Dossetti, Lercaro e la Chiesa povera

Dossetti_Lercaro

Giuseppe Dossetti con il cardinale Lercaro

Studi cattolici n.610 dicembre 2011

di Pier Paolo Saleri

Un recente libro di Corrado Lorefice (1) propone una documentata analisi del ruolo di Giuseppe Dossetti nel Concilio Vaticano II in una duplice chiave di lettura: quella dei suoi rapporti con il cardinale Giacomo Lercaro, e quella del loro comune impegno per far sì che «la povertà» non fosse soltanto uno dei temi, seppur importante del Concilio, ma «l’unico tema di tutto il Vaticano II».

È in questa chiave di lettura che Lorefice ripropone tutta la vicenda dossettiana fino al suo incontro e alla sua collaborazione con Lercaro durante il Concilio prima, e nella Chiesa bolognese poi.

Si tratta senza dubbio di un libro schierato, che si colloca nel grande filone aperto dalla ricostruzione storica del Concilio Vaticano II realizzata dal dossettiano Istituto di studi religiosi di Bologna, sotto la guida di Giuseppe Alberigo e ora di Alberto Melloni. Ovviamente la figura di Dossetti giganteggia e viene reso di tutta evidenza come fosse, solo ed esclusivamente, lo stesso Dossetti il motore e la «causa prima» di tutta l’elaborazione sulla «Chiesa povera» promossa da Lercaro durante e dopo il Concilio.

Emerge così dalla lettura di questo libro un’interpretazione molto personale del Concilio Vaticano II che viene, soprattutto, caratterizzato come «provvidenziale opportunità» per far emergere le tesi sulla povertà cui Dossetti «da sempre» lavorava: «L’assise conciliare si prospettava come una provvidenziale opportunità perché il tema dei poveri e della povertà della Chiesa, da sempre al centro degli interessi e delle riflessioni di don Giuseppe, fosse accostato e approfondito teologicamente.

Era infatti convinto che solamente da tale ricomprensione “collegiale”, maturata dalla e nella coscienza dei Padri, poteva venir fuori il “ringiovanimento” della Chiesa e la testimonianza credibile dell’Evangelo».

Un teologo rimasto politico

Addentrandosi nel merito, è interessante notare come anche in questo studio — che certo non ha alcuna intenzione neppure lontanamente critica nei confronti di Dossetti – emerga con grande evidenza la connessione, senza soluzione di continuità, tra il suo precedente impegno politico e la sua vocazione religiosa.

Dossetti, scrive infatti Lorefice, guarda «ai poveri come soggetti attivi della comunità politica, partecipi del processo sociale e politico. Un elemento questo – quello del diritto dei poveri a partecipare alla costruzione della città degli uomini — che poi una volta abbandonata la militanza politica e avendo fatto la scelta ecclesiale, diventerà diritto di cittadinanza dei poveri nella Chiesa»: un «diritto» che va conquistato in quanto «la linea di divisione tra oppressi e oppressori passa anche attraverso la Chiesa».

L’interpretazione della «povertà come ermeneutica di un autentico impegno politico» si trasforma così direttamente in quella della povertà come «ermeneutica di un autentico impegno ecclesiale».

Ciò che colpisce di più in questo processo non è certo il ribadire con forza l’attenzione della Chiesa verso i poveri – cosa che nessuno nella Chiesa stessa ha mai messo in discussione, quanto meno, in via di principio — quanto, piuttosto, la trasposizione tal quale dal campo della politica a quello ecclesiale di un medesimo progetto e di una medesima impostazione. In questo modo l’autore sembra in un certo senso, seppur involontariamente, far propria e avvalorare la lettura rispettosamente critica della vicenda terrena di Dossetti proposta dal cardinale Giacomo Biffi nelle sue memorie quando, dopo aver ricordato l’esemplarità della fede generosa di don Giuseppe, si domanda: «È stato anche un teologo? Voglio dire un teologo sul serio, ricco di verità e affidabile? Ci sono forti motivi per dubitarne».

E, a sostegno di questo suo dubbio, il cardinale cita, innanzitutto, il fatto che «Egli ha sorprendentemente letto il suo apporto al Vaticano II alla luce della sua partecipazione ai lavori della Costituente», per poi continuare: «Ma come è possibile — a chi abbia qualche consuetudine di contemplazione della realtà trascendente della Chiesa – confrontare e porre in relazione un’accolta disparata di uomini lasciati alle loro forze, ai loro pensieri terreni, ai loro problemi economici e sociali, alla loro ricerca del difficile equilibrio degli interessi, con la convocazione di tutti i successori degli apostoli assistita dallo Spirito Santo da essi quotidianamente invocato?». E ancora: «Dossetti addirittura si compiace di aver portato al Concilio — anche se non fu trionfante – una certa ecclesiologia che era riflesso anche dell’esperienza politica fatta. Ma che tipo di “ecclesiologia” poteva scaturire da una tale ispirazione e da queste premesse “mondane”?».

Il fascino del marxismo

Da queste premesse, infatti, nasce un’ecclesiologia che subisce tutto il fascino del marxismo, in quel tempo apparentemente all’apice della sua egemonia culturale in un mondo segnato dalla guerra del Vietnam, dalle guerriglie rivoluzionarie latinoamericane e dai primordi della contestazione.

Non a caso il cardinal Lercaro nei suoi scritti e discorsi sulla povertà rivendica, sulla scia di Dossetti e col suo diretto contributo, la «religiosità» dell’ateismo marxista cui riconosce «una chiara valenza liberatrice», «una certa carica ascetica e una certa spinta comunitaria e universalistica» capace di dare una «coscienza esplicita e storicamente impegnata della dimensione del problema della povertà come problema umano a scala universale».

Una dimensione «viceversa totalmente ignorata nella teologia e nella dottrina sociale cristiana». Questo tema della dottrina sociale della Chiesa, giudicata con sufficienza, percorre l’intero volume, fino ai giorni nostri.

Non a caso, Lorefice (p. 282, in nota) critica con non velata severità la Caritas in Ventate affermando: «Manca una precisa analisi alla luce della profezia dell’Evangelo, della congiuntura storica e delle cause del persistere delle povertà che affliggono l’umanità (non compare mai il termine capitalismo) e soprattutto non c’è nessun accenno alla Chiesa dei poveri e alla Chiesa povera. Inoltre il Papa nel citare Mt 25 senza prendere in considerazione la sua portata messianica e “misterica”, si limita a una lettura etica del testo».

Insomma, per dirla con le parole dell’all’ora cardinale Ratzinger nel noto documento sulla Teologia della Liberazione: «La dottrina sociale della Chiesa è respinta con disprezzo». Ma non vi è da meravigliarsi più di tanto di una così radicale posizione critica verso la dottrina sociale cristiana, visto che la concezione della Chiesa povera, laddove individua (secondo Lorefice) in termini assoluti solo e soltanto «nella concreta problematica della povertà, il luogo teologico obbligante e la chiave di volta della ricomprensione e del rinnovamento della Chiesa», assume una posizione «ideologica» sostanzialmente incompatibile con l’autentica dottrina sociale della Chiesa che si rivolge, invece, all’uomo nella sua integralità.

Resta un ultimo punto: quello della «povertà culturale» come momento caratterizzante dell’autentica «Chiesa povera». Nel libro questa questione risulta appena sfiorata, quasi accennata incidentalmente, e questa è una significativa carenza, perché l’approfondimento del tema della «povertà culturale» è essenziale per mettere a fuoco correttamente il reale significato del termine «Chiesa povera».

Per ben chiarire questi ultimi aspetti ci riportiamo, allora, all’autorità dello stesso Dossetti il cui pensiero è all’origine di tutte le tematiche conciliari sulla «Chiesa povera e dei poveri». Dossetti, utilizzando parole sue e dello stesso Lercaro, scrive a proposito della povertà culturale: «Occorre che la Chiesa si riconosca “culturalmente povera” e voglia essere coerentemente sempre più povera. Cioè che la Chiesa abbia il coraggio di rinunziare alle sue stesse ricchezze culturali del passato, per proporre sempre più, in modo spoglio ed essenziale, la ricchezza divina del messaggio evangelico senza nasconderla sotto il moggio di un patrimonio culturale ereditato che può impedirle di aprirsi ai valori veri della nuova cultura o delle culture antiche non cristiane».

È evidente che quando Rossetti parla di «patrimonio culturale ereditato» si riferisce a qualcosa di immateriale eminentemente intellettuale: non stiamo certo parlando di opere d’arte, di fasto, di pompe di segni del potere e così via: queste sono tutte ricchezze materiali. Stiamo parlando di ricchezza culturale, intellettuale, immateriale.

Paradossalmente, se si accettasse questa logica, potrebbe anche ipotizzarsi una Chiesa «materialmente povera», che si spenda totalmente per i poveri, ma che, tuttavia, se non rinuncia al proprio «patrimonio culturale» e alla propria identità non può essere considerata «autenticamente povera».

Nasce allora l’esigenza di porsi alcune domande. In che cosa consistono esattamente queste «ricchezze culturali del passato» di cui bisognerebbe liberarsi? Si sta forse parlando di quella straordinaria elaborazione culturale e filosofica che nasce dall’incontro della cultura giudaica e di quella ellenica con la fede cristiana e da vita alla civiltà europea?

I grandi dottori della Chiesa, san Gregorio, sant’Ambrogio, sant’Agostino, san Bernardo, san Tommaso e rutti gli altri rientrano tra le «ricchezze culturali del passato» di cui liberarsi per «aprirsi ai valori veri della nuova cultura»? E qual è oggi la nuova cultura ai cui «valori veri» ci si dovrebbe aprire?

Non vi è dubbio che quando Dossetti inizia a elaborare le proprie riflessioni sulla «Chiesa povera» la nuova cultura cui si riferiva fosse quella marxista con «la sua chiara valenza liberatrice»; ma l’egemonia culturale del marxismo è ormai tramontata. Oggi è il tempo dell’egemonia culturale del relativismo: è forse per aprirsi ai «valori» del relativismo che la Chiesa dovrebbe farsi «culturalmente povera»?

1) Corrado Lorefice, Dossetti e Lercaro. La Chiesa povera e dei poveri nella prospettiva del Concilio Vaticano II, Paoline Editoriale Libri, Milano 2011, pp. 376, euro 22