Lettere dal Vietnam

VietnamPietro Gheddo ed. Missionaria Italiana, Bologna 1979

PRESENTAZIONE

Questa raccolta di lettere è nata in un modo molto semplice. Da molti anni mi sono fatto un archivio personale di lettere e documenti dal Vietnam, archivio che è aumentato notevolmente dopo la fine della guerra (30 aprile 1975) per l’afflusso di lettere scritte non solo a me personalmente, ma anche ad altri missionari o vietnamiti residenti in Italia e in altri paesi.

Ho incominciato pochi mesi fa a tradurre e sistemare alcune di queste lettere, per poterle leggere durante le conferenze in giro per l’Italia, nella campagna che il Centro missionario del P. L M. E. ha condotto dal dicembre 1978 ad oggi per far accogliere in Italia i profughi dal Vietnam (e da Laos e Cambogia).

Ad un certo punto, raccogliendo anche lettere da ciclostilati pubblicati da ex-missionari del Vietnam oggi viventi a Parigi, Manila, Giacarta, Tokyo, Bangkok, Hongkong, Malesia e Formosa, mi sono accorto, per la reazione degli stessi ascoltatori, che queste lettere rappresentano la miglior descrizione del Vietnam d’oggi e sono ben più efficaci di qualsiasi studio o arido documento.

Le offro con questo spirito agli amici lettori: qui abbiamo dei vietnamiti che parlano del loro paese e di se stessi. Pur facendo la dovuta tara per qualche esagerazione, inevitabile in chi si oppone all’attuale regime (non sono purtroppo a conoscenza di lettere in favore!), credo che la coralità di queste voci debba far riflettere sul tipo di “liberazione” che i comunisti hanno portato al popolo vietnamita con una guerra trentennale, ed hanno in seguito esteso (senza esserne richiesti) ai popoli di Laos e Cambogia.

Ho dovuto togliere dalle lettere qualsiasi riferimento a persone e luoghi che potesse far identificare i mittenti (i titoli delle singole lettere o gruppi di lettere sono miei). La raccolta è divisa in tre parti: ‘Nel Vietnam del Sud dopo la liberazione’ – Quelli che sono fuggiti (cioè lettere di profughi) – Come vivono i cristiani nella rivoluzione. Vorrei ringraziare i molti amici vietnamiti e non vietnamiti che mi hanno offerto materiale per questa raccolta e in particolare i vietnamiti di Milano per alcune traduzioni dalla loro lingua materna. Piero Gheddo Milano 1 settembre 1979

FAME E LUNGHE CODE PER IL CIBO

Ci sono molte patate ma poco riso e questo ci rovina lo stomaco. E poi c’è il fatto di non mangiare mai a sufficienza. Se siamo a terra per il nutrimento, che dire dei vestiti? Abbiamo un solo vestito a posto per quattro sorelle e lo portiamo a turno. I miei fratellini e nipoti sono colpiti dalla scabbia; se lei può, gli mandi qualche paio di pantaloni di stoffa solida. Non abbiamo denaro per entrare nelle cooperative di produzione.

Se siamo ammalati non abbiamo medicine. Per favore inviateci medicine per il mal di stomaco e il paludismo. Mentre vi scrivo, ho fame: in ogni casa, i grandi si privano affinché i piccoli che piangono quando hanno fame possano mangiare. (giugno 1978) Com’è la nostra vita qui? Tu dovresti saperlo. La vita nei paesi comunisti è talmente triste! Se vuoi avere una scodella di riso devi fare la coda dalle quattro del mattino, se vuoi avere mezzo chilo di carne devi fare una coda lunga un chilometro, se vuoi comperare un paio di pantaloni neri devi aspettare due anni. E’ questa vita da persone umane? (ottobre 1978)

GIOVANI EDUCATI SOLO DAL PARTITO

Nei primi tempi, dopo una giornata di lavoro di otto ore, c’erano riunioni tutte le sere per corsi politici e canti rivoluzionari. Ora le riunioni si fanno solo di quando in quando, per ogni nuova politica del governo (da spiegare). All’inizio, ogni periodo di lavoro collettivo durava 15-16 giorni ed era per metà della popolazione. Metà andava nei campi, mentre l’altra metà restava a casa.  La domenica era giorno di vacanza dal lavoro.

Poi la durata del lavoro collettivo è aumentata progressivamente con la soppressione della domenica come giorno festivo. I cristiani non possono più andare a Messa. Solo i montagnards che vivono raggruppati in villaggi osano protestare: la domenica mattina essi vanno nei campi, ma appena arrivati si riuniscono per pregare ad alta voce, invece di lavorare. Tutti li guardano e il commissario politico, pur contrariato, dice loro: “Andate alla vostra Messa”…

I periodi di lavoro collettivo durano a volte sei mesi senza alcuna giornata libera. Tutti restano inchiodati ai campi. Non è più possibile alcuna vita familiare né educazione familiare. Nelle scuole i bambini hanno danze, canti, dopo l’orario propriamente scolastico, e servizi di guardia o di altro genere. Per la scuola secondaria: molti corsi politici, per cui i ragazzi si trovano sottratti alla vita familiare e all’influsso dei genitori.

Secondo il piano quinquennale 1976-1980, a partire dalla quarta classe gli allievi devono essere mantenuti dallo Stato, cioè vivere assieme nei campi e lavorare metà del tempo per provvedere ai propri bisogni. Lavoro scolastico al mattino e lavoro manuale nel pomeriggio o viceversa. Ragazzi e ragazze, uomini e donne sono sempre alloggiati assieme nei campi o quando vanno in missione. Scopo evidente ma non confessato: scalzare ogni possibilità di fondare un focolare stabile, nella persona stessa dei fanciulli e degli adolescenti. (marzo 1977)

GIOVANI EDUCATI SOLO DAL PARTITO

1) Negli ultimi campi di lavoro agricolo non c’è nemmeno un tetto per ripararsi la notte. Fin dai primi giorni i giovani cadono ammalati: raffreddamento per il sonno all’aria aperta, sotto la pioggia, o dissenteria dovuta alla cattiva qualità dell’acqua. Tutti i giovani sono inviati a questo lavoro, si costringono anche i vecchi borghesi delle città inviandoli a questo lavoro, anche quelli che hanno ormai superato l’età del lavoro o sono ammalati, incurabili. Bisogna dare infatti a tutti i borghesi l’occasione per riscattarsi ed è la sollecitudine materna del Partito che ci pensa, invece di sterminarli.

2) I giovani o vanno al fronte o sono assegnati al lavoro agricolo nei campi, dove vivono in capanne a 30-40 assieme, giovani da una parte e ragazze dall’altra. Ma più che capanne sono quattro pali con un tetto di paglia, il quale, essendo fatto dalla “gioventù d’assalto” che non ha esperienza di questo lavoro, lascia passare la pioggia. Quando piove, ci si piega su se stessi e si tenta di dormire: tutto è sporco e bagnato per terra. La levata è alle quattro. Si mangia il bo-bo (sorgo) cotto dall’équipe della cucina.

Quando i rifornimenti sono arrivati, si possono avere tre scodelle per persona, ma quando non arrivano si scende a due e anche ad una. Ma un ragazzo dovrebbe mangiarne almeno sei scodelle per non aver fame, poiché non vi è nè carne nè pesce nè legumi. Con questo in corpo, bisogna scavare quattro metri cubi al giorno e dato che i lavori previsti non sono mai terminati da tempo, ci viene detto: nel prossimo periodo voi andrete a lavorare anche per una parte della notte. In generale il cantiere si trova a 2-3 km. di marcia dalle capanne dove dormiamo.

Ci si lava nell’acqua del canale. Il più duro è di essere sempre sporchi la notte a causa della pioggia e di avere ore vuote nelle quali non si può lavorare nè dormire: non c’è alcuna luce per leggere nè niente per un po’ di conforto. (giugno 1978)

LA STORIA DI UNA INSEGNANTE

Non sono fuggita subito dopo la fine della guerra perché allora io credevo alle promesse del governo. I documenti ufficiali avevano come intestazione: “Indipendenza – Libertà – Neutralità”. Ma due mesi dopo le tre parole erano cambiate: “Indipendenza – Libertà – Unità”. Ho cominciato a capire che era la fine. Vennero organizzate riunioni a piccoli gruppi in tutto il paese e nessuno osava contraddire quello che gli era insegnato. Una delle mie amiche ebbe ancora il coraggio di dirmi: “Io sono per la riunificazione, ma credo che vadano troppo in fretta”. Ma nelle riunioni essa non diceva nemmeno una parola. Poi vennero le confessioni della propria vita, ciascuno doveva scrivere il suo “curriculum vitae”.

Come direttrice di scuola venni chiamata dal comitato incaricato dell’educazione per rispondere della lealtà di ciascuno dei miei insegnanti. Essi volevano che io ne respingessi qualcuno… Ma io sapevo ciò che li attendeva: le ZEN (cioè le “nuove zone economiche”, n.d.t.); sarebbe stata la rovina, la fame e le altre conseguenze.

Eppure quelli che venivano inviati nelle ZEN non avevano fatto nulla di male… Il mio proprio curriculum vitae venne passato al pettine scrupolosamente, ma io ero tranquilla: appartengo a una famiglia che ha sacrificato 14 persone alla “causa”. Solo uno dei miei fratelli, più anziano di me, è sopravvissuto ed è diventato vice-ministro del nuovo regime. Ma questo non ha salvato mio genero dalla “rieducazione”: egli è un medico e doveva pagare il suo debito di sangue.

Dopo due anni di una vita d’inferno, ha potuto scappare. A proposito di questi campi, un mio nipote, membro del Partito che gode di una posizione abbastanza alta a Saigon, mi ha detto un giorno: “Non è rieducazione. Come si possono lavare i loro cervelli costruiti dagli americani? E’ una morte lenta e silenziosa. Non possiamo sprecare pallottole per loro. La fame e il lavoro forzato sistemeranno questi nemici del popolo”.

Quanti sono già morti? Sono poi venute le elezioni. lo ne rimasi scioccata. Dovevamo scegliere dieci persone in una lista di undici già completa, che ci era presentata. Ma, più ancora, ci dicevano anche il nome che dovevamo scartare ed era, in ogni caso, uno che già conoscevamo, uno del Sud, mentre gli altri dieci ci erano sconosciuti.

Ciascun piccolo gruppo di votanti venne condotto al posto di voto da un quadro politico responsabile della nostra obbedienza. Cammin facendo, non faceva che ripeterci la lezione, scandendo senza sosta il nome che dovevamo cancellare… Le persone di “buona famiglia” hanno potuto, per un certo tempo, restare ai loro posti di lavoro, ma la discriminazione saltava agli occhi. Il 10 maggio 1976, per l’anniversario della nascita dello “zio Ho” (Ho Chi Minh, n.d.t.), ci hanno venduto alcuni capi di vestiario per ciascuno al prezzo ufficiale, per la prima volta in tutto l’anno Ma ogni preside di scuola era stato avvertito: bisogna dare la priorità ai membri del Partito… Ciò che resta sarà distribuito in modo equanime fra tutti gli altri. Cioè fra i 60 professori, me compresa.

Dato che la nostra scuola era un’antica scuola cattolica, donata dalle Suore di San Paolo di Chartres, io ho dovuto dare a loro una lista di professori e di alunni che frequentavano la nostra chiesa. Dovevo allo stesso modo fare rapporto su ogni parola o conversazione a contenuto reazionario. Dovevo assegnare lavori speciali alle suore nei giorni di domenica, per impedire loro di assistere alla Messa e dovevo pure incoraggiarle a rinunziare al loro abito religioso. Quando scrivo “io dovevo” non vuol dire che ricevevo ordini formali, scritti. No. Essi avevano il loro modo raffinato di farmi comprendere, io giocavo col fuoco se non avessi capito e obbedito.

In vietnamita noi diciamo: “Nascondere la mano che ha gettato la pietra”. lo sono sicura che essi hanno ucciso il mio unico fratello. Egli era conosciuto come ardente patriota che aveva lottato contro i francesi … Anche se era membro del Partito, egli non era, in fondo, un comunista. Lo “zio Ho” lo fece andare ad Hanoi per elevarlo nei ranghi dell’esercito e della scena politica.

Finita la guerra, fu nominato vice-ministro delle Foreste, un titolo senza alcun potere. Tornando al Sud, cadde “ammalato” in seguito alle macchinazioni dei compagni. Chiese di ritirarsi, ma non gli fu accordato; dovette recarsi in ospedale per una revisione generale della sua salute. Cinque giorni dopo la sua ospitalizzazione, il 5 marzo 1977, fummo informati della sua morte, “in seguito ad una operazione allo stomaco”.

La sua famiglia mantenne il silenzio, ma io sollevai una tempesta di domande sull’accaduto. Chiesi un’inchiesta. Più tardi compresi che dovevo scomparire anch’io, se non volevo a mia volta essere operata per una malattia sconosciuta. E’ allora che mi decisi a partire. (Una donna di 58 anni, agosto 1977)

MI PREOCCUPAVANO I MIEI FIGLI

All’inizio non pensavo di fuggire, anche se la vita diventava sempre più dura: ho pensato che, come diceva l’arcivescovo Binh, era giusto soffrire per la ricostruzione della patria distrutta. E anche se noi, cittadini credenti, eravamo tenuti d’occhio dalla polizia, marginalizzati, penalizzati in tutto, ritenevo questo una forma di giustizia: avevamo avuto potere e privilegi in passato, era giusto (anche se contro tutti i principi della “riconciliazione” enunciati dai nuovi capi) che pagassimo più di altri.

Se sono scappato, rischiando molto e forse anche la vita, è solo perché ho visto i miei figli cambiare di giorno in giorno la mentalità, l’atteggiamento di fondo riguardo alla vita: non era più possibile educarli cristianamente, si ribellavano contro ogni nostra parola ed avevamo paura che ci denunziassero ai commissari politici come “reazionari”. In casa, tornando dalla scuola, parlavamo spesso di questo, pur piccoli come sono. lo e mia moglie abbiamo capito che non era più possibile continuare così: noi vogliamo formare dei cristiani e in Vietnam questo è oggi quasi impossibile, è troppo l’influsso del Partito e del comunismo su tutto. (febbraio 1979)

I NEMICI NUMERO UNO

Noi cattolici siamo considerati i nemici numero uno del regime, anche se non facciamo nulla per meritarci questa classificazione. Siamo vittime di numerose misure discriminatorie. Tutti vivono nella paura, specie nelle frequenti riunioni di quartiere, dove nessuno vuol parlare per non compromettersi. (aprile 1979) I vescovi ripetono di collaborare con le autorità ed anche il nostro sacerdote che tu conosci, don …, in una delle poche volte che abbiamo discusso l’atteggiamento da tenere nei confronti del governo, insiste nel dire che dobbiamo accettare umilmente il sospetto verso di noi e anche di soffrire per la fede. Dice che tutto andrà meglio in futuro, quando sarà finito il tempo della ricostruzione.

Per intanto però essere cristiano nella società vietnamita vuol dire non aver più nessun diritto e venire sorvegliato continuamente: basta non andare una volta al lavoro o dire una parola sbagliata, e ti ritrovi in “campo di rieducazione”. A meno che, come ormai fanno in molti, non si vada più in chiesa ma ci si accontenti di praticare la preghiera in casa propria, possibilmente senza farsi vedere dai propri figli più piccoli: allora la sorveglianza si attenua, ma si è egualmente prigionieri come tutti i vietnamiti del sistema di controllo poliziesco assai stretto. (Da Phan Thiet, maggio 1979)

L’UOMO NON CONTA NULLA

I comunisti sono molto crudeli, disumani: solo il Partito conta, tutti gli esseri umani sono come animali, anzi peggio degli animali perché questi non hanno intelligenza, mentre gli uomini ce l’hanno e aspirano alla libertà. I comunisti sono mentitori per professione: mentono sempre, sempre, giorno e notte fino alla morte. Si servono degli uomini per arrivare ai loro fini: questo solo conta. Sotto il loro potere non si può fare niente di niente al di fuori della loro volontà. (febbraio 1979)

Sento spesso la tentazione di odiarli (i comunisti, n.d.t.), perché sono talmente insensibili al dolore umano che sembrano macchine e non uomini. Debbo pregare perché il Signore mi tolga dall’animo questi sentimenti non cristiani: l’odio e il desiderio di vendetta, il cercare con ogni mezzo di far loro del male; sentimenti che nascono spontanei in me, come in tutti, quando penso a come ci trattano e che l’abisso in cui siamo caduti è nato dalla loro cieca volontà di potere. (febbraio 1979)

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