Corrispondenza Romana 1 Ottobre 2025
di Roberto de Mattei
Giunta al suo epilogo, tra farsa e tragedia, la vicenda della “Global Sumud Flotilla” impone alcune riflessioni. Secondo la vulgata mediatica, all’origine della spedizione navale sarebbe la drammatica situazione del popolo palestinese, sottoposto a un brutale attacco israeliano nella striscia di Gaza. La situazione di emergenza avrebbe reso necessaria la creazione di un “corridoio umanitario”, anche a costo di forzare il blocco navale di Israele, ritenuto illegittimo perché esteso ad acque internazionali. Questa presentazione del problema è falsa e ipocrita, perché dimentica alcune verità fattuali.
La prima è l’esistenza di una guerra asimmetrica, condotta da Hamas contro Israele, per distruggerla, ben prima del 7 ottobre 2022, anche se in quel giorno ha avuto una sua plastica e simbolica espressione. Non c’è bisogno di essere degli esperti di strategia militare per sapere che in guerra il diritto internazionale diviene quello del più forte, anche se i princìpi morali, come il rispetto della vita degli innocenti, non devono mai venir meno. E’ certo che da parte di Hamas c’è stata un efferata violazione di tali diritti, alla quale Israele ha risposto con estrema violenza, ma con una differenza: Hamas ha deliberatamente ucciso circa 1200 innocenti e 250 ne ha presi in ostaggio, facendosene scudo, così come si fa scudo di strutture ospedaliere e scolastiche, non tanto per difendersi, quanto per provocare un’indignazione internazionale contro la reazione di Israele.
Israele applica da parte sua il principio antico dell’“occhio per occhio, dente per dente”, estraneo alla tradizione cristiana, ma non ignora la legge mosaica che proibisce l’uccisione degli innocenti. Secondo questo principio la morte dell’innocente può essere accettata solo come effetto non voluto di un atto che ha come fine l’uccisione dei colpevoli. Questa dottrina, che la morale cattolica ha sviluppato come principio del “duplice effetto”, deve rispettare tuttavia, per essere lecita, il criterio di proporzionalità. Ci si può legittimamente chiedere se tale criterio sia rispettato da Israele, ma certamente è ignorato dalla legge islamica, che condanna a morte gli infedeli, ebrei o cristiani che siano, per la sola colpa di esserlo.
Ma la falsità è dimostrata soprattutto dal fatto che, nel 2008, quando si formarono le prime cosiddette flotillas, non esisteva né genocidio, né emergenza umanitaria, ma solo una dura lotta tra Israele e il mondo arabo che ne voleva la distruzione. Le Flotillas costituirono uno strumento di azione marittima contro Israele sotto l’egida del Free Gaza Movement, soprattutto a partire dal 2009, quando il governo di Tel Aviv impose un blocco navale sulle coste di Gaza per limitare la capacità di Hamas di introdurre clandestinamente armi e materiale bellico. Il 31 maggio 2010, la Gaza Freedom Flotilla, composta da sei imbarcazioni e circa 700 attivisti provenienti da oltre 50 Paesi, tentò di rompere il blocco navale, costringendo Israele a intervenire militarmente, con la conseguenza di nove attivisti uccisi negli scontri in mare. Da allora le Flotillas continuarono la loro attività, con maggior prudenza. Nel 2011 fu tentata la Freedom Flotilla II – Stay Human, ma molte navi non partirono o furono intercettate. Nei successivi anni vennero organizzate missioni come la Women’s Boat to Gaza (2016) o Freedom Flotilla III (2015). Nel 2018 la Freedom Flotilla Coalition lanciò una nuova operazione contro il blocco navale, fermata dalle forze israeliane.
La Flotilla, oggi come allora, non ha un’unica identità nazionale, ma è il prodotto di una coalizione fluida e transnazionale, che unisce militanti di estrema sinistra, attivisti LGBTQ, ecologisti, giornalisti e qualche parlamentare. La natura ideologica di questa coalizione non è misteriosa. Una parte rilevante delle Flotillas, in particolare quella del 2010 con la nave Mavi Marmara, è stata organizzata o sostenuta dall’ONG turcaIHH (İnsan Hak ve Hürriyetleri ve İnsani Yardım Vakfı), un’associazione che ha legami storici con ambienti islamisti turchi, vicini ai Fratelli Musulmani, di cui Hamas è espressione in Palestina. Le Flotillas si presentano come convogli di attivisti, organizzazioni non governative e volontari che sfruttano la loro retorica umanitaria e la loro apparente indeterminatezza di mezzi e di obiettivi per ottenere un palese vantaggio politico.
Al di là del fatto che, negli anni recenti, alcuni organizzatori delle Flotillas hanno avuto contatti diretti e documentati con dirigenti di Hamas, è evidente il beneficio che questo movimento ne trae: ogni missione che sfida il blocco israeliano viene usata come prova del sostegno internazionale alla causa palestinese. L’Iran, pur non avendo un ruolo diretto nell’organizzazione delle navi, utilizza la narrativa della Flotilla per legittimare la propria posizione anti-israeliana e anti-occidentale. Le reti della Flotilla coinvolgono del resto attivisti musulmani in Europa, Nord America e Asia, rafforzando la dimensione transnazionale islamica dell’iniziativa, che non si limita a Gaza o al Medio Oriente, ma coinvolge seguaci di Allah a livello globale.
Le organizzazioni promotrici hanno definito la loro spedizione navale come una prosecuzione delle flotillas precedenti, con l’obiettivo dichiarato di «rovesciare il blocco navale illegale». Si tratta dunque di un atto esplicitamente bellico: ciò che lo rende tale non è l’uso delle armi, ma il fine oggettivo, che è quello di provocare uno scontro in mare aperto contro un nemico armato. Non si tratta di “atto umanitario” verso il popolo palestinese, ma di un’iniziativa bellica, all’interno di uno scenario di guerra che si estende dai mari del Nord al Medio Oriente e presto, forse, si allargherà all’area indo-pacifica.
La guerra in corso ha come protagonisti principali due conglomerati di nazioni che comprendono, da una parte, gli Stati Uniti d’America, i paesi dell’Unione Europea e lo Stato d’Israele; dall’altra, la Cina, la Russia la Corea del Nord e una parte del mondo arabo. Lo scontro tuttavia non può essere limitato a una polarizzazione geopolitica Occidente/Oriente, né ad un conflitto tra liberal-democrazie occidentali e autocrazie orientali.
Chi interpreta la storia secondo l’insegnamento di sant’Agostino nel De Civitate Dei, riconduce gli eventi in corso ad una guerra religiosa e culturale, più ampia e più antica, tra chi difende quanto sopravvive della Civiltà cristiana e chi invece vuole estirparne le radici.
Questa guerra, che viene da lontano, è divenuta totale, per diverse ragioni: perché è planetaria; perché non fa differenza tra militari e civili; perché non si concluderà se non con l’annientamento di uno dei due contendenti. È totale, inoltre, perché potrebbe culminare in una catastrofe nucleare, e perché si estende dal campo militare a quello economico, dall’informazione alla tecnologia digitale.
Gli interessi di Putin e di Xi nella vicenda di Gaza non sono geostrategici, ma psicologici. Occorre mostrare agli occhi del mondo la debolezza di ciò che viene chiamato Occidente e impedire che il vigore con cui Israele si difende possa contagiare chi ha abbondonato al suo destino la Crimea e l’Afganistan.
Tutto ciò avviene proprio mentre Donald Trump propone il primo piano credibile di pace in Medio Oriente, accettato anche dalla quasi totalità dei paesi arabi. L’atto terroristico del 7 ottobre contribuì a far saltare i cosiddetti “Accordi di Abramo” del 2020, voluti dallo stesso Trump. I vertici di Hamas in quell’attentato non misero a repentaglio la propria vita, né previdero la durezza della reazione di Israele. Oggi sanno che, rifiutando la proposta americana su loro «si scatenerà l’inferno», come ha detto Trump con una delle sue colorite espressioni. Imboccherà Hamas la strada del suicidio collettivo o, come è più probabile, eviterà di immolarsi, lasciando che quanto di drammatico o di ridicolo possa ancora accadere riguardi solo la sgangherata flotilla?