L’uomo artefice della storia?

Fondazione Rui, Documenti di lavoro 68 – marzo 1998

21° Incontro universitario per studentesse.

Studiare… e poi progettare il futuro

Castelgandolfo, 23-31 luglio 1997

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Rino Cammilleri

Ritengo più appropriato aggiungere un punto interrogativo al titolo di questo mio intervento. Cercherò di dimostrare, infatti, che l’uomo prova ad essere artefice della sua storia, salvo poi finire – quasi invariabilmente – vittima di quella misteriosa legge che già Vico intuì e che in questo secolo Augusto Del Noce ripropose approfondendola e chiamò eterogenesi dei fini. Secondo tale legge ogni buona intenzione si rovescia nel suo contrario e il Sogno della Ragione finisce col generare Mostri (ho appositamente intitolato I mostri della ragione un mio saggio di qualche anno fa dedicato alle utopie).

L’utopia non è altro che il tentativo da parte dell’uomo (o meglio, di alcuni uomini, quelli che l’accademico russo Igor Safarevic chiama il piccolo popolo) di progettare il suo futuro in base a uno schema prestabilito, pensato a tavolino e apparentemente perfetto sulla carta. Tale progetto è razionale e, teoricamente almeno, non può non funzionare. Tuttavia gli intoppi, che quasi subito si presentano, stanno per così dire nel manico: prima di applicare il progetto, anzi ancora prima di discuterlo, si dovrebbe avere le idee chiare sul metodo e sull’oggetto, cioè su cosa si intenda per razionale e per uomo.

Qui sta infatti la radice di ogni fallimento di ogni utopia, la quale proprio in questo caso ritrova intero il suo etimo di cosa che non sta in nessun luogo. O, fuor di metafora, follia. Cioè l’esatto contrario di razionale.

È significativo che la famosa opera di Thomas More, Utopia, abbia visto la luce proprio agli albori della modernità, cioè nel secolo XVI. Per trovare una altra opera utopica, dobbiamo risalire a Platone e alla sua Repubblica. Il millennio medievale non sentì l’esigenza di descrivere una società migliore, e le eresie chiliastiche che ne punteggiarono i secoli non avevano pretese universali. L’unica grande eresia veramente di massa del Medioevo, il catarismo, era nient’altro che un’altra religione, concorrente e antagonista al cristianesimo. E non perseguiva mondi migliori, bensì l’annichilimento totale di quello presente.

L’opera di Thomas More, invece, fu quasi immediatamente seguita da altre. Anzi, possiamo dire che inaugurò un genere letterario. Pensiamo, tra le più famose, alla Città del Sole di Campanella e alla Nuova Atlantide di Bacone. Paradossalmente, proprio il battistrada, Thomas More, mai si sarebbe sognato, a differenza dei suoi epigoni, di applicare sul serio le idee espresse in Utopia.

Egli, com’è noto, finì martire e fu poi canonizzato dalla Chiesa (il che, tra parentesi, la dice lunga sul presunto oscurantismo della Chiesa controriformistica). Ma More era un umanista, fortemente legato a Erasmo da Rotterdam, la cui responsabilità nella rivolta protestante è testimoniata dallo stesso Lutero.

Se l’opera utopica più antica che conosciamo è la precristiana Repubblica di Platone, allora siamo tentati di dire che l’utopia è una insopprimibile tendenza dell’animo umano, tendenza nata con l’uomo e continuamente testimoniata da episodi che ci vedono protagonisti di tentativi utopici quando siamo al bar con gli amici e ci lamentiamo della cattiveria dei tempi.

Come Renzo all’Osteria della Luna Piena, almeno una volta nella vita ci sarà capitato, magari esasperati da un intoppo burocratico allo sportello del Comune, di ridisegnare il sociale secondo ragione: comandassimo noi, metteremmo, che so, i dentisti al muro, gli impiegati a zappare per tre mesi l’anno e i sindacalisti alla catena di montaggio per far loro vedere cosa vuol dire davvero lavorare.

Che si tratti comunque di una tendenza insopprimibile, naturale, lo si può vedere anche da questo: nell’area occidentale Platone non trovò praticamente nessuno disposto a dargli retta. Solo Sparta funzionava secondo le regole da lui vagheggiate e non per nulla Sparta era cordialmente detestata dai popoli circostanti.

Invece utopie più o meno realizzate possono essere rinvenute al di fuori dell’area europea, in particolare nell’America precolombiana degli imperi Inca e Azteco. Ciò spiega come poté un gruppo esiguo di spagnoli averne ragione: le popolazioni limitrofe nutrivano per gli Incas e gli Aztechi lo stesso sentimento che i loro omologhi greci nutrivano per gli spartani, moltiplicato per il numero dei sacrifici umani che erano costretti a subire. L’avvento dei conquistadores fece da detonatore a tale sentimento con le conseguenze che tutti conosciamo.

Gli Aztechi e gli Incas, infatti, avevano eretto degli imperi che oggi definiremmo totalitari. Essi sono oggi rimpianti da coloro che ammirano la ferrea organizzazione e le opere ciclopiche, anche se costoro, però, si guardano bene dall’ammirare la Germania nazista, che in opere ciclopiche o organizzazione non ebbe rivali.

Dunque, la tendenza utopica è naturale, almeno quanto possono esserlo i capricci e la propensione alla tirannia familiare in un bambino. Il bambino è educato a comportarsi civilmente, segno che la prepotenza totalizzante non viene giudicata civile. Eppure è proprio in tale modo che le utopie possono e cercano di inverarsi. Dovrebbe dedursene che la mente corra all’utopia quando vengono meno i freni della civiltà.

Almeno, di un certo tipo di civiltà. Sappiamo che è esistita una civiltà che non sentì mai il bisogno di sognare utopie: il millennio medioevale. Cercheremo di spiegare, dunque, come mai il Medioevo non avvertì la necessità di ideare – né tanto meno cercare di realizzare – alcuna utopia.

Innanzitutto va tento presente che il termine Medioevo fu inventato nel Rinascimento, epoca che fu di splendore solo per pochi privilegiati (artisti, intellettuali e letterati stipendiati da alcune ricche corti). Per gli altri, tutti gli altri, fu in realtà un’epoca di gravissima crisi sociale, politica, religiosa e anche economica. Quei privilegiati dissero di star vivendo un’epoca di ri-nascita.

Vi prego di osservare che non si tratta di resurrezione (questo accadde, in Italia, solo nel secolo scorso: il cosiddetto Risorgimento), bensì di una seconda nascita. Ciò implicava due cose: una, che si fosse già nati una volta; due, che per lungo tempo si fosse stati morti. Il periodo della lunga morte non meritò neppure un termine specifico, ma venne sprezzantemente liquidato come età di mezzo, Medioevo appunto. Ma di mezzo a cosa? In mezzo alle uniche due epoche in cui si era stati vivi: quella classica, cioè romana, e la presente (il Rinascimento).

Tuttavia se, provvisti di una macchina del tempo, potessimo andare a chiedere a un medioevale dove creda di star vivendo, questo ci risponderebbe inequivocabilmente: la Cristianità. Dunque i medioevali avevano coscienza di vivere un tempo in cui tutto era fondato sul – e permeato dal – Cristianesimo.

Perché, allora, gli abitanti della Cristianità, nemmeno i dotti, sentirono mai il bisogno di immaginare utopie? Eppure si trattò di un’epoca lunghissima (mille anni), un’epoca vivace, ricca di fermenti culturali, di avvenimenti, di cambiamenti.

Mi si dirà: c’era la Chiesa, che con mano ferrea teneva tutto e tutti sotto il suo giogo. In tal caso sarei costretto ad invitare l’interlocutore a spiegarmi la lunghissima lotta per le investiture, la Divina Commedia (nella quale i papi erano tranquillamente mandati all’Inferno), il Decamerone, lo schiaffo di Anagni, i re e gli imperatori scomunicati, la cattività avignonese, ecc.

Mi si dirà ancora che era un tempo di ignoranza, per cui nessuno era in grado di mettersi a scrivere utopie. Chiederei allora di spiegarmi, oltre la già citata Divina Commedia, la Summa Teologica di san Tommaso d’Aquino (la quale era un semplice manuale per studenti), le oltre cinquecento invenzioni di base senza le quali il mondo odierno non sarebbe quello che è, Marco Polo e Cristoforo Colombo, le cattedrali ecc. Mi si dirà infine che era un tempo di miseria, la quale non dava agio di concentrarsi su null’altro che la mera sopravvivenza. Domanderei, a quel punto, delle Repubbliche marinare, dei banchieri fiorentini (uno solo dei quali era in grado di giugulare economicamente interi regni), dei Comuni, delle leggi suntuarie contro lo sfarzo eccessivo ecc.

Sgombrato il campo dalle obiezioni dettate da scarsa informazione storica, non ci rimane che la nuda verità. Che è – come diceva Sherlock Holmes – ciò che resta dopo aver scartato tutte le opzioni implausibili. Evidentemente, dunque, ai medioevali la loro cristianità piaceva così com’era. Perfettibile, certo, e magari – come la Chiesa sua madre – semper reformanda, ma come questa all’interno di un orizzonte che va già bene di per sé.

A questo punto, non possiamo che andare a vedere come la società medioevale (meglio, cristiana) rispondeva ai requisiti del manico di cui abbiamo detto più sopra. Cioè: la concezione dell’uomo e la razionalità del metodo. Per far questo è bene, per prima cosa, dare una veloce occhiata alle utopie vere e proprie, dalla Repubblica platonica a quelli che già il citato Augusto Del Noce definì movimenti gnostici di massa, cioè le grandi utopie realizzate del nostro secolo: nazismo e comunismo.

Quel che balza subito agli occhi è la struttura di fondo delle utopie, sempre uguale e suscettibile di essere ricondotta ad alcuni tratti comuni, i quali, peraltro, si ripropongono con regolarità impressionante: il governo dei saggi, l’abolizione della proprietà privata e del matrimonio, l’educazione statuale dei figli.

Presenti già nell’opera di Platone, ritroviamo queste caratteristiche nei già citati imperi precolombiani, in alcune delle eresie chialistiche medievali e nel catarismo, più sfumate ma presenti in More, Bacone, Campanella e soprattutto ne La legge della libertà, opera del 1652 di Gerard Winstanley dedicata a Cromwell. E poi nell’Illuminismo.

Gli autodesignatosi illuministi (coloro che illuminano) si produssero in un vero tour de force utopico, che inondò particolarmente la Francia nel Settecento e le cui espressioni più agghiaccianti sono (paradossalmente ma non troppo) opera di religiosi, come Il vero sistema del benedettino Deschamps o il Testamento del parroco Meslier.

Sarebbe interessante poter approfondire il tema degli ecclesiastici che, dopo aver perso la fede (o almeno aver fortemente dubitato di alcuni suoi aspetti) non per questo perdono la vocazione a instaurare un mondo migliore.Si tenga presente, per esempio, che l’Inquisizione fu in realtà un affare interno alla Chiesa, dal momento che giudicò solo rarissimamente dei liberi pensatori laici: il suo daffare quotidiano era costituito da preti, monaci, frati (pensiamo ad Arnaldo da Brescia, Bernardino Ochino, Lutero, Campanella, Bruno).

Finalmente, con Voltaire, Rousseau, gli Enciclopedisti e le società di pensiero, l’utopia scese in piazza e passò alle vie di fatto. Da quel momento gli -ismi, hanno letteralmente sconvolto gli ultimi due secoli, e ancora non se ne vede la fine. Oggi le si chiamano ideologie, ma si tratta del nome che assumono le utopie quando prendono le armi e vogliono realizzarsi sul serio.

Gli -ismi, a ben guardare, presentano (pur con le debite varianti) le stesse caratteristiche che abbiamo individuato in tutte le utopie: governo dei saggi (o del Partito, o dei leniniani rivoluzionari di professione), abolizione della proprietà privata (o, quando non si può, almeno qualcosa che le si avvicini: la nazionalizzazione) e quella del matrimonio (oppure, visto che la cosa il più delle volte ripugna gli amministrati, anche qui qualcosa che si avvicini: divorzio il più possibile libero, libertà sessuale il più possibile assoluta), infine educazione statuale dei figli.

Ora, ciascun -ismo si fonda su un assioma, su un dato indimostrato ma storicamente assunto come vero. Detto assioma riguarda la natura dell’uomo. Essa è buona per natura (Rousseau), oppure intrinsecamente perversa (Lutero, Calvino); modificabile dalla selezione naturale (i filosofi darwinisti e i teorici della superiorità razziale) o dalla sovrastruttura (Marx); schiava dell’inconscio o del Super-Io (i filosofi freudiani), etc.

Prescelto l’assioma, l’utopia si regolerà di conseguenza e adotterà un sistema scelto fra questi due estremi: anarchia totale o tirannia asfissiante, angeli o bestie. In ogni caso, un Piccolo Popolo si autodesignerà illuminato e sceglierà i sui membri per cooptazione, poi si incaricherà di guidare l’umanità, le piaccia o no, verso il suo vero bene. E, quando i fatti contraddiranno le parole, allora – come diceva il filosofo marxista Ernst Bloch – sarà tanto peggio per i fatti.

Dal punto di vista cristiano, si tratta della unica vera eresia, la gnosi, contro la quale – e contro le sue proteiformi, infinite variazioni – da duemila anni la Chiesa combatte. Un gruppo di illuminati, cui il mondo cosi com’è non piace, a un certo punto decide non di espurgerne solo gli aspetti disfunzionanti, bensì di farne tabula rasa per operarne demiurgicamete la totale trasformazione.

La società verrà analizzata nelle sue parti smontata e poi rimontata secondo un progetto prestabilito. Non per nulla lo studioso padovano Sabino Acquaviva si chiese (e si rispose) come mai la maggior parte dei protagonisti degli anni di piombo fosse laureata in Sociologia, la disciplina che studia la società come si fa con gli animali da laboratorio.

Il cristianesimo, invece, poggia sul dogma del Peccato originale, che dà una risposta definitiva alle domande sulla natura dell’uomo. Detta natura, essendo stata creata da Dio, non è modificabile. Né si vede perché, potendolo, dovrebbe doversi modificare, dal momento che è a immagine e somiglianza da Dio. Essa è stata solo ferita dalla Caduta primordiale, che le ha reso più difficile – ma non impossibile – operare il bene.

La Rivelazione e la predicazione di Cristo, poi, forniscono sia la direzione da prendere che il manuale di guida. Non si tratta, dunque, che di rimboccarsi le maniche e procedere con l’assistenza dei Pastori, cioè la Chiesa gerarchica creata da Dio in persona e da Lui continuamente assistita.

Una società creata sul cosiddetto diritto naturale e cristiano (dove la congiunzione ha anche valenza esplicativa e consequenziale) era esattamente quella in cui i medievali sentivano di vivere, e che si sforzarono continuamente di perfezionare senza avere mai la minima intenzione di stravolgere.

In effetti, se si guarda a quel lunghissimo periodo e alle sue realizzazioni, si ha l’esatta impressione di un capolavoro di equilibrio, fragile come le trine di pietra delle cattedrali, ma al contempo stabile come i loro pilastri: l’unica società sottosviluppata che sia sviluppata da sola, l’unica fondata sul tenue legame della parola data, l’unica in cui il massimo dell’uguaglianza conviveva col massimo della libertà.

Si faccia caso come l’agnosticismo e l’ateismo siano nati in casa cristiana. Ciò accade perché il cristianesimo, fondato sul dogma del Peccato originale (che ha ferito, lo si ricordi , non ucciso la natura umana: Adamo ed Eva, mangiando del frutto proibito, ebbero effettivamente, anche se a loro discapito, cognizione del bene e del male, e trasmisero alla trascendenza la tremenda libertà di scelta), cerca di convincere della sua convenienza e verità (per questo la Chiesa si dice apostolica), ammettendo la possibilità che l’interlocutore resti indifferente o addirittura si convinca del contrario.

Il cristianesimo è l’unica religione con una teologia (perché Dio è conoscibile) e – fino a qualche tempo fa almeno – un’apologetica, cioè l’esposizione argomentata della sua verità e della convenienza di accettarlo. Ma, negato il Dio cristiano, non può l’umana natura negare sé stessa e la sua aspirazione alla felicità, contando sulle sue sole forze. Riecheggia per chi ci crede, la tentazione primordiale – «Sarete come dei» – e il mito della Torre di Babele.

Il tentativo di creare il paradiso in terra presuppone, infatti, una specie di cristianesimo senza Dio. Presuppone, innanzitutto, la confusa eppur fortissima fede nel paradiso. E si conclude, invariabilmente, nella forma organizzativamente più alta della perfezione cristiana: il convento.

Fare del mondo un unico monastero dove regnino l’eguaglianza, la fraternità, l’amorosa obbedienza ai capi eletti, l’assenza di proprietà privata e l’uniformità assoluta, una specie di razionale, operoso formicaio o di efficiente alveare dove gli uomini nuovi e rigenerati dimentichino totalmente il passato per proiettarsi con perfetto spirito di squadra verso un futuro radioso, e attivamente operino, rinnegando sé stessi, per affrettarlo: questo è il mondo segnato da tutte le utopie.

Al loro uomo nuovo esse cambiano, come i religiosi cristiani, perfino il nome (pensiamo a Gracchus, Babeuf o Stalin), il tempo (i vari calendari rivoluzionari), l’abito (quelle delle comuni sansimoniane o la tuta blu maoista).

La differenza col monastero cristiano sta nel fatto che tutto ciò per l’utopista deve essere obbligatorio e coattivamente imposto a tutti. Chi rifiuta la felicità si pone automaticamente al di fuori dell’umano consorzio e deve essere eliminato o dichiarato pazzo e rinchiuso. Solo che i lager e i gulag e le ghigliottine non bastano mai: ecco inverata quell’eterogenesi dei fini cui accennavamo all’inizio: per costruire il paradiso in terra, si fa del mondo l’anticamera dell’inferno. Si studino le utopie una per una: si vedrà questa legge operare implacabilmente in ciascuna, dalla città dei santi degli anabattisti di Munster ai killing fields cambogiani.

Dal punto di vista cristiano, la differenza sta nel fatto che il cristianesimo, nella sua forma cattolica, propone tutto ciò solo come ideale per pochi, i quali liberamente vi si sottomettono quando si giudichino pronti (e quando tali li giudichi anche la Chiesa). Non solo: sapendo quanto ciò sia difficile (ma non impossibile) all’umana natura vulnerata, non a caso la Chiesa prevede un periodo di prova.

In conclusione, forse abbiamo adesso qualche elemento in più per rispondere alla domanda: «Può l’uomo essere artefice della propria storia?». La risposta a questo punto è sì. L’uomo costruisce sempre la sua storia, ma lo fa in base alla risposta che dà ad un’altra, e preliminare, domanda: «Chi siamo?».

L’esito può essere solo duplice: o siamo figli di Dio o non lo siamo. Nel secondo caso, le utopie sono inevitabili. Nel primo, l’unica alternativa sembra essere la Cristianità.