Cina. Quando il capitalismo è selvaggio, cioè comunista.

Cina - minieraRagionpolitica 4 dicembre 2004

di Anna Bono

Il 28 novembre in Cina, nella provincia nord occidentale dello Shaanxi, 166 minatori sono morti in una miniera di carbone in seguito a un’esplosione.

L’incidente è l’ultimo di una serie di disastri minerari che si verificano con una frequenza quasi quotidiana – l’1 dicembre 16 persone sono morte in un’altra esplosione avvenuta in una miniera di carbone nella provincia di Guizhou, nella sud del paese – e che spesso non vengono neanche denunciati: così ogni anno muoiono oltre 7.200 cinesi.

A causare la maggior parte degli incidenti è la mancanza di sicurezza che miete vittime non solo nelle miniere. Nel 2002 si sono avuti 800.000 incidenti sul lavoro che hanno provocato più di 100.000 decessi.

La corruzione dilagante è all’origine di una simile catastrofe umanitaria: funzionari di partito, dipendenti statali e capi locali chiudono gli occhi, in cambio di denaro, sulle condizioni di lavoro. Nel caso delle miniere di carbone, malgrado le dichiarazioni virtuose che il governo centrale non manca di rilasciare in occasione di ogni tragedia di grosse dimensioni, tutti sanno che il fabbisogno energetico della Cina per il momento è soddisfatto al 70 per cento dal carbone e perciò tutti sostanzialmente accettano la situazione perché qualsiasi serio provvedimento a tutela dei lavoratori delle miniere provocherebbe nel breve periodo un rallentamento e una riduzione della produzione e quindi una crisi insostenibile nei settori economici moderni già adesso in difficoltà per mancanza di energia.

La miseria in cui versano e l’impossibilità di far valere i propri diritti costringe centinaia di milioni di cinesi ad affrontare il rischio di un lavoro in condizioni pericolose. Gli studi più recenti parlano di 170 milioni di disoccupati. Stime aggiornate indicano che più di metà dei 700 milioni di contadini cinesi – pari al 75% della popolazione – vive con meno di 0,7 dollari al giorno; secondo altri calcoli ormai il reddito medio nelle campagne non supera i 12 euro al mese, il che è verosimile se si considera che l’80% del lavoro agricolo è tuttora svolto manualmente con l’ausilio di attrezzi rudimentali.

In più, il 64,9% delle famiglie ha almeno un membro affetto da malattie croniche e il 33,7% delle famiglie sopporta l’onere di un disabile. La politica del figlio unico imposta dal governo per contenere la crescita demografica non farà che peggiorare il quadro, almeno nell’immediato futuro: un numero crescente di adulti dovranno provvedere da soli ai bisogni di genitori e nonni anziani, il che per una coppia significherà assistere 12 persone.

Nella miniera dello Shaanxi già da diversi giorni degli incendi nel sottosuolo avrebbero dovuto indurre a sospendere le attività estrattive. Invece i minatori impauriti che avevano protestato con i capisquadra erano stati minacciati di licenziamento. Nessuno di loro ha pensato di rivolgersi alle autorità locali, delle quali nessuno si fida, tanto meno gli operai migranti, numerosi nella miniera esplosa così come in tutto il paese, che si trovano, per il solo fatto di aver lasciato il luogo di residenza assegnato dal governo, in una situazione di illegalità e possono solo sperare di essere ignorati dai rappresentanti della legge.

Quando nel 1979 Deng Xiaoping proclamò le quattro modernizzazioni – agricoltura, scienza, esercito, tecnologia – un povero elettricista, Wei Jingshen, scrisse un tazebao chiedendone una quinta: la democrazia. Come ricorda Bernardo Cervellera nel suo libro Missione Cina, Jingshen per questo fu condannato a 13 anni di carcere duro e poi è stato costretto a lasciare il paese. Ma aveva ragione lui. Tuttora la mancanza di democrazia è la grande contraddizione di un progetto economico e sociale che nella negazione della libertà e dei diritti naturali incontra il suo inevitabile limite.