Un tramonto dell’accidente

Europa_frantumiArticolo pubblicato su Tempi Numero 5
30 Gennaio 200

Non fa più figli, ha la più alta concentrazione di anziani, scende a patti con chi la minaccia: l’Europa è afflitta da quella che R. Kagan chiama la “psicologia della debolezza”

di Rodolfo Casadei

Vecchia o saggia? La polemica a distanza fra il ministro della Difesa americano Donald Rumsfeld e il presidente della Commissione europea Romano Prodi sull’aggettivo che meglio si attaglierebbe all’Europa d’oggidì farà la felicità di conduttori di talk show televisivi in cerca di consacrazione intellettuale, direttori di riviste mensili desiderosi di “cucinare” il numero monografico prestigioso, politici di destra e di sinistra aspiranti al ruolo di qualificati strateghi di politica estera.

Ma esaminata senza troppo concedere alle esigenze del teatrino mass-mediatico che ruota attorno alla crisi irakena, ingenera fatalmente un sentimento di tristezza. Perché si deve ammettere che il «prepotente, arrogante, dotato di un ego smisurato» Rumsfeld (la definizione è di un alto ufficiale dell’esercito Usa) è molto più vicino alla verità dell’apparentemente simpatico e bonario professore bolognese impallinato a suo tempo da Bertinotti.

Dati demografici da ospizio

L’Europa è vecchia nel senso letterale del termine, su questo non ci piove, e l’inoppugnabile dato storico è anzi motivo di vanto, non certo di suscettibilità. Purtroppo però è vecchia anche secondo certi significati traslati del termine. Anzitutto lo è dal punto di vista demografico: l’Unione europea (Ue) è la regione del mondo che presenta il più basso tasso di fecondità (1,47 figli per donna) e la più alta percentuale di popolazione ultrasessantaquattrenne (16,4% degli abitanti nell’Europa dei Dodici). è anche l’unica area del mondo dove gli ultrasessantaquattrenni sono più numerosi dei bambini (i minori di 14 anni sono solo il 16,2%).

La Ue sfigura non soltanto nel confronto coi paesi del Nordafrica e Medio Oriente (3,4 figli per donna, 3,6% di anziani, 37,8% di bambini), cioè l’area da cui proviene la maggior parte dei suoi immigrati, ma anche con gli Stati Uniti: nel paese di Rumsfeld il tasso di fecondità è pari a 2,1 figli per donna, gli anziani sono il 12,3% della popolazione, i bambini il 21,7%.

Attualmente l’Europa dei Dodici, con 304 milioni di abitanti, è leggermente più popolosa di Nordafrica e Medio Oriente (295,2 milioni) e Stati Uniti (281,6), ma nel 2015 entrambe queste aree l’avranno sorpassata: la prima avrà toccato i 388,7 milioni di abitanti, la seconda i 317,8. La Ue dell’euro, invece, sarà scesa da 304 a 302 milioni.

Per gli Usa gli europei sono ipocriti

L’invecchiamento biologico coincide con la saggezza oppure con la paura per le sfide, col ripiegamento su di sé, col fatalismo di chi sente arrivare il proprio tramonto? Sia come sia, in bocca a Rumsfeld l’espressione «vecchia Europa» è risuonata come una metafora per dire «Europa debole e pavida». Di qui la reazione indignata dei leader europei e l’accusa di totale mancanza di diplomazia indirizzata al ministro della Difesa Usa.

Accusa certamente giustificata, ma Rumsfeld altro non ha fatto che riassumere in una sgradevole battuta ciò che molti commentatori Usa scrivono da mesi: l’Europa è un continente di ipocriti senescenti e deboli che vogliono godersi i benefici della pace e della prosperità senza assumersi alcuna responsabilità che richieda l’esercizio della forza; anzi, gli europei fanno del moralismo proprio nei confronti della superpotenza che permette loro di godersi la vita senza sporcarsi le mani: gli Stati Uniti.

L’analista che ha saputo meglio svelare l’ipocrisia europea senza ricorrere all’invettiva, ma con un rigoroso ragionamento politologico, è Robert Kagan, che su Policy Review ha scritto: «Il rifiuto europeo della politica della forza e la conseguente svalutazione della potenza militare come strumento da utilizzare nei rapporti internazionali hanno avuto origine dalla presenza delle forze armate americane sul suolo europeo. Il nuovo ordine kantiano dell’Europa ha potuto prosperare solo sotto la protezione del potere americano, esercitato secondo le regole del vecchio ordine hobbesiano. Grazie a questo potere, gli europei hanno potuto convincersi che la forza non era più rilevante.

La maggioranza degli europei non vede il grande paradosso, ossia che il passaggio dell’Europa nella post-storia dipende dal fatto che gli Stati Uniti non hanno compiuto quello stesso passaggio. Non avendo né l’intenzione né la capacità di proteggere il proprio paradiso e di evitarne l’annientamento – sia spirituale sia materiale – da parte di un mondo che non ha ancora accettato la regola della “coscienza morale”, l’Europa ha maturato una dipendenza dalla volontà americana d’impiegare la propria potenza militare per scoraggiare o sconfiggere i paesi del mondo che ancora credono nella politica della forza».

Per Kagan l’atteggiamento europeo ha spiegazioni storiche: uscita con le ossa rotte dalla Seconda guerra mondiale, l’Europa si è ritirata dagli scenari globali e ha continuato a restarne fuori anche dopo la fine della Guerra fredda, preferendo usare le sue risorse per il progetto della moneta unica e dell’unione allargata. Ma il risultato finale è comunque l’inconciliabilità fra la «psicologia della debolezza» europea, che schiva i pericoli e li rinvia anziché affrontarli, e l’approccio americano: un uomo armato di coltello preferirà nascondersi che affrontare un orso in cerca di preda nel bosco, ma un uomo dotato di fucile preferirà cacciare l’orso che rischiare l’agguato.

Condiscendenti verso chi li minaccia

Se l’unica crisi dell’ultimo quindicennio fosse quella irakena attuale, si potrebbe anche concordare con Prodi che è la saggezza, e non la codardia conseguenza della debolezza, a suggerire prudenza agli europei. Ma così non è: la storia dice che gli europei sono rimasti inerti per anni davanti ai massacri balcanici, cioè davanti al fuoco dentro casa loro; alla fine si sono fatti trascinare dagli americani in interventi militari non certo ben pianificati, e tuttavia decisivi per riportare la pace, in Bosnia e Kosovo. Né hanno mai proposto progetti praticabili per risolvere la crisi israelo-palestinese o quella irakena, mentre spesso hanno intralciato quelli degli altri: nel 1980 l’allora Cee disapprovò formalmente al vertice di Venezia l’accordo separato di Camp David fra Egitto e Israele sponsorizzato dagli Usa.

Più che di saggezza, si dovrebbe parlare di pavido cinismo: per non danneggiare i suoi scambi commerciali coi paesi arabi, per esorcizzare la minaccia di rappresaglie terroristiche, per evitare tensioni con le comunità di immigrati e naturalizzati dal Nordafrica e da altri paesi musulmani che stavano affluendo sul continente, l’Europa inaugurò una politica compiacente nei confronti del radicalismo arabo. Che dopo di allora ha conosciuto episodi vergognosi come la collaborazione dei servizi segreti italiani coi sicari di Gheddafi che hanno ucciso 13 dissidenti libici sul nostro territorio, l’acquiescenza europea all’occupazione siriana del Libano con l’estromissione del generale Aoun, ecc., fino all’ultimo atto del 20 gennaio scorso, a metà strada fra la tragedia e la farsa: la pilatesca astensione di sette paesi della Ue in occasione della votazione che ha condotto all’elezione della Libia alla presidenza della Commisione Onu per i diritti umani.

Ue sponsor del trionfo Onu di Gheddafi

L’esito del voto che permetterà ai libici di presiedere i lavori della Commissione alla prossima sessione, fra marzo ed aprile, non era scontato come si è cercato di far credere: la presidenza di turno toccava ad un paese africano, e i paesi africani, il cui voto Gheddafi ha comprato pagando in contanti, avevano avanzato la sola candidatura della Libia. Normalmente la nomina del presidente avviene per acclamazione, ma gli Stati Uniti, contrari alla candidatura libica, avevano chiesto che si votasse a scrutinio segreto.

Su 53 paesi votanti, solo Usa, Canada e Guatemala hanno votato contro: 17 si sono astenuti, tutti gli altri hanno votato a favore. Se i sette paesi della Ue votanti (Austria, Belgio, Francia, Germania, Irlanda, Regno Unito e Svezia) avessero fatto campagna per il rigetto della candidatura libica, mettendo sul piatto i loro aiuti ai paesi africani (molto più sostanziosi in confronto a quelli libici), le cose sarebbero potute andare diversamente.

Così non è stato, ed ora la più alta istanza internazionale per la difesa dei diritti umani si trova ad essere presieduta da un paese che non ha mai autorizzato una sola ispezione da parte di commissari Onu per i diritti umani e ha sempre respinto analoghe richieste di Amnesty International ed altre organizzazioni dello stesso tipo. Non senza buoni (dal suo punto di vista) motivi: la Libia è un paese dove non si sono mai svolte libere elezioni, tutta la stampa ed il sistema radiotelevisivo sono controllati dallo Stato, il sistema giudiziario manca totalmente di imparzialità e la creazione di partiti di opposizione o di sindacati può essere punita con la pena di morte.

La legge n. 71 stabilisce infatti che «chi propugna l’istituzione di qualsiasi gruppo, organizzazione o associazione vietata dalla legge» è passibile della pena di morte. La quale ha luogo più spesso per via extragiudiziale che non su di un pubblico patibolo. Scrive Human Rights Watch, organizzazione al di sopra di ogni sospetto (accusa puntualmente l’amministrazione Bush di violare diritti umani e civili nella sua lotta contro il terrorismo): «Negli ultimi tre decenni, il dossier libico in materia di diritti umani è terrificante. Esso comprende il rapimento, la scomparsa forzata o l’assassinio di oppositori politici; la tortura ed il maltrattamento dei detenuti; detenzioni a lungo termine senza capi di imputazione o senza processo o dopo processi grossolanamente ingiusti.

Oggi centinaia di persone restano detenute arbitrariamente, alcune da più di un decennio, e ci sono serie preoccupazioni circa il trattamento durante la detenzione e la correttezza delle procedure in numerosi processi di rilievo in corso di fronte alle Corti Popolari».

Gheddafi padre e figlio (Seif, diversamente dal padre campione di pubbliche relazioni) promettono grandi cambiamenti all’indomani dell’ascesa del paese alla prestigiosa carica. Ma nel frattempo le cose non vanno affatto bene. Un cittadino di Amsterdam lettore dell’International Herald Tribune ha scritto al giornale il 23 gennaio scorso: «Mi è venuto da ridere quando la Libia ha accusato gli Usa di tentare di bloccare la loro elezione per motivi “sionisti”.

Ho riso allo stesso modo nell’ottobre scorso quando ho scattato una foto ad una sinagoga in Libia e sono stato accusato di essere una spia al servizio della “cospirazione sionista”. Ho riso molto meno quando la polizia ha cominciato a colpirmi, ha minacciato di torturarmi e mi ha tenuto in prigione per una settimana, senza permettermi di contattare la mia ambasciata».

Ancora meno ridono i cinque bulgari ed il palestinese attualmente sotto processo accusati di aver volontariamente infettato di Aids 400 bambini libici, che hanno ritrattato la loro confessione accusando la polizia di averla estorta con la tortura. La Corte Popolare che li sta giudicando è stata abbastanza indipendente da respingere l’ipotesi formulata dal colonnello Gheddafi in persona che la vicenda sarebbe il frutto di un complotto dei servizi segreti americani ed israeliani, ma non tanto da permettere agli imputati di far deporre al processo virologi di fama che li potrebbero scagionare.

Ah, dimenticavamo: i 270 passeggeri dell’aereo della Pan Am esploso nel cielo della Scozia nel 1988 e i 170 del volo Uta esploso sul deserto del Niger nel 1989, in due attentati di chiara origine libica, erano quasi tutti europei. Ancora complimenti ai nostri rappresentanti presso la Commissione Onu per i diritti umani.