Perché sono 150 anni che lo Stato tenta di papparsi le feste cattoliche

calendarioTempi n. 30/31 – 8 agosto 2012

di Angela Pellicciari

Fino a giovedì 19 luglio sembrava che il governo Monti, in nome dell’emergenza economica e della necessità di produrre di più, fosse intenzionato ad accorpare alcune festività religiose e civili. Poi, il giorno dopo, al Consiglio dei ministri, il capo del governo ha smentito questa ipotesi. Vedremo se non ci saranno ulteriori ripensamenti. Comunque sia, c’è poco di nuovo sotto il sole. Numerosi e reiterati sono stati i tentativi dei governi della Repubblica di farci lavorare nei giorni di festa: gli italiani andrebbero aiutati a dedicare più tempo al lavoro.

Oggi ne andrebbe di un punto del Pii. E allora via alla razionalizzazione delle solennità dei Patroni, dell’Immacolata e dei Santi. Come se gli eventi che quelle festività commemorano fossero equivalenti: la Vergine senza peccato, la festa dei santi Pietro e Paolo o di Ambrogio o di Gennaro o quella di tutti i santi, potrebbero essere spostati a piacimento, un giorno vale l’altro.

E no! Non è così. Un giorno non vale l’altro. Un giorno non è la stessa cosa di un altro perché le feste cristiane non sono feste ideologiche come quelle della donna, della mamma, del papa, dei nonni e così via. Sono feste storiche, cioè legate a fatti. Ambrogio, Gennaro e i vari patroni che festeggiamo sono saliti al cielo in un giorno determinato, non in un altro. E noi li ricordiamo quasi sempre nel giorno della loro nascita alla vita eterna.

Non è solo un problema di produttività

Le statistiche dicono che siamo all’11 per cento della popolazione senza lavoro. Sono tanti quelli che cercano un impiego con pochissime speranze di trovarlo: sia giovani che uomini e donne adulti che il lavoro lo hanno perso. Per contro, tantissimi italiani fanno due o anche tre lavori: la laboriosità e l’ingegnosità del nostro popolo sono cosa nota.

Bisognava attendere l’unità d’Italia all’epoca dei Savoia e dei liberali governi sardi perché gli italiani venissero dipinti come buontemponi, fannulloni e inguaribili festaioli. Il 9 marzo 1850, da poco entrato nell’agone politico, alla Camera dei deputati del parlamento subalpino Camillo Benso conte di Cavour afferma: «Io penso che un soverchio numero di feste torni fuor misura nocevole alle classi operanti perché siffatte feste straordinarie non si dedicano per lo più al riposo, ma si spendono in quella vece in sollazzi e mali altri usi».

Il moralista Cavour, che di “sollazzi” se ne concedeva parecchi, toglie ai poveri i pochi che hanno. Cavour conduce un attacco frontale all’accattonaggio e alle festività religiose perché vuole giustificare e preparare il terreno alla soppressione di tutti gli ordini religiosi (ordini della Chiesa cattolica che il primo articolo dello Statuto definisce religione di Stato) a cominciare da quelli mendicanti.

Gli uomini del risorgimento sono convinti che francescani e domenicani passino la vita oziando essendo poi costretti a chiedere l’elemosina come il loro stesso nome indica. Un pessimo esempio. La cancellazione degli ordini religiosi permette a Cavour di consolidare l’appoggio delle potenze protestanti e liberal-massoniche che sono i grandi (e unici) sponsor dell’unità d’Italia sotto i Savoia.

Scrive Rosario Romeo a proposito della politica religiosa dei governi Cavour: il conte ben «conosceva l’influsso che i gruppi protestanti avevano sull’opinione pubblica inglese. Un argomento di politica estera di fondamentale importanza si aggiungeva dunque alle motivazioni ideologiche del liberalismo cavouriano in fatto di religione».

A quali interessi e a quali valori ci dobbiamo omologare oggi? La pretestuosità dell’attacco alle festività religiose, opportunamente accomunate a quelle civili, dovrebbe essere evidente. Ad essere in gioco è, ancora una volta, una questione morale. Morale liberale, fin dall’inizio dell’Italia unita opposta e contraria a quella cattolica.