Sussidiarietà

sussidiarietàLe cose della vita, San Paolo, Milano 1995, p. 120

La domanda è questa: mentre crollano a furor di popolo i modelli di “società perfetta” innalzati dalle ideologie contemporanee (prima tra tutte il marxismo), che linee portanti dovrebbe seguire la possibile alternativa sociale proposta da coloro che credono nella Risurrezione del Profeta vagante ebreo?

di Vittorio Messori

Di nuovo, ecco la Pasqua. In questo giorno, in anni passati, avevamo tentato qualche riflessione diretta sul Fatto che chiude un’era e ne spalanca un’altra. Questa volta, vorremmo porci una domanda particolarmente attuale, cercando di vedere quale risposta ne dia la fede: la quale – anche se talvolta siamo tentati di dimenticarlo – è credere innanzitutto nel fatto che la Risurrezione di Gesù è davvero avvenuta, dando così la prova della verità del vangelo.

La domanda è questa: mentre crollano a furor di popolo i modelli di “società perfetta” innalzati dalle ideologie contemporanee (prima tra tutte il marxismo), che linee portanti dovrebbe seguire la possibile alternativa sociale proposta da coloro che credono nella Risurrezione del Profeta vagante ebreo?

In concreto, che volto potrebbe avere una società il più possibile umana, ispirata a quella dottrina che da Leone XIII (di cui celebriamo proprio ora il centenario della Rerum Novarum) sino a Giovanni Paolo II, la Chiesa – così spesso inascoltata, innanzitutto dai suoi – non ha cessato di proporre?

Forse,frastornati dai troppi documenti che si succedono a ogni livello della Gerarchia, rischiamo di perdere di vista le colonne portanti dell’edificio sociale che la fede propone di costruire. Quelle colonne sono poche e chiare e non sono affatto mutate. Pur nella diversità di accenti e nell’adeguamento alle nuove situazioni, la “dottrina sociale della Chiesa” si ispira – con immutata coerenza – ad alcuni principi basilari.

Proprio quelli che sembrano essere stati persi di vista, in questi decenni di smarrimento, dai molti che pure, operando nel sociale, pensavano di essere “cristianamente ispirati”. Mentre (seppure in ottima fede), andavano a rimorchio delle ideologie alla moda, che credevano di battezzare con qualche citazione evangelica isolata dal contesto.

Innanzitutto ogni progetto sociale cattolico dovrebbe avere – paradossalmente – il minore aspetto possibile di “progetto”. Dovrebbe essere cioè il contrario esatto di quelle “ingegnerie sociali” di cui parlammo e che hanno portato non solo alle molte Cambogie, Albanie, Cine, ma anche alle soffocanti, tristissime, spesso spietate (oltre che costosissime) socialdemocrazie “alla scandinava”. In effetti, partendo dalla fede in un Dio creatore, il cristiano deve avere chiaro che, più che a inventare un ordinamento per la società in base alle sue elucubrazioni “razionali” e ai suoi pericolosi sogni utopici, è chiamato a scoprire il progetto divino nascosto nella profondità degli uomini e delle cose.

La “scienza politica”, così, più che una questione di volontà, o di mutevole capriccio umano, diventa questione di riflessione sul mistero dell’esperienza. Non più, dunque, uno schema elaborato da teorici, ma un adeguarsi alla “natura”: cioè a quello che il piano di un Creatore ha inscritto nel cuore di ogni uomo; e che, per il cristiano, ha rivelato nei suoi Comandamenti. Questo, sia chiaro, non significa affatto una società “clericale”, dove si perda la salutare distinzione evangelica tra ciò che è di Dio e ciò che è di Cesare.

Non si tratta, ripetiamolo ancora una volta, di imporre a tutti uno “schema” sociale teorico, una gabbia che abbia poi bisogno della costrizione poliziesca. Si tratta, al contrario, di organizzare gli uomini rispettandoli nel profondo: se è Dio che ha creato ogni uomo, questi non sarà forse potenziato nella sua umanità, proponendogli una società che segua linee maestre non imposte dall’esterno da altri uomini ma impresse dal Creatore all’interno stesso della sua natura? Rispettare quella natura profonda non è forse rispettare l’umanità? E questa, in fondo, la “scommessa” della fede.

Non sono certo frutto della elucubrazione di qualche intellettuale riformista o demagogo i tre fondamentali “principi ordinatori” della dottrina sociale della Chiesa. Il primo è il principio di solidarietà, che ricorda all’uomo il dovere (e il diritto) che lo lega a ogni altro uomo e che respinge contemporaneamente sia l’individualismo liberale sia il collettivismo marxista. Il secondo è il principio del bene comune, secondo il quale il legittimo interesse dei più ha prevalenza, in caso di contrasto, su quello del singolo (purché, sempre sia salvaguardata la dignità e la libertà della persona individuale).

Il terzo “principio ordinatore”e’ quello forse meno conosciuto e ancor meno praticato: eppure, sarebbe stato il più prezioso, quello che ci avrebbe messi al riparo non solo dai totalitarismi di destra e di sinistra ma anche dal cancro burocratico, sempre crescente, delle sedicenti “democrazie sociali” occidentali e del cosiddetto “stato assistenziale”. Questo principio cattolico è quello detto di sussidiarietà.

La sua definizione teorica classica (ma nel concreto fu sempre conosciuto e praticato, nella Chiesa) è quella, del 1931, di Pio XI nella Quadragesimo anno: “Come è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria proprie per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare.

Ed è questo, insieme, un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché, oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera supplettiva le assemblee del corpo sociale, non già di distruggerle e di assorbirle…” La definizione, forse, non rende interamente il senso e la portata – davvero enormi – dell’applicazione concreta di questo principio (il cui nome deriva dal latino subsidia, che indicava le truppe di riserva).

Un principio che Pio XI (in accordo con i suoi predecessori e successori) definisce giustamente gravissimus, importantissimo. Bisognerà, dunque, scendere agli esempi concreti.

In questi decenni, anche cristiani della cui fede non è lecito dubitare, intimiditi dalla prepotenza delle ideologie moderne e dei loro militanti e propagandisti, hanno finito per adeguarsi, giocando quel ruolo di fiancheggiatori subalterni che Palmiro Togliatti, cinicamente, definì da “utili idioti”.

Dimenticato, dunque, anche il principio di “sussidiarietà”, a favore di un accentramento e di un dirigismo statali – o, comunque, pubblici – che nei Paesi dove il comunismo è andato al potere hanno creato il disastro che sappiamo, ma che pure in Occidente, innanzitutto in Italia (afflitta dal maggior partito comunista) hanno provocato guasti enormi che tuttora continuano. Anche se non ne sono consapevoli, tutti coloro che, da qualche tempo, invocano di “ritornare al privato” chiedono in realtà che venga applicato il “principio di sussidiarietà”, il quale e’, innanzitutto, una dichiarazione di fiducia nella libertà, nella dignità, nella capacità della singola persona umana.

Per dirla con Pio XII, che citava il suo predecessore, “ciò che l’uomo singolo può fare da sé e con le proprie forze, non deve essergli tolto per essere rimesso alla comunità”. Secondo slogan propagandistici infinite volte ripetuti, la difesa dell’iniziativa e della proprietà private (fin dove lecito) da parte della Chiesa e il suo rifiuto del collettivismo, sarebbero stati determinati da questioni di interesse, da oscuri legami tra ambienti cattolici e borghesi.

In realtà, dietro questa scelta c’era (e c’è, dobbiamo esserne consapevoli, adesso che i rottami della storia, a cominciare dai resti maleodoranti del marxismo, sembrano interessare soltanto dei “cattolici”), c’era e c’è, dunque, la consapevolezza che Dio ha voluto uomini che collaborassero alla creazione. E, a questo fine, ha dato a ciascuno di loro capacità di inventiva, di intraprendenza, che la società deve lasciare liberamente sviluppare.

Soffocare questo élan créateur, questo “slancio creatore” (per dirla con Bergson) non solo porta alla paralisi e poi alla cancrena della società, ma crea pure quegli uomini dimezzati, abulici, ormai incapaci di concepire che cosa significhi lavorare che stanno emergendo dalle rovine dei regimi comunisti.

Se, dunque, è positivo, perché è “naturale”, permettere all’individuo di fare, sino in fondo, la sua parte, altrettanto “naturale” è puntare – per il bene sociale del singolo, ma anche di tutti – su quella famiglia che è davvero, malgrado l’espressione abusata, la “cellula fondamentale della società”. Anche qui la “sussidiarietà” deve mostrare in pieno la sua forza: ciò che la famiglia può fare (ed è davvero moltissimo) va incoraggiato e dilatato, non certo compresso e mortificato, come invece si è così spesso tentato di fare.

Qui, tra l’altro, ci sarebbe da chiedersi (se li discorso non esigesse una trattazione a pane) se non abbia costi sociali disastrosi la continua predicazione – cui da tempo si associano anche tanti cattolici – per allontanare a ogni costo la donna, moglie e madre, dalla famiglia. Anche dal punto di vista della “sussidiarietà”, lo sradicamento femminile dall’ambito familiare non sembra dover dare buoni frutti né per la società né (malgrado le rassicurazioni, quasi tutte, però di parte maschile…) per la donna interessata.

La persona singola; la famiglia. E poi, via via, tutte le altre aggregazioni “spontanee”, come quelle tra coloro che esercitano lo stesso mestiere (le “corporazioni” della chrisrianitas medievale, che costituivano un esempio mirabile di solidarietà e insieme di efficacia sociale) e quelle tra coloro che abitano sullo stesso territorio.

Quella “piccola patria” che è il Comune è stata anch’essa conculcata, in questi decenni; è stata esautorata, messa al servizio di enti superiori, con sede nella capitale o nel capoluogo di regione. Addirittura, ai municipi è stata tolta ogni autonomia finanziaria: tasse e imposte sono stabilite e risucchiate dal solo Stato, il quale poi si degna di darne parte ai comuni. Sistema, anche questo, frutto dello statalismo marxista e recepito poi da quel partito che pure si chiamò di “democrazia cristiana” a che non a caso (ai tempi di don Sturzo) adottò come simbolo lo scudo crociato; che e’ l’emblema del Comune medievale, dunque il simbolo di una società tutta basata sulle autonomie locali. Pertanto, sul “principio di sussidiarietà”.

Principio che la classe politica al potere – che pure faceva professione pubblica di cattolicesimo – ha sistematicamente violato in quasi tutte le riforme varate in questi anni (riforme che, anche per questo, hanno sempre aggravato i mali cui dicevano di volere porre rimedio). Si pensi al mito centralista e collettivista che ha presieduto alla riforma disastrosa per eccellenza, quella sanitaria; con l’abolizione, tra l’altro, delle “mutue” delle singole categorie.

Avevano i bilanci in attivo e assicuravano una discreta assistenza: furono distrutte per l’odio della cultura comunisteggiante per ciò che sappia di “privato” di “corporativo”. Sacrificate, come tante altre istituzioni “naturali” (e, dunque, efficaci) sull’altare dello stato totalitario, il cui modello è pur sempre quello della rivoluzione francese: la casta dei politici di professione che, nella capitale, tutto accentra e dalla quale tutto controlla. Il contrario dell’Ancien Régime, tutto basato sul decentramento e l’autonomia locale

Nella moderna prospettiva totalitaria (che è di sinistra, ma che è altrettanto di destra) l’immagine che rappresenta la società è una piramide. Mentre l’immagine cattolica” è una serie di cerchi concentrici, che via via si allargano ma dove, all’interno dì ciascuno, ferve una vita autonoma che spinge e sorregge la vita dei cerchi adiacenti. O, meglio ancora, l’immagine (che è di Paolo stesso) del corpo umano, dove è sì un cervello a coordinare ma, senza l’attività autonoma delle membra, dalle più piccole alle più grandi, la testa non potrebbe far nulla.

Smantellare, dunque, la costruzione socio-politica accentrata (e soffocata) dalla burocrazia (cancro inevitabile dello stato “giacobino”, quale che sia il suo colore politico), per ridare respiro e vita alle enormi potenzialità della società la quale – a livello personale, familiare, categoriale, cooperativo, comunale, regionale e così via – può produrre frutti positivi, e per tutti, inimmaginabili dallo statalismo.

Questo doveva e questo dovrebbe essere, il “progetto” cattolico. Il quale, come si vede, non é di certo un sistema utopico, ma e’ la presa d’atto di una realtà sociale che la fede può illuminare; ma ragione ed esperienza bastano per individuarne e constatarne i frutti positivi. Si tratta, tra l’altro, di un “progetto” straordinariamente attuale: come il rozzo “leghismo” confusamente rivendica e come confermano anche i molti pentiti di oggi del “tutto pubblico, tutto collettivo, tutto uniforme e statale” di ieri.

Come al solito, anche in campo sociale, quei credenti che si credevano “d’avanguardia” perché rinnegavano la Tradizione, in pochissimo tempo si sono trovati nel ghetto dell’anacronismo. Mentre la vera attualità, quella di sempre, stava in quel “principio di sussidiarietà” che (assieme agli altri due) è alla base della prospettiva cattolica.