La fuga delle quarantenni

donne_cattolicheLa Rivista del Clero italiano aprile 2012

Nuovi scenari del cattolicesimo italiano

di Armando Matteo

La pratica religiosa in Italia sta velocemente mutando. Recenti indagini sociologiche mostrano infatti con chiarezza che, non solo a livello delle espressioni istituzionali e visibili della fede, ma anche a livello delle convinzioni, esiste una profonda frattura generazionale. Questo dato è accompagnato da una seconda, sorprendente, evidenza che lo studio di don Armando Matteo, docente di Teologia fondamentale presso la Pontifìcia Università Urbaniana, mette a fuoco: il cospicuo e rapido allontanamento delle giovani generazioni femminili dal cattolicesimo.

Si tratta di un elemento di novità particolarmente significativo e allarmante, in un Paese ove la trasmissione della fede è da sempre matrilineare, che interpella la pastorale a considerare anche alla luce della crudezza di questi dati i temi urgenti e centrali dell’educazione alla fede e della nuova evangelizzazione. A questo intervento, che si concentra sul profilo diagnostico della questione, seguirà, nella seconda parte dell’anno, un articolo propositivo di taglio pastorale.

1 Non è difficile capire che il clima socio-religioso in Italia sta cambiando, basta esercitare uno sguardo meno superficiale su quello che capita intorno a noi. E il dato più rilevante riguarda senz’altro il mondo delle nuove generazioni.

Al termine di una lunga disamina di dati, tabelle, confronti, parallelismi afferenti a un’inchiesta sull’Italia cattolica promossa dall’autorevole rivista «II Regno», eseguita nel giugno del 2009 e resa nota nello stesso mese dell’anno successivo, il sociologo Paolo Segatti, dell’Università degli studi di Milano, e Gianfranco Brunelli, direttore responsabile del «Regno», non nutrono alcun dubbio nell’ affermare che in tema di fede, quando si considerino gli italiani nati dopo il 1981, «sembra veramente di osservare un altro mondo».

Nel nostro Paese, vi sarebbe dunque una linea netta di separazione, in relazione alle credenze e condotte religiose, segnata proprio dai ventenni e dai trentenni: «[…] i giovani, in particolare quelli nati dopo il 1981, sono tra gli italiani quelli più estranei a un’esperienza religiosa. Vanno decisamente meno in chiesa, credono di meno in Dio, pregano di meno, hanno meno fiducia nella Chiesa, si definiscono meno come cattolici e ritengono che essere italiani non equivalga a essere cattolici» (1).

A supporto viene pure citata un’altra ancora più recente indagine (marzo 2010), Giovani di fronte al futuro, con o senza fede, condotta dall’istituto IARD RPS, la quale in particolare ha evidenziato la drastica diminuzione di giovani italiani disponibili a definirsi cattolici: nel giro di sei anni appena si è passato dal 66,9% al 52,8% di 18-29 italiani che si dichiarano cattolici (2)!

Sono proprio tali numeri e altri simili a questi che inducono Segatti e Brunelli a rilevare che lo stacco generazionale tra i nati dopo il 1981 e le coorti d’età precedenti, nella propria adesione alla religione cattolica, «è così forte da non consentire di rubricarlo in una sorta di dimensione piana, in un processo dolce e lineare di secolarizzazione».

Ovviamente basterebbe interrogare al proposito un qualsiasi parroco, per avere conferma di questo dato: i ventenni e i trentenni sono ormai una vera e propria rarità nelle comunità cristiane. Celebrato il sacramento della cresima, abbandonano quasi del tutto una qualsiasi pratica abituale di fede. E di certo con grande disappunto e anche con grave dispiacere di tutti. Ed è sempre più complesso comprendere come poter far fronte a tale situazione.

Ma cosa c’entra tutto questo con le quarantenni e prima d’ogni cosa con le donne, evocate nel titolo del nostro saggio?

Piccole incredule crescono

Ebbene, torniamo per un momento ad ascoltare un altro dato dell’inchiesta del «Regno». Il duo Segatti-Brunelli, dopo aver segnalato il fatto che la generazione 1981 rappresenta un cambio deciso di marcia rispetto al modello ideale di Italia “Paese cattolico”, evidenziano che, dai dati a loro disposizione, oltre allo scarto generazionale, emerge una «riduzione sostanziale della differenza di genere.

Non vi sono differenze sostanziali tra uomini e donne». Questa è la novità: le giovani donne non manifestano, rispetto ai loro coetanei maschi, elementi di differenziazione “sostanziale” in relazione alla pratica di fede. Fatta eccezione per l’abitudine alla preghiera, che vede le donne indipendentemente dall’età sempre più avanti rispetto ai loro coetanei maschi, le nate dopo il 1981 sono tra le italiane le più estranee ad ogni esperienza religiosa nella stessa misura dei nati dopo il 1981: in ugual misura dei loro coetanei, quindi, le giovani donne vanno di meno in chiesa, credono di meno, hanno meno fiducia nella Chiesa, si definiscono meno come cattoliche e ritengono che essere italiane non equivalga ad essere cattoliche.

Non esiste quindi una novità solo sul piano verticale delle generazioni, per la quale nel nostro Paese più si è giovani più si è lontani dell’universo ecclesiale; esiste pure una differenziazione interna al mondo femminile: il tradizionale scarto di una maggiore adesione alle credenze e alle pratiche di fede che ha sempre connotato le donne rispetto agli uomini e che è sostanzialmente confermato nelle generazioni più adulte, tende ad azzerarsi con il comparire delle nuove generazioni di donne.

Questo è davvero qualcosa di inedito per la Chiesa cattolica: il suo rapporto privilegiato con l’universo femminile manifesta qui una prima e significativa incrinatura.

Su questa autentica novità ha speso parole molto precise e giustamente preoccupate il sociologo Alessandro Castegnaro, presidente dell’Osservatorio Socio-Religioso Triveneto. Sulla base delle numerose indagini da lui coordinate sulla religiosità della regione di Nord-Est (in particolare nelle Diocesi di Trieste, Venezia, Adria-Rovigo, Concordia-Pordenone) e su quella basata sulla diocesi di Vicenza ed esplicitamente dedicata al mondo dei giovani, egli evidenza proprio molto bene la marcatura di genere delle differenze intergenerazionali che i dati raccolti lasciano emergere: «Se si confrontano le figlie con le madri l’indice di appartenenza perde tra il 20 e il 48% del valore, quello di esperienza tra il 17 e il 25; quello di credenza tra il 12 e il 20. La percentuale di ragazze praticanti su base settimanale perde tra 9 e 22 punti» (3).

Proprio per questo egli afferma che, all’interno della più ampia fatica della comunità credente nel suo lavoro con i giovani, esiste «uno specifico problema nei rapporti tra le giovani donne e l’Istituzione». Inoltre sulla base della sua consolidata esperienza e sulla base di quanto già accaduto in altre parti d’Europa, in particolare in Francia, invita con decisione a non sottovalutare tale specifica questione, prospettando facili riprese nel futuro da parte delle giovani donne del loro rapporto con la dimensione istituzionale della fede.

Non si ha a che fare semplicemente con una questione dell’età: più decisamente è una questione generazionale. Con le sue parole: «La presa di distanza dal mondo della religione, dalla Chiesa e dalla pratica in particolare, era evidentemente in buona parte già avvenuta nei maschi, non ancora nelle femmine, che ora si sono allineate. Se agisse solo l’effetto età della vita e non quello generazionale, più duraturo, non ci sarebbe ragione perché questa distinzione si manifestasse».

Qual è la vera posta in gioco in questi numeri che stiamo analizzando? È lo stesso sociologo Castegnaro che rileva l’urgenza di questa novità. In un’intervista al quotidiano «Avvenire», egli ha sottolineato che il sostanziale allineamento dei comportamenti religiosi delle giovani donne a quelli dei giovani maschi «avrà ricadute di lungo periodo se si considera che la trasmissione della fede nelle famiglie segue più la linea femminile che quella maschile ed è la ragione per cui pensiamo che si tratti di cambiamenti non legati alla particolare età della vita, ma destinati in parte a permanere anche nelle età successive» (4).

Ecco il punto: la trasmissione della fede. Un compito da sempre assicurato, all’interno del panorama cattolico italiano, soprattutto dalla figura materna. È lei che appunto insieme con il latte offre pure il germe di una fede religiosa, è lei che dona insieme alle istruzioni per vivere pure quelle per credere; è nei suoi occhi, insomma, che il piccolo d’uomo non solo scopre la prima e più efficace mappa del mondo, ma pure la presenza di un Tu invisibile al quale fiduciosamente rivolgersi nel suo far proprio il mestiere di vivere.

È proprio questa una delle vere leve della forza della Chiesa cattolica, nella sua storia: la preziosa opera di catecumenato familiare assicurato dalle donne. E cosa accade se la mamma diventasse al riguardo latitante? Il titolo dell’intervista prima citata di «Avvenire» al sociologo Castegnaro non lascia dubbi: «La fede [è] a rischio».

L’anima dei giovani e delle giovani messa a nudo

La questione qui accennata e cioè del crescente difficile rapporto tra le giovani donne e la Chiesa richiede un ulteriore approfondimento su un altro versante. Le indagini sin qui citate hanno chiamato in causa soprattutto gli aspetti più istituzionali e tradizionali della pratica religiosa: credere in Dio, abitudine alla preghiera, frequenza della Messa, autodefinizione di cattolicità, relazione tra la propria identità italiana e la propria appartenenza religiosa. Sono ovviamente questi i criteri più rilevanti sotto il profilo di una riflessione seriamente preoccupata circa la presenza futura della Chiesa nel contesto italiano.

Del resto, solo con una relazione effettiva con le generazioni più giovani, non virtuale o ad intermittenza, è possibile affrontare la que­stione delle vocazioni ai ministeri ecclesiali, il tema del ricambio del tessuto umano delle parrocchie, delle associazioni e dei movimenti, la necessità di una nuova leva di cristiani impegnati nella politica e soprattutto la presenza umanissima e quotidiana di credenti capaci di segnare quella differenza cristiana, di cui ci ha ampiamente e pertinentemente istruito Enzo Bianchi, quale vera testimonianza al Vangelo di Gesù nel bel mezzo di una società plurale e sempre più sotto lo scacco di logiche assai discutibili (5).

E tale relazione ha bisogno di contatti, di frequentazioni, di disponibilità a riconoscere e a vivere un legame con la realtà Chiesa, con i suoi tempi e i suoi spazi. La quale, a sua volta, è urgentemente interpellata a lasciarsi profondamente interrogare da questa fuga dei giovani e in particolare delle giovani donne. Cosa che purtroppo ancora non accade.

Eppure, lo riconosciamo anche noi, non si può ridurre tutto al semplice “andare o non andare a Messa”. Come stanno allora i rapporti dei giovani e delle giovani donne con il più generale universo della fede, a parte l’andare in Chiesa?

La domanda è assolutamente azzeccata: spesso, infatti, si dice e quindi si presuppone che l’Italia possieda un’anima cattolica, anche se le Chiese tendono a diventare sempre più vuote, anche se diminuisce il numero di celebrazioni dei sacramenti del matrimonio e del battesimo, anche se il numero di giovani sacerdoti non riesce in alcun modo a compensare quello dei sacerdoti che vanno in pensione o in paradiso, anche se il numero di consacrate diminuisce costantemente.

A fondare tale supposizione di un’anima cattolica del nostro Paese sarebbe proprio l’anima degli stessi italiani e delle italiane, i quali e le quali manifesterebbero sempre una prossimità quasi assoluta alle posizioni della Chiesa, sia per quel che riguarda le questioni legate al tema della laicità che per quelle più eticamente sensibili. Anche se non vanno in Chiesa in modo regolare.

Detto in modo più semplice: fatta salva la presenza di appartenenti ad altre confessioni cristiane non cattoliche e quella di credenti di altre religioni, fatto pure salvo un certo numero di atei, agnostici, razionalisti, avremmo, secondo un diffuso modo di pensare, una parte di italiani credenti e praticanti e un’altra parte di italiani non praticanti ma credenti o quanto meno sensibili alla visione cristiana della vita.

Ecco, allora, la figura che sostiene tanti discorsi circa il presente cattolico dell’Italia: Il non praticante credente, il credente anonimo. La plausibilità di tale concetto, soprattutto in riferimento al passato e in riferimento al mondo maschile (quello che è stato sempre meno praticante) è più che sostenibile, ma è una figura ancora valida? Può essere applicata ai giovani e in particolare alle giovani donne?

Per provare a rispondere a questi interrogativi ci viene incontro una recente indagine sulla religiosità degli italiani, in modo eccellente coordinata da Franco Garelli, dell’Università degli studi di Torino, e intitolata Religione all’italiana. Inanima del paese messa a nudo (6). Dell’indagine consideriamo soprattutto i temi relativi alla laicità e al rapporto della fede con la politica e l’etica.

L’evidenza maggiore che la lettura dei dati e la loro interpretazione lascia emergere è il rilievo per il quale l’anima del Paese abbia due velocità o, utilizzando la metafora usata da Garelli, vengano messi a nudo due volti di Paese. Vuoi per il nodo del crocifisso esposto nei luoghi pubblici, vuoi per il finanziamento alla Chiesa tramite il meccanismo dell’8×1000 e per il regime di esenzioni di cui essa gode (recentemente al centro di grossi dibattiti pubblici), vuoi per la questione della scuola cattolica e per l’ora di religione, vuoi ancora per la presenza della Chiesa nello spazio del dibattito pubblico (con particolare riferimento al referendum sulla procreazione assistita) e infine per l’opportunità di appelli ecclesiali in campo sociale ed etico, la situazione degli italiani è più o meno la seguente: aumentando l’età dei soggetti diminuisce la distanza dalle posizioni ufficiali della Chiesa, diminuendo l’età dei soggetti aumenta la distanza da quelle posizioni.

A proposito per esempio dell’opportunità di esporre il crocifisso nei luoghi pubblici, scrive Garelli che «proprio l’età e il livello di istruzione (più che il genere) sono le variabili che incidono maggiormente su questo orientamento; passando infatti dalle classi di età più giovani a quelle più anziane, e dai livelli di istruzione più elevati a quelli più bassi, aumenta progressivamente la propensione delle persone a giustificare la presenza del simbolo cristiano negli edifici pubblici» (7).

Non sarà sfuggito al lettore l’indicazione che la variabile “genere” non produce più variabili di sostanziali differenze. E questa è la differenza su cui vorremmo di più richiamare l’attenzione.

Inoltre c’è da precisare che la frattura determinata ormai solo dalla variabile “età” tende a restare essa stessa non più rilevante se ci si sofferma su alcuni divieti ecclesiali assai caratterizzanti, soprattutto in passato, il costume dei credenti praticanti. Scrive Garelli: «Ad esempio, il 75,2% degli italiani non condivide il divieto ai giovani di avere rapporti sessuali prima del matrimonio, e oltre l’80% disapprova la proibizione alle persone divorziate e risposate civilmente di accostarsi ai sacramenti» (8). Questi due ambiti sono particolarmente sensibili, in quanto in essi la presenza della variabile donna è particolarmente rilevante.

Ci pare utile qui riportare pure alcuni dati e alcune considerazioni relative alla morale sociale (evasione fiscale, assenteismo sul lavoro, ottenere benefici dallo stato senza averne diritto) e alla morale privata (divorzio, esperienze omosessuali, tradimento del partner, convivenza, frequentazione prostitute, ecc.).

Dall’insieme delle risposte emerge il fatto che la maggioranza degli italiani, pur continuando a difendere i valori tradizionali della convivenza civile e della famiglia, ammette, come possibili, scelte differenti e contrarie agli insegnamenti della Chiesa.

A una visione, più particolareggiata, si lascia però intuire, non senza preoccupazione, che «il distacco dalle norme di cittadinanza aumenta progressivamente con il diminuire dell’età, delineando un trend generazionale che getta una luce preoccupante sul futuro». Per questo «la variabile età è quella che più divide gli italiani sui temi di etica sociale e pubblica, anche se differenze (di minore entità) si riscontrano considerando altri profili della popolazione» (9).

Una simile considerazione vale anche per le norme relative alla morale individuale e familiare. È pur vero che la differenza genere, insieme a quella di istruzione e di contesto di vita, giocano un certo ruolo, per cui gli orientamenti su questo ambito più distanti dalla morale tradizionale sono espressi dagli uomini, ma è altrettanto vero che essi – gli orientamenti distanti dalla morale tradizionale – «aumentano con il ricambio generazionale e con l’innalzamento del livello di istruzione, toccando le punte massime tra i giovani e i laureati» (10). E in Italia il 60 per cento dei laureati è donna e solo il 40 per cento uomo (11).

Insomma, non solo sul livello delle espressioni istituzionali e visibili della fede, ma anche sul livello della prossimità alle posizioni della dottrina ecclesiale, vi è una frattura generazionale molto profonda nell’anima dell’Italia, la cui marcatura specifica attuale è l’omogeneità tra i generi. Ma cosa c’entra tutto questo con la fuga delle quarantenni?

La fuga delle quarantenni

Gli elementi sin qui evidenziati circa la sostanziale estraneità e disaffezione all’universo religioso cattolico di coloro che sono nati dopo il 1981, indipendentemente dalla differenza di genere, in verità si inizia ad annunciare anche alla “latitudine 1970”, in particolare se si mette in correlazione al criterio età pure il criterio livello di istruzione, nell’analizzare l’anima degli italiani e delle italiane.

Ci istruisce a sufficienza su questo elemento ancora l’inchiesta del «Regno», già citata. I suoi due curatori, dopo aver richiamato la specificità della generazione 1981, si sono interrogati più a fondo anche circa la seconda risultanza generale della loro inchiesta e cioè le enormi differenze, per quel che riguarda l’andare a messa, il credere e il pregare, tra uomo e donna. Che appunto a livello generale tale differenza sussista, oggi, in Italia, di per sé è cosa più che ovvia. Meno ovvia, quando entra in gioco la prospettiva quarantenni.

Segatti e Brunelli si sono, perciò, chiesti che cosa accade di questo divario tra uomini e donne se si considerano le variabili età e istruzione. La loro risposta non potrebbe essere più precisa: nei gruppi omogenei, quelli quindi che mettono in relazione uomini e donne della stessa fascia d’età e del simile livello di istruzione, il divario tende a diminuire. E il punto critico di rottura è l’essere nato prima o dopo il 1970.

Nella generazione 1970, infatti, le differenze di genere non sono più evidenti ed enormi, come invece per le generazioni precedenti: «Delle due caratteristiche (periodo di nascita e livello di istruzione) -scrivono Segatti e Brunelli – è dunque la prima che ha decisamente un peso maggiore nel modificare la differenza nella pratica tra uomini e donne. Infatti se si considera il variare di livello d’istruzione, tra i nati prima del 1970 la differenza tra donne e uomini diminuisce solo di 2 punti, mentre tra i nati dopo il 1970 diminuisce di 3 punti.

Il divario tra donne e uomini invece diminuisce sensibilmente se consideriamo i diversi periodi di nascita». Sono infatti 8 punti per chi ha un’istruzione bassa e 9 punti tra coloro che ne hanno un’alta: «Ciò mostra che la pratica regolare delle donne tende a diventare simile a quella degli uomini soprattutto per effetto del mutamento generazionale. Non esisterebbe quindi un effetto genere indipendente dagli effetti delle altre due caratteristiche» (12).

Anche per quel che riguarda la dimensione del credere in Dio il divario minore tra uomini e donne si registra «tra chi ha un’alta istruzione ed è nato dopo il 1970 (13)

Come abbiamo avuto modo di accennare precedentemente, rimane una sostanziale differenza delle donne rispetto agli uomini in relazione alla predisposizione a pregare anche tra coloro che rientrano nei gruppi omogenei di nati dopo il 1970. Si deve per completezza aggiungere che, secondo «II Regno», «l’abitudine alla preghiera delle donne è infine correlata di meno di quella degli uomini alla fede in Dio, nel senso che, a differenza degli uomini, dicono di pregare molto anche le donne che si dichiarano incerte sull’esistenza di Dio o si dicono non credenti» (14)

Non a caso, a questo punto, tra le conclusioni più provocatorie dell’inchiesta sin qui citata, troviamo la seguente “profezia” «È immaginabile che quando i figli della generazione degli anni Settanta saranno padri daranno un ulteriore contributo alla secolarizzazione» (15)

Generazione degli anni Settanta: ecco le quarantenni! È sulla linea femminile che si registra il mutamento generazionale più alto: lo scarto rispetto alla frequenza alla messa tra gli uomini nati prima del 1970 e quelli nati dopo il 1970 è di 15 punti, è invece di ben 25 punti lo scarto tra le donne nate prima del 1970 e quelle dopo il 1970; e, in riferimento alla fede in Dio, si passa da uno scarto maschile di soli 7 punti, tra i nati prima e quelli dopo il 1970, a uno femminile di 12 punti, prendendo in considerazioni le nate prima e quelle dopo il 1970 (16).

A ulteriore conferma dei dati sin qui riportarti e quindi del fatto che è con le donne nate dopo il 1970 che inizia quel progressivo cammino di omogeneizzazione dei comportamenti tra uomini e donne in relazione alla pratica di fede, il quale risulta poi praticamente compiuto nelle giovani donne nate dopo il 1981, possiamo aggiungere ulte­riori elementi che ci vengono offerti da un’interessantissima, recente, indagine firmata da Roberto Cartocci e finalizzata a ricostruire una Geografia dell’Italia cattolica (17)

Riportando i dati Istat 2009, relativi alla frequenza della messa, il testo di Cartocci ci permette di osservare che lo scarto maggiore rispetto alla media generale di frequenza delle donne, che si assesta a un 39,3 %, è registrabile esattamente tra le donne che hanno tra i 18 e i 44 anni. Infatti è proprio in questa fascia intermedia d’età che si mostra tra le donne «una più bassa incidenza dei praticanti» (18).

Certamente, ci si potrebbe domandare – e Cartocci onestamente lo fa – se con il passare degli anni queste donne che attualmente esprimono una bassa pratica non possano riallineare i loro comportamenti religiosi alle stime che ora caratterizzano le quote di popolazione femminile “over 44”.

Insomma, non potremmo essere semplicemente davanti a un effetto ciclo di vita, in base al quale i comportamenti di un soggetto mutano nell’avanzare negli anni? Oppure è necessario ammettere un effetto coorte, per il quale si deve prendere atto di un mutamento generazionale che non subirà particolari variazioni con il passaggio del tempo?

O da ultimo non si potrebbe assegnare uno specifico ruolo al tempo che stiamo vivendo e quindi chiamare in causa un effetto periodo che influenzi proprio in questo specifico giro di anni le persone, indipendentemente dall’età? Sono domande alle quali il sociologo ritiene di non poter rispondere, sulla base del solo dato di frequenza alla messa e cioè senza prendere in considerazioni altri indicatori capaci di meglio definire la Geografica cattolica dell’Italia, per lui, e per illuminare ulteriormente il fenomeno da noi studiato dell’allontanamento dalle file della Chiesa delle donne tra i 18 e i 44 anni.

Quale esito darà allora l’interrogazione dei tassi dei matrimoni civili, l’analisi della presenza di coppie di fatto e ancora dei figli nati fuori dal matrimonio, ambiti esplicitamente messi a fuoco da Cartocci? Le risultanze di questi interrogativi appaiono particolarmente carichi di significati per il nostro discorso sulle quarantenni e sul loro sempre più marcato difficile rapporto con la Chiesa.

È il caso di ascoltare direttamente le analisi e le suggestioni di Cartocci: «Fino alla metà degli anni ’60 la percentuale nazionale dei matrimoni civili si è mantenuta su livelli estremamente bassi, subendo tra l’altro una progressiva riduzione: dal 2,4% del 1951 al 1,2% del 1966. Dopodiché, il tasso di matrimoni celebrati in municipio è cresciuto costantemente, superando il 10% nel 1981, il 20% nel 1996 e raggiungendo il 34% nel 2006.

In quarant’anni la proporzione dei matrimoni civili è dunque aumentata di oltre trenta punti percentuali» (19). Il saliente matrimonio civile è particolarmente significativo in relazione alla religione cristiana, che fa del matrimonio uno dei sacramenti base della vita credente. Cartocci giustamente invita a non sovrastimarlo come indicatore di secolarizzazione: in quanto nella gran parte dei casi la celebrazione dei matrimoni avviene in quella fase del ciclo di vita che – per uomini e per donne – è il più secolarizzato, ovvero prima dei 44 anni.

È ancora poi da ricordare che il numero di coppie non coniugate, sebbene assai difficile da contare, risulta al momento in salita e lo stesso si può dire dei figli nati fuori dal matrimonio, dato più facile da censire, a tal punto che Cartocci può registrare la presenza «di una tendenziale crescita delle nascite extraconiugali, che, avviatasi intorno alla metà degli anni ’90, a distanza di oltre vent’anni dal decollo dei matrimoni civili, ha mostrato, negli anni più recenti, una sensibile accelerazione, in un processo di radicale trasformazione dei costumi familiari tradizionali» (20).

Se non ora, quando?

Esiste, dunque, una questione quarantenni nella Chiesa ed è una questione destinata a diventare ancora più urgente negli anni a venire, man mano cioè che la generazione 1981 entrerà nell’età adulta, una generazione in cui la differenza di genere ormai ha perso ogni peso nel determinare una maggiore vicinanza delle donne alle pratiche e alle credenze cattoliche.

Ma già la generazione 1970, in verità, mostra i segnali di una rottura rispetto al passato. Sono infatti le mie coetanee quelle che hanno iniziato a non frequentare con la stessa regolarità la comunità ecclesiale, sono esse che si sposano sempre di meno in Chiesa o non si sposano affatto, oppure si sposano solo dopo la nascita dei figli. Sono esse che esprimono, per prime, in un numero assai consistente, e non più come casi isolati, un pensiero di distacco rispetto alla tradizione italiana di moralità pubblica e privata, assai influenzata dalla religione cattolica.

Ci troviamo davanti all’emergere di una generazione di donne che inizia a rompere una tradizionale alleanza con la realtà della Chiesa, una alleanza che ha sicuramente giovato a entrambi i partner, ma che ora chiede di essere nuovamente rinegoziata. Sicuramente sul fronte ecclesiale.

Insomma, se non ora, quando?

L’inedito atteggiamento di disaffezione all’universo religioso delle donne – ha più che giustamente dichiarato il sociologo Luca Diotallevi – costituisce infatti «un problema e una priorità pastorale notevolissima da affrontare, in un Paese come il nostro, dove la trasmissione della fede è “matrilineare”» (21).

L’autentico problema della Chiesa attuale è quello della trasmissione della fede alle nuove generazioni ed è compito che da sempre è stato assegnato in particolar modo alle madri. L’economia della vita parrocchiale si poggia esattamente sul presupposto che i piccoli giungono al catechismo, intorno all’età di 5 anni, dopo aver ottenuto in famiglia, a casa, dalla mamma, dalle nonne, una prima ed efficace iniziazione alla parola del Vangelo. Ma cosa c’è da aspettarsi se appunto le quarantenni di oggi e soprattutto quelle che si preparano a esserlo nell’imminente domani decidono di non onorare questo compito?

Già, oggi, il diffuso discorso sul “primo annuncio” quale priorità pastorale della Chiesa italiana, che intreccia emblematicamente l’urgenza della nuova evangelizzazione insieme al tema dell’educazione alla vita buona del Vangelo, evidenzia che sin dalle generazioni post-belliche si era avviata una fase di secolarizzazione del tessuto della popolazione italiana, che ora si annuncia più radicale, più decisiva, proprio per l’inedito allineamento delle giovani donne agli standard religiosi degli uomini. Gli scenari futuri, dopo quanto abbiamo provato a ricostruire, si annunciano dunque colmi di sfida.

Come non ricordare ancora un altro fronte assai delicato di impegno, quello cioè delle vocazioni alla vita consacrata? Sarebbe davvero miope non riconoscere che una delle riserve maggiori della forza del cattolicesimo italiano sia stata e continui a essere proprio la presenza delle suore. Eppure, c’è da registrare che è esattamente il mondo delle suore, quello che negli ultimi cinquant’anni ha perso più componenti: oltre il 34% e attualmente l’età media delle consacrate italiane è molto alta (22).

Ci si deve semplicemente arrendere all’idea di una progressiva scomparsa di questa figura ecclesiale? E come non constatare quanto potrebbe pesare sull’immagine pubblica e diffusa della Chiesa, sempre più eccessivamente mascolinizzata?

Anche per questa ragione, quindi, se cioè non vogliamo che questo sia il nostro destino, la scomparsa delle suore (italiane), è urgente provare a mettere più energia e più impegno nel ripensare e rivedere il rapporto della Chiesa con le donne e in particolare con le giovani donne.

Non sarà in fondo vero che si è dato, negli ultimi anni, per scontato un numeroso insieme di presupposti? Che cioè – per ricordare un monito assai forte del Papa – ci si è preoccupati più delle conseguenze sociali, politiche, economiche, culturali della fede, dando per ovvio l’esistenza e la trasmissione di questa stessa fede? Parlare di fede, di iniziazione alla fede, di nuova evangelizzazione, significa dunque in misura significativa parlare delle quarantenni e della loro fuga.

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1) P. Segarti – G. Brunelli, Ricerca de II Regno sull’Italia religiosa: da cattolica a genericamente cristiana, «Regno/attualità», 55 (2010/10), pp. 337-351, disponibile in www.ilregno.it. Si rivela molto utile al lettore una visione diretta delle tabelle e dei grafici che accompagnano, nella ricerca citata, le analisi che qui riportiamo.
2) L’indagine I giovani di fronte al futuro, con fede e senza fede, condotta dall’istituto IARD EPS, è stata commissionata dalla Diocesi di Novara, all’interno del progetto Passio 2010; ora è in fase di pubblicazione a cura di Riccardo Grassi. Il quale ne ha presentato i principali risultati lungo l’annata 2010 della rivista «Insegnare religione», di cui è direttore; nel 2004 egli aveva curato un’indagine simile di seguito confluita nel volume Giovani, religione e vita quotidiana, il Mulino, Bologna 2006.
3) A. Castegnaro, Uno studio sulla spiritualità dei giovani, in Osservatorio Socio-Religioso Triveneto, C’è campo? Giovani, spiritualità, religione, Marcianum Press, Venezia 2010, p. 26.
4) F. Dal Mas, Mamme latitanti? «La fede a rischio», «Avvenire», 5 giugno 2010, p. 12.
5) Cfr. E. Bianchi, La differenza cristiana, Einaudi, Torno 2006.
6) II Mulino, Bologna 2011.
7) Ibi, p. 164.
8) Ibi,p. 184.
9) Ibi, p. 201.
10) Ibi, p. 203.
11) Cfr. A. Casarico – P. Profeta, Donne e lavoro. Figli e carriera: presto o tardi non conta, «II sole 24ore», 26 febbraio 2010, disponibile in www.ilsole24ore.com. Si veda pure il recente testo di D. Del Boca – L. Mencarini – S. Pasqua, Valorizzare le donne conviene, Il Mulino, Bologna 2012.
12) Segatti-Brunelli, Ricerca de II Regno sull’Italia cattolica, p. 347.
13) Ibi, p. 348.
14) Ibi.
15) Ibi, p. 351
16) Ibi, pp. 347-348.
17) II Mulino, Bologna 2011. Molto stimolante la recensione che al testo ha dedicato M. Introvigne: Ma il Mezzogiorno d’Italia è più cattolico del Nord?, «La Bussola Quotidiana», 16 luglio 2011, disponibile in: www.labussolaquotidiana.it.
18) Cartocci, Geografia dell’Italia cattolica, p. 36.
19) Ibi,pp. 52-53.
20) Ibi, p. 91.
21) Agenzia S.I.R., Otto per mille; Diotallevi, in Italia “il clima socio-religioso è cambiato” 17 febbraio 2011, ore 10.57, disponibile in: www.agensir.it.

22) F. Garelli, La Chiesa in Italia, il Mulino, Bologna 2007, p. 100.