Gustave Thibon, una consonanza ideale con la Lumen Fidei

Gustave Thibon

Gustave Thibon

Formiche 18 agosto 2013

di Giuseppe Brienza

Pochi hanno colto come, nella sua prima Enciclica, Lumen Fidei, pubblicata il 29 giugno 2013, Papa Francesco sia intervenuto nel modo più chiaro sul tema del “gender” e delle proposte volte a relativizzare quella che Bergoglio ribadisce invece essere la «bontà della differenza sessuale» (n. 52).

In un paragrafo molto interessante dell’enciclica, intitolato La fede e la famiglia, in perfetta continuità rispetto al Magistero dei suoi due predecessori, Francesco addita nella progressiva demolizione della famiglia ad opera di autorità e media la definitiva impossibilità per la Fede cattolica di divenire “lievito” della società.

Infatti scrive come «Il primo ambito in cui la fede illumina la città degli uomini si trova nella famiglia. Penso anzitutto all’unione stabile dell’uomo e della donna nel matrimonio. Essa nasce dal loro amore, segno e presenza dell’amore di Dio, dal riconoscimento e dall’accettazione della bontà della differenza sessuale, per cui i coniugi possono unirsi in una sola carne e sono capaci di generare una nuova vita, manifestazione della bontà del Creatore, della sua saggezza e del suo disegno di amore» (n. 52).

In alcune pagine del filosofo Gustave Thibon (1903-2001), del quale il 2 settembre ricorre il 110mo anniversario della nascita, ritroviamo esattamente questo motivo di diritto naturale che dovrebbe far arrestare, almeno la nostra società dopo la capitolazione di quella della sua patria, cioè la Francia, innanzi al baratro della relativizzazione del matrimonio e della famiglia al quale ci stiamo rapidamente precipitando.

«La procreazione – scrive infatti Thibon in uno dei pochi saggi tradotti in italiano [cfr. Perché il matrimonio è indissolubile?, in AA.VV., L’amore e il matrimonio, Vita e Pensiero, Milano 1955 (pp. 85-113)] – non può nella specie umana essere abbandonata al caso di un incontro senza domani come avviene nella specie animale. Perché il bambino non ha soltanto bisogno di essere messo al mondo e allattato durante i primi mesi di vita; la sua educazione richiede ancora per lungo tempo l’assistenza continua del padre e della madre e il calore e la stabilità di un ambiente familiare fuori del quale egli non può armonicamente svilupparsi» (G. Thibon, op. cit., p. 86).

Morto quasi centenario lasciando tre figli e molti nipoti, il “filosofo-contadino” (era figlio e nipote di contadini del Midi francese), spese infatti tutta la sua vita nel tentativo di convincere i suoi connazionali (e l’Occidente!) che senza famiglia non può esservi né sopravvivenza né civiltà.

In occasione delle esequie il suo vescovo diocesano, mons. François Blondel, ordinario di Viviers, fra l’altro, affermò in un messaggio che «la Chiesa di Francia gli è riconoscente» e, dopo averne citato due pensieri — “Porto in me dei morti più viventi dei viventi. Il mio più grande desiderio è di reincontrarli” e “Mio Dio, al momento della mia morte prendetemi come m’avete fatto e come mi sono disfatto, e abbiate pietà in me della Vostra immagine” —, auspicò «che il Signore della speranza esaudisca questa duplice preghiera» (cit. in Gustave Thibon. In memoriam, in Cristianità, n. 303, anno XXIX, Piacenza gennaio-febbraio 2001, p. 18).

Testimone eminente del secolo XX, Thibon tornò a venticinque anni alla fede cattolica dalla quale si era allontanato nel corso dell’adolescenza, compiendo studi di filosofia e di storia del pensiero tratti soprattutto da san Tommaso d’Aquino (1225 ca.-1274), da san Giovanni della Croce (1542-1591) e da Friedrich Nietzsche (1844-1900).

Amico dei filosofi Jacques Maritain (1882-1973), Marcel de Corte (1905-1994), Gabriel-Honoré Marcel (1889-1973) e Simone Weil (1909-1943), intessé soprattutto con quest’ultima, ebrea e trotzkista, un profondo dialogo spirituale. La Weil deve in effetti proprio al “filosofo-contadino” non solo la propria incolumità negli anni del secondo conflitto mondiale, ma anche, grazie alla pubblicazione postuma dei diari, l’ingresso nella vita culturale.

Riflettendo con profondità e con semplicità non comuni su temi quali Dio, l’amore e la morte, Thibon è fra i più acuti critici del “mondo in frantumi” della modernità filosofica, al quale oppone la Croce di Cristo che sola salva, apprezzata pure nei suoi risvolti culturali, politici e sociali, e incarnatasi in una tradizione bimillenaria di cui Thibon impara progressivamente a riconoscersi come figlio.

Le sue opere più significative e più note sono Diagnostics. Essai de physiologie sociale, uscita nel 1940 con prefazione di Marcel, e il suo “seguito” Retour au réel. Nouveaux diagnostics, del 1943, entrambe riproposte nel 1998 in un unico volume, Ritorno al reale. Prime e seconde diagnosi in tema di fisiologia sociale, con una premessa di Marco Respinti dall’editrice milanese Effedieffe.

Nell’opera di Thibon sul matrimonio e sulla comunione della famiglia vedo molto riflesso quell’ulteriore passaggio della Lumen Fidei nel quale Papa Francesco ci ricorda che sono «uomo e donna possono promettersi l’amore mutuo con un gesto che coinvolge tutta la vita e che ricorda tanti tratti della fede» (n. 52).