Se il mercato diventa onnipotente

fondo monetarioArticolo pubblicato su “Percorsi
n.27 marzo 2000

Il pericolo per la sovranità degli Stati è lo svuotamento delle scelte istituzionali

di Gianfranco Legittimo

Recentemente il segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, ha detto: la sovranità dello Stato sta subendo una ridefinizione da parte delle forze della “globalizzazione”. E Massimo D’Alema quasi in contemporanea: se noi vogliamo che la politica, e quindi i diritti delle persone, tornino a pesare almeno tanto quanto pesa l’economia, dobbiamo affrontare il grande tema della nostra epoca che è quello di creare istituzioni sopranazionali in grado di governare la globalizzazione.

In questi due diversi ma concomitanti rilievi sta il riconoscimento di un dato cruciale: la globalizzazione ha condotto lo Stato, come entità politico-giuridica che plasma e organizza la società, e la politica, come espressione degli interessi e degli obiettivi generali della società medesima, ad essere subordinati, a contare meno dell’economia; la quale ha anch’essa carattere generale, ma per sua natura non abbraccia che una parte delle finalità e dei bisogni umani.

Prima di valutare il significato ed i possibili esiti di tutto ciò, conviene forse cercare di chiarire quale sia la globalizzazione chiamata in causa. Vi è infatti una globalizzazione che corrisponde al fenomeno dell’ampliamento dei mercati internazionali fino al comporsi di un mercato sostanzialmente unitario.

Non solo le notizie, ma anche le cose e gli uomini, si muovono sempre più veloci, sicché gli scambi formano un reticolo sempre più fitto, potenzialmente esteso su ogni regione della Terra.Le attività di compravendita, e quindi di affari, coniugandosi con la crescita tecnologica in atto nei trasporti e nelle comunicazioni, moltiplicano le occasioni di interdipendenza e di integrazione “globale”dell’economia.

Ma oltre a questa globalizzazione, ve n’è una seconda, connessa alla prima dal punto di vista strutturale, ma distinta in termini concettuali e finalistici: è la globalizzazione che si realizza essenzialmente sul terreno finanziario, laddove la domanda e l’offerta sono circoscritte ad elementi rappresentativi (titoli, azioni, obbligazioni, “futures”, ecc.) ossia non contemplano elementi di economia reale, e le relative decisioni avvengono mediante comandi rimbalzanti da un punto all’altro del pianeta mediante i semplici impulsi elettromagnetici di un calcolatore.

La prima globalizzazione non annulla i singoli Stati: li avvicina, e avvicinandoli accentua l’esposizione dei più deboli all’influenza dei più dotati, con quel che ne può conseguire anche in tema di una neo-colonizzazione nel costume oltreché nella penetrazione commerciale. Rappresenta un rischio; ma in sé non segna né un bene né un male.

Al pari di ogni evento di progresso tecnico, dipende dal modo in cui si vive, dalla volontà umana. Che l’espansione del mercato aiuti o danneggi le collettività dipende da loro, dai valori che esse coltivano, dalla risposta che in funzione di tali valori sono in grado di offrire. L’omologazione dei gusti secondo il modello “americano” con il sostegno del “pensiero unico” non si combatte innalzando improbabili barriere doganali, ma con la coscienza delle proprie radici e la fiducia nelle proprie idee.

Diverso il discorso per quanto riguarda la seconda globalizzazione (o, se si vuole, il particolare aspetto della globalizzazione che abbiamo cos” indicato). E a questa globalizzazione, evidentemente, che si riferiscono i due giudizi citati all’inizio. E non a caso. Un meccanismo capace di agire praticamente senza limiti, e soprattutto senza controllo, apre enormi prospettive di transazioni.

Si calcola che nel ’98 siano stati trattati 1.500 miliardi di dollari al giorno, un valore paragonabile al prodotto interno lordo italiano. Nel ’99 la quantità è sicuramente cresciuta. Ora il carattere virtuale delle transazioni così effettuate le sottrae a qualsiasi verifica, mentre lavoratori e merci che si spostano possono creare problemi, ma sono comunque controllabili. Una situazione del genere favorisce manovre speculative in grado, per le loro dimensioni, di generare turbamenti gravi nelle economie reali.

Tutti gli Stati, compresi i maggiori, vengono ad essere sottoposti ad una progressiva perdita di sovranità a favore di centrali finanziarie anonime e apolidi. E queste, con le loro strategie, assumono crescente peso nell’influire sulle condizioni di vita dei popoli. Ecco il vero pericolo per la sovranità degli Stati: lo svuotamento, di fatto, dei contenuti delle scelte degli organi istituzionali ad opera di un mercato finanziario privo di riscontri, quindi irresponsabile e libero dalla ricerca della legittimazione mediante il consenso che invece obbliga i pubblici poteri in democrazia.

Si ricorderà che Lamberto Dini, nelle sue dichiarazioni programmatiche da presidente del Consiglio dopo il “ribaltone” del governo del Polo uscito dalle urne del 1994, fece appello, appunto, al “voto” che il mercato finanziario esprime quotidianamente: un voto, proclamò, “dal quale l’azione di governo non può prescindere”. Non potrebbe trovarsi proclamazione più esplicita e più solenne del ruolo assunto dai “poteri forti”, che il “ribaltone” avevano ispirato, nel determinare in concreto la vita nazionale al posto dei cittadini.

Perfino un D’Alema, che, per essere accettato, si era dovuto recare in pellegrinaggio ai templi sacri della grande finanza internazionale, se ne è accorto. Ma se l’economia finanziaria sovrasta la politica, per lui e per gli uomini di sinistra al timone di molti Stati europei, da Blair a Jospin a Schroeder, deve risultare insopportabile la contraddizione: da un lato, dover gestire la modernizzazione nei modi e con i ritmi imposti dalle oligarchie finanziarie che li reggono (e li reggono perché convinti, come ebbe ad esternare l’avvocato Agnelli, che solo maggioranze di sinistra possono riuscire ad imporre politiche “impopolari”); dall’altro lato, non perdere la ragione d’essere originaria, la tutela delle masse.

Da qui il loro agitarsi alla ricerca di una pretesa “terza via”, che non è più quella degli anni ’30, alternativa al liberalcapitalismo ed al socialcomunismo, bensì un confuso oscillare fra un aggiornamento del capitalismo in veste socialdemocratica e la confluenza di quel che resta del socialismo in un capitalismo post-thatcheriano mitigato.

Se ne deduce che la sinistra non può offrire nessuna soluzione seria al problema di una ripresa della politica, dei diritti dei popoli, della sovranità degli Stati. Una risposta non può che venire da forze che al senso dello Stato si rifacciano con convinzione e coerenza, in nome non di ideologie, ma di quel diritto naturale che, ponendo la politica al servizio della persona, le affida anche il compito di dettare orientamenti e limiti alla sfera economico-finanziaria.

Ha scritto Ralf Dahrendorf: “cosa succede alla democrazia quando problemi e decisioni esulano dalla nazione-Stato per inoltrarsi in spazi politici, per i quali non disponiamo di istituzioni adeguate? A rigore la democrazia ha perso”. E’ lo scenario inquietante e per alcuni versi drammatico in cui occorre situare ogni credibile proposta politica. Non basta rivendicare più libertà economica all’interno: occorre difendere la libertà economica anche fra i Paesi ed i Continenti. Bisogna far leva sullo Stato.

Ma uno Stato non può impostare tale difesa da solo. Bisogna che l’Europa si adegui allo scopo, cominciando con il rendere democratici la Commissione ed il Consiglio e con il dare al Parlamento europeo l’autorevolezza che gli manca. La Destra potrebbe e dovrebbe prendere l’iniziativa affinché dall’Europa partisse nei vari ambiti di collaborazione internazionale un processo costruttivo di quel tessuto di regole, di informazioni all’opinione pubblica e di strumenti di controllo e di intervento senza il quale la globalizzazione potrebbe diventare davvero un “buco nero” divoratore della democrazia e dei diritti dei cittadini.