Il potere che preferiscono le donne

suffragetteCorriere della Sera 7 aprile 2012

di Vittorio Messori  

Ho letto con interesse l’intervento dell’on. Giulia Bongiorno sull’incapacità femminile di creare gruppi coesi che permettano di portare, e di mantenere, donne a posizioni di potere politico.

Leggendo, mi sono ricordato di un esame di “Comportamenti elettorali“ sostenuto in anni lontani alla facoltà di Scienze Politiche, a Torino. La situazione descritta allora non era diversa da quella di oggi: quasi in ogni Paese dove esistono democrazie a suffragio universale, il numero delle elettrìci supera quello degli elettori.L’obiettivo del “potere al femminile“ potrebbe essere agevolmente raggiunto, se non fosse per una anomalia: poche donne votano per le donne.

Ovunque ci sia una elezione –da quella per il Presidente della Repubblica a quella per il Presidente dell’assemblea di condominio– molte donne, spesso la maggioranza, scelgono di far confluire su un uomo i loro suffragi.

Di quel corso universitario, ricordo un’altra constatazione, derivata dal fatto che il voto femminile alle elezioni politiche fu concesso in numerosi Paesi occidentali soltanto dopo la seconda guerra mondiale. In molti cantoni elvetici addirittura solo nel 1971: dicesi in Svizzera, e solo 40 anni fa! Eppure, in Occidente, unicamente un’esigua, e discontinua, minoranza di donne ha rivendicato il diritto di eleggere i suoi rappresentanti, nella indifferenza se non nella perplessità della maggioranza delle “consorelle“.

Le suffragette inglesi degli inizi del XX secolo furono considerate dalla gran massa delle donne come delle borghesi e aristocratiche esibizioniste, che cercavano di scacciare la noia di una vita senza preoccupazioni ben più importanti.

Ci fu una partecipazione femminile alle lotte sindacali, per concrete questioni di lavoro e di salario, di asili per i figli, di permessi di maternità. Come dice il canto famoso, le mondine si mobilitarono sì, ma non per scegliere deputati e senatori o per farsi eleggere in parlamento, bensì per costringere «el padrùn dale bele braghe bianche» a  «molar le palanche».

Anche tra le operaie, non ci furono organizzazioni (se non in qualche caso marginale, ininfluente, considerato magari pittoresco) che esigessero che il suffragio universale fosse davvero tale, che non escludesse cioè oltre la metà della popolazione. Come se le donne non considerassero la cosa rilevante, come se non fosse avvertito come un diritto sacrosanto.

I giacobini della Rivoluzione francese, padri di tutti i sedicenti “progressisti “ (spesso i più fieri reazionari) mandarono alla ghigliottina Olimpia de Gouges, l’autrice del Manifesto per i diritti -anche politici- delle donne. Le altre parigine non ebbero nulla a che dire . In tempi più recenti, in Italia, il Pci di Togliatti -pur senza dirlo apertamente e magari esibendosi in ipocriti consensi- fu sordamente ostile all’ampliamento dell’elettorato e cercò sotto banco di sabotare l’apertura, voluta innanzitutto dalla Dc.

Nell’Italia ancora cattolica, i comunisti temevano il voto delle donne, pensando che la maggioranza di loro fosse succube del confessore, del parroco, dell’esecrato Pio XII.

Le  «divisioni del papa»  di staliniana memoria esistevano davvero ma, in maggioranza, portavano le gonne. In effetti, qui pure possono sorreggere le analisi dei “comportamenti elettorali“ che confermano come il voto femminile sia spesso poco ideologico e tenda, salvo eccezioni, al centro moderato. E’ certo che il trionfo democristiano del 18 aprile 1948 non si sarebbe verificato, almeno in quelle proporzioni, se il suffragio fosse stato solo maschile.

Il mio lavoro di giornalista e scrittore mi porta (per fortuna…) a frequentare molte donne, di ogni estrazione sociale. La maggioranza di quelle che, incuriosito, ho interpellato, mi è sembrata divisa in tre parti, a proposito di “quote rosa“ a livello politico: le indifferenti, che dicono di avere altro cui pensare; quelle che le considerano “una ingiustizia“, visto che “si deve emergere per merito, non per legge“; e quelle che le giudicano addirittura “offensive“, come se fossero panda allo zoo, da tutelare. Stando al mio piccolo test, per quel che vale, molto di rado ho incontrato un soddisfatto: “Finalmente, ci volevano!“.

Sia ben chiaro: la concreta, non solo teorica eguaglianza di diritti (e di doveri) per maschi e per femmine, è per me così scontata che mi sembrerebbe ridicolo, prima ancora che assurdo, metterla in discussione. Come ogni persona sensata, ho orrore di quelle folle musulmane monosessuali, con soli uomini in piazza e, semmai, un gruppo di donne in lontananza che guarda silenzioso, avvolto in panni neri dalla testa ai piedi.

Ma la sacrosanta eguaglianza politica, sociale, economica deve significare uniformità tra i sessi? L’ istintiva attrazione maschile per certi impegni, come quello della politica militante, deve necessariamente contrassegnare anche le donne, tutte le donne, pur ammettendo, s’intende, vocazioni di minoranza? L’on. Bongiorno –stimabile in quanto parte eminente di quella minoranza- si chiede come fare perché “le donne vadano al potere“, intendendo proprio quello politico.

E’ suo diritto, s’intende, Ma se, invece, molte donne, forse ancor oggi la maggioranza, non aspirassero al potere in senso maschile ma ad un altro, tutto al femminile: il “potere“ che nasce dall’amore, dagli affetti, dalla confidenza, dalla sincerità, dalla curiosità, dall’apertura alla vita e alla cura di essa, dalla pace con se stessa e con gli altri?

Cose tutte, che troppo spesso sono ignote nella lotta politica. E’ solo una domanda. La domanda di un uomo che, come tanti, amando le donne le vorrebbe al contempo “eguali“ e “diverse“, per una vita nella quale tutti possano seguire la propria vocazione.