Proprietà e libertà sotto attacco ai tempi della pandemia: rileggere Hans Hermann Hoppe per difenderci

Atlantico 1 Giugno 2021

di Marco Proietti

La proprietà privata è sotto attacco, e con essa a rischiare sono le libertà individuali poste a sacrificio sull’altare di un’ossequiosa e disarmante dedizione verso l’apparato.

Nel pieno vigore delle regole pandemiche, quando un caffè al bar aveva lo stesso sapore della Grande Fuga di John Sturges, ed ogni passeggiata nel parco sotto casa poteva essere colpita dall’inflessibile mano di virologi e star del momento – catturati dalla smania della delazione, del “io l’ho fatto”, per dimostrare la propria integerrima posizione per il bene comune – sono state introdotte una serie di norme “sornione” che ancora vivacchiano nel nostro ordinamento e nei fatti hanno paralizzato tutto il sistema: dal blocco degli sfratti a quello dei licenziamenti, passando per la sempre verde richiesta di patrimoniale per tutti, ipotesi “sinistra” che non nasconde (e nemmeno ci pensa!) l’odio verso l’individuo.

Il libro professionista è un evasore. L’imprenditore è uno sfruttatore. Il proprietario di immobili è un feudatario possidente. Di fronte al cataclisma pandemico, economico e sanitario, il rilancio è così servito: più Stato, più tasse e più sussidi. Abbattere il ceto medio verso il basso, distruggere ogni possibile sussulto di meritocrazia, e poi tenere in vita il meccanismo con una sapiente combinazione di vani concetti quali “il bene comune” o l’idea di una “società migliore”.

Si può rispondere a tutto questo, e lo possiamo fare usando la provocazione di un libro illuminante e d’avanguardia: “Abbasso lo Stato e la Democrazia” di Hans Hermann Hoppe. In pochi punti, per certi aspetti radicali, la sintesi di una visione nuova. La giustizia dell’efficienza economica – Il primo punto che affronta Hoppe guarda al come la società si organizza per promuovere e accrescere la ricchezza, partendo dalla descrizione del concetto di scarsità di beni: la mancanza di risorse rende inevitabile l’esistenza della proprietà privata, quale unico strumento efficiente per garantire il superamento dello status quo di indigenza o di difficoltà alla sopravvivenza.

Siamo nel pieno di Ludwig Von Mises e degli insegnamenti della scuola austriaca, ma Hoppe si spinge anche oltre e quando richiama la proprietà privata lo fa guardando anche a John Locke, secondo il quale ogni persona possiede il proprio corpo così come tutti i beni scarsi “che stima di usare con l’aiuto del proprio corpo prima che qualcun altro faccia altrettanto”.

L’esistenza della proprietà privata, quindi, implica la possibilità di utilizzare le risorse scarse fino ad un certo limite, costituito dalla possibile aggressione alla sfera di libertà altrui, riducendone di fatto la fruizione: la proprietà, in sintesi, potrà essere acquisita solo in virtù di un rapporto negoziale tra le parti e non per l’intervento esterno di un terzo (ad esempio dello Stato), oppure a causa di un atto di violenza del singolo.

Se così non fosse, si finirebbe per ridurre il benessere complessivo in nome di una generica redistribuzione della ricchezza e, in definitiva, si avvierebbe la società verso un più basso tenore di vita in termini di beni di mercato e servizi.

Contro la centralizzazione – Il secondo punto, essenziale, guarda alla frammentazione e alla secessione come modello per una migliore gestione delle risorse (scarse), nonché una più aderente politica territoriale e una imposizione fiscale moderata (garantita da sprechi ridotti).

Hoppe vede nel secessionismo una forza di progresso che “metterà fine all’integrazione forzata e invece di suscitare antagonismi sociali e livellamento culturale, favorirà la concorrenza pacifica e cooperativa di culture diverse e su territori separati”. Il passaggio è delicato in quanto egli guarda all’idea di efficienza di ciò che è piccolo, poco dispendioso, snello e basato su poche norme semplici.

Piccolo è bello ed efficiente – Secondo Hoppe lo Stato rappresenta un monopolio territoriale di coercizione, un organismo con il potere di compiere espropriazioni continue e istituzionalizzate della proprietà, sfruttando i legittimi proprietari con tasse e regolamentazioni varie: tutti gli Stati cercano di aumentare e rafforzare questa condizione di sfruttamento, espandendosi ai danni di altri Stati ed iniziando una competizione per il monopolio territoriale della coercizione.

Questo meccanismo innesca una forza centripeta che alimenta la centralizzazione verso un enorme Stato centrale mondiale. Accrescere questo sistema significa incentivare lo sfruttamento interno (ovvero le tasse) e l’espansione esterna (ovvero le guerre di vario tipo). In questa analisi, Hoppe svolge alcune considerazioni storiche su esempi pratici (quali l’Impero ottomano oppure quello asburgico) per dimostrare come la frammentazione in piccole realtà istituzionali semplifichi burocrazia e norme, ponendo un naturale freno all’ingordigia degli Stati verso l’accaparramento di nuovi spazi da sfruttare, rappresentando perfino un argine contro le guerre su scala mondiale.

Abbasso la democrazia! – La democrazia è una macchina popolare di redistribuzione di redditi e di ricchezza che si basa, essenzialmente, sul seguente meccanismo: prendere ai possessori e produttori originari (coloro i quali hanno qualcosa) per dare a chi non possiede o non produce. Secondo Hoppe questo schema spinge a diventare non-possessore o non-produttore invece di ingegnarsi per possedere o produrre.

È la logica fin troppo conosciuta dell’assistenzialismo spicciolo, che nel nostro paese si è manifestato con tutta la sua violenza ideologica tramite quello strumento obbrobrioso denominato “reddito di cittadinanza”: tassare chi produce e chi possiede, abbattendo al livello base tutta la popolazione, e quando saranno tutti sufficientemente poveri, beh allora sussidiarli così da renderli in eterno dipendenti dallo Stato. È una logica che mette i brividi anche solo a descriverla.

Sovvenzionare i poveri, rimarca Hoppe, non fa che aumentare la povertà poiché si alimenta il vantaggio di non elevarsi mai da tale condizione. Leggere Hans Hermann Hoppe, così come Murray Rothbard, aiuta ad avere uno sguardo molto più lucido sugli assetti che si stanno consolidando dopo la pandemia, e che hanno portato – essenzialmente – ad una più netta demarcazione tra chi si pone a difesa delle libertà individuali e chi sogna una società iper sussidiata, coccolata in eternis nella culla comoda dello Stato.

Forse la posizione di Hoppe può sembrare estrema, ma è radicalizzando certi concetti che si può cogliere il messaggio trasmesso: l’eccessiva ingerenza dello Stato crea povertà, abbatte verso il basso la scelta dell’individuo e livella (in modo marxiano) gli uomini ad uno stadio primordiale di abbrutimento culturale, politico, economico.

E da noi, la musica è anche peggiore. Ci troviamo immersi all’interno di una società misurata, livellata, appiattita, ove ogni sussulto di intelligenza viene bollato come prevaricazione, e la meritocrazia è collocata nel regno delle belle frasi da utilizzare in un talk show con la gamba accavallata dimenticando che la stessa si realizza solo con la libera competizione; da noi si vive il retaggio culturale del Partito Comunista in tutte le sue evoluzioni e rivoli, quella sinistra fatta di vip e super-radical alla ricerca di un proprio elettorato e che spinge sempre di più (per propria indole storica) verso una “logica del conflitto” esplicandosi in vari tipi: uomo/donna, lavoratore/datore, etero/gay, genitore/figli, bianco/nero, giallo/rosso, verde/azzurro, mozzarella/prosciutto, e via dicendo in un susseguirsi di qualunquismo nauseabondo ove il massimo esempio di maturità politica si esplica nel mettere a testa in giù un libro.

Ben venga, allora, la freschezza provocatoria di Hoppe che ci fa assaporare la sensazione di una società più “leggera” e sicuramente libera da tanti vincoli, spesso ideologici, di cui possiamo fare molto volentieri a meno.