, consigliandogli di andare ad Antiochia di Pisidia e da lì iniziare la predicazione nell’Asia interna».

L’itinerario paolino determinò in qualche modo anche il suo modo di rivolgersi al «pubblico»?

«In tutta la sua prima missione, da Antiochia a Listri a Iconio, percorse la via Sebaste, costruita da Augusto e lungo la quale si allineavano colonie romane dalla popolazione composita: Greci, Romani, Ebrei, gli indigeni Licaoni e Galati. Paolo adottò lo stesso criterio che inizialmente aveva seguito Gesù: prima predicava agli ebrei, ottenendo la conversione di alcuni e il rifiuto di altri; poi si rivolgeva ai pagani».

In che modo affrontava il dialogo con quanti ancora non conoscevano il Vangelo?

«Sceglieva l’impostazione più adatta al suo uditorio. Quando predicava agli Ebrei nelle sinagoghe, partiva dalla storia d’Israele, poi richiamava i profeti e infine giungeva a Cristo-Messia, compimento delle profezie attraverso la resurrezione. Con i pagani, sia quelli un po’ rozzi dell’Asia interna sia quelli colti e raffinati di Atene, Corinto ed Efeso, adottava invece un’altra tecnica. L’impostazione rimaneva uguale, cambiavano i riferimenti: qui muoveva dal Dio creatore del mondo, comprensibile anche dai pagani politeisti, dall’ordine naturale delle stagioni e degli spazi, e quindi approdava al Dio benefattore dell’ umanità, che si è rivelato in Cristo. Anche qui, con sfumature: mentre nel “discorso dell’Areopago” ateniese citava i filosofi stoici, in Licaonia puntava su una più diretta osservazione della verità naturale».

Un’altra lezione di dialogo, di capacità di confrontarsi con interlocutori differenti?

«Certamente. E infatti anche a Roma fu in stretti rapporti con gli ambienti stoici, che nell’Urbe erano attenti soprattutto al versante morale dello stoicismo: la gravitas, l’autocontrollo, la virtù erano tutti valori compatibili con l’antica tradizione romana. Anche per questo ritengo probabile che l’epistolario tra Seneca e Paolo sia autentico».

Sul quale, tuttavia, permangono molti dubbi…

«In effetti, anch’io inizialmente ero scettica. Poi però mi sono resa conto che sarebbe del tutto verosimile. Scartate due lettere, sicuramente apocrife, le dodici rimanenti coincidono come datazione -dal 58 al 62 – e come contenuti. Seneca restò un pagano, ma tra lui e Paolo emerge una grande stima reciproca; il filosofo romano mostra di conoscere e apprezzare gli scritti paolini, e in effetti durante la prima prigionia romana, quando Seneca governava l’impero insieme ad Afranio Burro, l’apostolo godette di grande libertà, ricevendo e predicando nonostante avesse sempre un pretoriano accanto a sé.

Ci sono altri dettagli, nell’epistolario, che fanno propendere per l’autenticità – certe differenze stilistiche, certe reticenze spiegabili soltanto se si considerano le lettere composte proprio in quegli anni-, ma ciò che interessa sottolineare è come in effetti Paolo avesse saputo suscitare la simpatia di un autore pagano, che i cristiani sentivano vicino dal punto di vista della moralità».

Qual era quindi l’aspetto più «moderno» dell’approccio paolino?

«Era un grande comunicatore, una persona di estrema duttilità e capace di accostarsi a tutti i ceti sociali. Sapeva parlare ai semplici, e sapeva parlare ai potenti. E non solo: sapeva stringere amicizie, anche con le persone a prima vista più distanti: i magistrati greci di Efeso, il proconsole romano di Cipro, ma anche l’umile centurione che lo scortava a Roma, o il suo carceriere a Filippi».

Allora perché la sua predicazione era spesso accompagnata da conflitti?

«E vero: quando arriva Paolo, scoppia il contrasto. Qui c’è tutta la differenza del suo stile rispetto a Pietro, molto più cauto e prudente. Tra Pietro e Paolo non c’erano differenze teologiche; in questo andavano perfettamente d accordo, tante vero che Pietro, nella sua seconda lettera, ricorda “il nostro carissimo fratello Paolo”. Certo, poi mette in guardia i suoi interlocutori sulla sua finezza, sul suo essere così… complicato. Non c’è stato mai stato scontro teologico tra i due, ma solo una diversa tecnica pastorale».

Che cosa insegna a noi, oggi?

«A non fuggire lo scontro, a non temerlo. Ai nostri giorni sarebbe certamente tra quelli che, nel mezzo del confronto più ecumenico, decidono di affrontare i problemi, anche i più controversi. Con i pagani Paolo attacca, e converte; predicava perfino ai pretoriani che lo piantonavano: soldati scelti, coloro che accompagnavano l’imperatore in prima linea in battaglia! Insomma, ci insegna come va affrontato il dialogo: senza aver paura di mettere in evidenza i punti di divergenza, così da ottenere un’adesione convinta, o un rifiuto. È un dialogo in offensiva, insomma, non sulla difensiva. Oggi molti confondono il dialogo con un “calar le braghe” che deve arrivare a tutti i costi a un accordo, invece Paolo ci insegna una linea opposta: non nascondere niente, e affrontare apertamente la possibilità di un rifiuto».