Si è dato a Cesare quel che è di Dio

Tempi 16 settembre 2020  

Meno fedeli in Chiesa dopo il lockdown. Cosa è successo? Un altro passo avanti verso la protestantizzazione del cattolicesimo

Luca Del Pozzo

Anche quest’anno, com’è tradizione della nostra famiglia, alla fine della pausa estiva e prima di rituffarci a pieno ritmo nel tran tran quotidiano, siamo andati a Loreto per affidare a Maria e alla sua materna protezione le nostre vite. Quest’anno la visita assumeva anche un significato particolare dal momento che cadeva nel bel mezzo dell’Anno Giubilare indetto per il Centenario della proclamazione della Madonna di Loreto a “Patrona dell’Aviazione” (24 marzo 1920).

Ci siamo andati il 4 settembre, era un venerdì pomeriggio. Appena messo piede in Basilica, sono rimasto di stucco nel constatare che c’erano non più di 15-20 persone, quando di norma la chiesa è stracolma. Tanto più d’estate, quando il Santuario – da sempre uno dei più frequentati d’Italia se non del mondo – è preso d’assalto da villeggianti e turisti oltreché dai pellegrini.

Faceva insomma una certa impressione, ma sarebbe più corretto dire tristezza, vedere la chiesa che secondo la tradizione custodisce la Santa Casa dove Maria ricevette l’inaudito e sconvolgente annuncio che avrebbe cambiato per sempre la storia dell’umanità, pressoché vuota, immersa in un silenzio quasi surreale che andava ben oltre quello consueto dovuto al rispetto per la sacralità del luogo.

Purtroppo quello del santuario di Loreto non è stato, non è un caso isolato.

Lo stesso era accaduto pochi giorni prima quando con un gruppo di ragazzi della nostra parrocchia siamo andati in pellegrinaggio nel Gargano, dove neanche a S. Giovanni Rotondo abbiamo trovato chiese piene, tutt’altro. Di recente è arrivata poi la testimonianza, di gran lunga più importante e autorevole di quella di un semplice laico come il sottoscritto, del vescovo di Reggio Emilia – Guastalla, M.or Camisasca, che durante l’omelia per la Festa della Natività di Maria (8 settembre) ha detto senza mezzi termini: “Non possiamo essere tranquilli: un buon numero di persone non sono tornate alla Messa domenicale dopo la riapertura delle celebrazioni in presenza”.

L’elenco potrebbe proseguire a lungo. Sta di fatto che già a fine luglio la lettera indirizzata dalla presidenza della Cei a tutti i vescovi sottolineava come il ritorno alle messe coram populo fosse “segnato anche da un certo smarrimento (in particolare, una diffusa assenza dei bambini e dei ragazzi), che richiede di essere ascoltato”.

E poco dopo è arrivato l’intervento del card. Sarah, prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, che a metà agosto ha preso carta e penna e ha scritto una lettera ai presidenti delle conferenze episcopali di tutto il mondo (dunque anche al di fuori dell’Italia), resa pubblica sabato 12 settembre, dove dice che è urgente recuperare “la dimensione liturgica della vita della comunità cristiana”, e che occorre tornare all’Eucarestia in presenza riservando la Messa in Tv “ai malati e alle persone impossibilitate a partecipare”.

Il cardinale ha sottolineato inoltre che “non possiamo vivere senza la Parola del Signore, che nella celebrazione prende corpo e diventa parola viva”, e che “non possiamo vivere senza partecipare al Sacrificio della Croce e senza il banchetto dell’Eucarestia”. Evidentemente, se il numero uno della Congregazione che presiede alla liturgia – non esattamente un pinco pallino qualsiasi – si è espresso nei termini in cui si è espresso vuol dire che un qualche problema c’è, con buona pace di chi fa finta di non vederlo.

Problema che, almeno alle nostre latitudini, sta avendo, tra l’altro, gravi ripercussioni anche a livello economico se è vero che tanti parroci stanno correndo ai ripari chiedendo aiuto ai loro parrocchiani trovandosi a dover fare i conti (letteralmente) con le offerte azzerate a causa della sospensione del culto, prima, e della più che modesta partecipazione dei fedeli dopo la riapertura del 18 maggio scorso, poi.

Insomma, a distanza di quattro mesi dalla riapertura ci troviamo di fronte ad una realtà – peraltro niente affatto inattesa – che va ben oltre le più fosche previsioni, con percentuali di frequenza alle messe molto basse, in alcuni casi dell’ordine del 30%. Con i giovani, come ha rilevato la stessa Cei, nella parte dei grandi assenti. Paura del virus ancora in circolazione?

Forse. Anzi, diciamo pure sicuramente (e già qui andrebbe sottolineato che se un terrore così diffuso è comprensibile in un’ottica atea, lo è molto meno in una prospettiva di fede – “Non abbiate paura!”, do you remember? Dal che la domanda su come in ambito cattolico viene considerata la morte corporale, e se – soprattutto – i cattolici credono ancora nella resurrezione della carne e nella vita eterna).

Ma sarebbe alquanto superficiale e miope attribuire la portata del fenomeno solo alla persistenza del virus; tanto più a fronte di discoteche ristoranti e locali che, al contrario, sono stati fin da subito di nuovo affollati (a partire dagli stessi giovani di cui sopra).

Il punto vero è un altro: se la gente non va più a messa è perché con la scelta (che di questo, e non di altro, si è trattato) della Chiesa italiana di sospendere le messe coram populo – un fatto di inaudita gravità in duemila anni di storia, con l’aggravante che il Covid-19 non è neanche lontanamente comparabile con altre pandemie – il messaggio che è passato, tanto semplice quanto devastante, è stato questo: si può vivere senza Eucarestia, la fede può sussistere anche senza sacramenti. Punto e a capo.

Come se si fosse ormai consolidata l’idea di una fede “smaterializzata”, incorporea, tutta spirito e intimità. Posizione legittima, per carità; che tuttavia fa a sportellate con la visione cattolica della fede. E’ vero che si può pregare Dio nel proprio intimo, nel chiuso della camera da letto o in autobus, mentre corri e fai palestra o in ufficio. Né, a voler estremizzare, è la chiesa in quanto edificio che fa la differenza. Ma qui si sta parlando d’altro. Qui si sta parlando della possibilità di partecipare alla messa e alle celebrazioni in quanto popolo, comunità, corpo di Cristo.

E’ ancora m.or Camisasca a ricordarcelo: “…la dimensione fisica, materiale e comunitaria della realtà ecclesiale non può essere mai dimenticata o sminuita, pena la perdita della logica sacramentale che governa la Chiesa… Né possiamo accontentarci di preghiere domestiche, sostitutive della celebrazione eucaristica. Non voglio con ciò sminuire, né dimenticare il bene di tante iniziative nate dalla creatività cristiana durante il tempo del lockdown, ma… il cristianesimo è per sua natura comunitario. Non dobbiamo mai stancarci di radunare il nostro popolo nell’esperienza comunitaria della fede: sulla terra, senza fisicità non ci può essere gioia; anche nel cielo i nostri corpi saranno trasfigurati ma non eliminati. Vi invito perciò a superare ogni ingiusta paura e a stimolare i vostri fedeli alla partecipazione fisica alla Messa domenicale”.

M.or Camisasca ha toccato un punto che, anche a prescindere dalla pandemia ma che la pandemia ha, come dire, evidenziato alla massima potenza, rappresenta uno dei principali aspetti della crisi in cui versa il cattolicesimo, ossia il venir meno dell’importanza della corporeità, del fatto cioè che la fede non si può vivere se non in modo corporale.

Non esiste una fede solo spirituale. La fede o è incarnata o, semplicemente, è qualcosa d’altro, il più delle volte un astrattismo intellettualistico per altro non immune da derive gnosticheggianti, che in ogni caso nulla ha a che vedere con il cattolicesimo. Affonda le sue radici in questa consapevolezza, in questa verità storica ed esistenziale, prima ancora che teologica, il motto di Tertulliano “caro salutis cardo” – “cardine della salvezza è la carne”.

Come si vede, tutt’altra musica rispetto ad un “discorso astratto sul diritto di andare in chiesa”, come ebbe a dire in maniera forse troppo frettolosa non ricordo quale prelato durante il lockdown. Che poi la messa la si faccia in mezzo a una radura nel bosco o su un campo da basket, in una piazza piuttosto che in famiglia o in un parco, in una maestosa cattedrale o in uno scantinato, questo – ripeto – al limite cambia poco.

Cambia molto, invece, esserci, essere presente con il proprio corpo e in quanto membra di un corpo più grande che è il corpo stesso di Cristo (“Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte”, 1Cor. 12,27). Né vale il ragionamento, che pure si è sentito durante il lockdown, di chi sottolineava che esistono zone del pianeta dove i fedeli vivono ordinariamente in questo stato, senza cioè potersi comunicare o potendolo fare solo due-tre volte l’anno, e ciò nonostante la loro fede è solidissima. E chi lo mette in dubbio?

Ma un conto è non potersi comunicare o confessare per cause “strutturali”; tutt’altra faccenda è, potendo scegliere, decidere di privare i fedeli dei sacramenti mentre supermercati e tabaccai sono rimasti sempre aperti.

In un documento riportato nel bellissimo libro che Antonio Socci ha dedicato a S. Pio da Pietrelcina, alla domanda: “Quanta gloria dà a Dio la Santa Messa?” rivoltagli dalla sua figlia prediletta, Cleonice Morcaldi, Padre Pio così rispose: “Infinita gloria”.

Non solo. Socci sottolinea come Padre Pio fosse profondamente consapevole che non vi fosse disastro, sciagura o guerra più grave della privazione della Messa, e a supporto cita questa frase del santo che vale più di mille parole: “Il mondo potrebbe stare anche senza sole, ma non può stare senza la Santa Messa”. Una consapevolezza, questa di Padre Pio, certo non isolata e anzi pienamente condivisa da tutti i santi.

Ancora Socci cita più avanti il Curato d’Ars, che parlando del martirio diceva: “Il martirio stesso non è da paragonarsi alla messa, perché esso è il sacrificio dell’uomo per amore di Dio: la messa è il sacrificio di un Dio per amore dell’uomo”.

Ma più di tutte, tanto più ai fini del discorso che stiamo facendo, ci sembra calzante oltreché straordinariamente attuale questa citazione di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori riportata nel volume in questione: “Dio stesso non può fare che vi sia nel mondo un’azione più grande che del celebrarsi una messa… e perciò il demonio ha procurato sempre di toglier dal mondo la messa per mezzo degli eretici, costituendoli precursori dell’Anticristo il quale prima di ogni cosa procurerà di abolire… in pena dei peccati degli uomini, il santo sacrificio dell’altare”.

Che dire? Chi ha orecchie per intendere, intenda. A scanso di equivoci occorre ribadire forte e chiaro che l’interdizione della messa – tanto più durante la Settimana Santa che per i cristiani è il fulcro di tutto l’anno liturgico – non ha mai avuto alcuna giustificazione di ordine sanitario.

Non solo. Cosa ancor più grave, essa ha significato la supina accettazione dell’estromissione di Dio dalla vita pubblica, ciò che puntualmente è avvenuto nel momento in cui il governo ha equiparato il culto a una qualsivoglia manifestazione ludica a carattere pubblico. Peccato che il Concordato del 1985 all’art. 2 precisi che “è assicurata alla Chiesa la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero…”; non, si badi, all’insegna del cavouriano “libera Chiesa IN libero Stato” – che alla prima riconosce la stessa libertà che può avere un uccellino dentro una gabbia – bensì del principio “libera Chiesa E libero Stato”, che pone invece Stato e Chiesa su un piano di assoluta parità.

Prevengo l’obiezione: ma qui c’era di mezzo la salute pubblica, lo Stato non poteva rischiare che dei suoi cittadini potessero compromettere la salute di altri per soddisfare un loro pur sacrosanto diritto. Ma anche così l’obiezione non sta in piedi. Nel momento in cui la Chiesa avesse detto “il culto è affar mio, garantisco io che tutto si svolgerà nel pieno rispetto delle norme sanitarie e di sicurezza”, lo Stato avrebbe dovuto semplicemente fare un passo indietro. O la Chiesa non è libera. Tertium non datur.

C’è poi l’aspetto di gran lunga più grave in tutta questa vicenda, ossia l’assordante silenzio, la quasi totale assenza di una voce profetica su ciò che stava accadendo in quelle drammatiche settimane.

Riavvolgiamo il nastro. Si scatena una pandemia che in poco tempo provoca migliaia di morti e contagiati; il mondo intero è sopraffatto da paura e inquietudine; i nostri stili di vita radicalmente cambiati in modo repentino; le nostre città che rimandavano scene spettrali. E in questo frangente la Chiesa – fatta salva qualche lodevole eccezione – non ha avuto nulla da dire, non una parola sul senso e sul significato di ciò che stava accadendo (si era nel pieno della Quaresima) alla luce della Resurrezione, di quel fatto sconvolgente senza il quale, come dice l’Apostolo, è vana la nostra fede?

D’accordo che bisogna fare il proprio dovere di cittadini in modo responsabile e che mai come in queste situazioni occorre ascoltare la voce della scienza (con la “s” minuscola, sia chiaro) e degli esperti. Ma c’è un “ma”.

Tutto ciò ha a che fare con le normali procedure di gestione di un’emergenza (in gergo aziendale si chiama crisis management), ossia in ultima analisi sul come affrontare una situazione di crisi. Che va bene, intendiamoci. Ma qui era in gioco un’altra questione. Qui era in gioco il perché di ciò che stava accadendo.

Può dunque la Chiesa sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d’onda del pensare e dell’agire umano e basta, in alcuni casi addirittura mutuando o facendo proprie letture della pandemia a dir poco imbarazzanti? Ovvio che no. O cessa di essere Chiesa.

Va bene la preghiera, va bene la solidarietà e la carità verso i più deboli, va bene tutto. Ma da quando si è scatenato il Covid-19, poco o nulla si è sentito o letto di realmente, autenticamente cattolico (preclaro esempio in tal senso è il documento della Pontificia Accademia per la Vita, “L’Humana Communitas nell’era della Pandemia. Riflessioni inattuali sulla rinascita della vita”, su cui stendiamo un velo pietoso).

Ciò che purtroppo non ha fatto altro che confermare quello che è un problema più profondo e che non nasce certo con la pandemia, ossia la dimensione oramai quasi del tutto orizzontale di buona parte dei discorsi (per tacere dell’omiletica) che si sentono in ambito ecclesiale. Siamo passati dall’uomo a una dimensione di Marcuse, alla Chiesa a una dimensione (di Rahner&Co).

Una Chiesa che vola rasoterra, tutta presa dalle cose di quaggiù come se queste fossero più importanti di quelle di lassù, e dove l’accento viene sovente posto più sull’azione, sulla prassi, insomma più sulle opere che sulla fede. Come se, magari dando questa per scontata (sicuri sicuri?), ci si dovesse preoccupare piuttosto di tradurre in cose concrete il messaggio evangelico, dandosi da fare in primis per sanare le storture e i mali della società.

l punto che lo spartiacque tra la salvezza e la dannazione (ammesso che quest’ultima sia ancora contemplata) sia il maggiore o minore grado di “bene sociale” che uno alla fine avrà prodotto. Ma, si dice, occuparsi delle cose di lassù non esclude, anzi, implica occuparsi anche delle cose di quaggiù, dal momento che Dio si è incarnato e la Chiesa cammina nella storia!

Vero, ci mancherebbe. Resta però il fatto che troppo spesso i fautori di un cristianesimo tutto declinato al sociale o, peggio, strumento di riscatto dall’oppressione e dall’ingiustizia (si pensi ai disastri delle varie teologie della liberazione per non dire degli sfaceli arrecati da una lettura fortemente politicizzata della celebre “opzione per i poveri”) dimenticano o fanno finta di dimenticare che proprio il cristianesimo si fonda sulla più ingiusta delle ingiustizie: quella della croce. Vorrà dire qualcosa?

Chiaro che questo non significa starsene con le mani in mano né tanto meno prediligere certe forme di spiritualità “disincarnate” spesso connotate da un pungente odore di tappo (la fede senza le opere è morta in sé stessa, dice S. Giacomo). Ma, appunto, un conto sono le opere frutto della fede, altro sono le opere che nascono più dallo scandalo della croce che da una carità genuina, e che in quanto tali di cristiano hanno solo il nome.

L’attitudine propria del cristiano, è bene ribardirlo, non è quella di recriminare né di ergersi a giudice della storia, ma di convertirsi (auspicabilmente e primariamente al Regno di Dio). È insomma importante rimettere le cose nella giusta scala di valori e priorità, dove prima viene il cielo, poi la terra. Se no succede, e purtroppo succede sempre più spesso, che quando senti certi vescovi o certi parroci, e non sai che a parlare è un vescovo o un parroco, potresti tranquillamente pensare di stare ascoltando di volta in volta, chessò, un teorico dello sviluppo sostenibile, un esperto di coaching, un sindacalista, un’attivista dei diritti umani o uno dei tanti testimonial del nulla cosmico in giro per il mondo.

Anche perché se c’è una cosa che distingue (sì, distingue) i cristiani, è proprio il modo di leggere e interpretare la storia. Pensare secondo Dio, non secondo gli uomini: a questo è chiamata la Chiesa. E magari tornando anche a dire, oltreché pensare, qualcosa di cattolico.

card. Jean Claude Hollerich

L’esatto contrario, per capirci, della tesi assai stravagante sostenuta di recente dal presidente della Commissione delle Conferenze episcopali dell’Unione europea (Comece-cojo), card. Hollerich, secondo cui la pandemia avrebbe accelerato di dieci anni la secolarizzazione, col risultato di aver disilluso e rispedito a casa i cosiddetti “cattolici culturali”, ossia quelli che andavano a messa non perché ci credessero ma per motivi, appunto, culturali. E pazienza se ora a messa ci vanno meno persone: della serie, pochi ma buoni. Non credo servano ulteriori commenti.  

È quanto mai urgente che la Chiesa torni ad essere segno di contraddizione e voce profetica in un mondo che vive etsi Deus non daretur salvo poi intrupparsi al seguito di santoni guru astrologhi e leoni da tastiera a vario titolo che ammorbano i cosiddetti social. Altrimenti le chiese resteranno vuote anche se di nuovo aperte; oppure le chiuderemo di nuovo, e per sempre, come tante, troppe chiese hanno già chiuso i battenti altrove in Europa e nel mondo. E stavolta non per un virus.

Spiace dirlo, ma la verità è che si è dato a Cesare quel è di Dio, ciò che nella fattispecie delle messe ha rappresentato oltretutto un passo avanti verso la definitiva e compiuta protestantizzazione del cattolicesimo (cosa questa che in certi ambienti sedicenti cattolici magari neanche dispiace).

Una scelta che ha lasciato l’amaro in bocca in tanti fedeli, e che è parsa essere dettata più dall’esigenza di non voler creare troppi problemi all’attuale governo, onde evitarne un altro meno gradito, che da altro. La stessa esigenza, per capirci, che ha fatto sì che nelle ultime settimane, di fronte al rischio concreto che tra non molto non si potrà più dire che i bambini hanno diritto a un padre (maschio) e a una madre (femmina), e al fatto che le donne potranno abortire a domicilio e che molte scuole cattoliche non riapriranno, da parte dei vescovi (non tutti certo) si sono sentiti per lo più flebili belati, e molto misurati. 

Mai come in questa occasione calzano a pennello le parole di fuoco di S. Gregorio Magno, di cui nei giorni scorsi si è celebrata la memoria: “Spesso i pastori malaccorti – scrive nella “Regola Pastorale” – per paura di perdere il favore degli uomini, non osano dire liberamente ciò ch’è giusto e, al dire di Cristo che è la verità, non attendono più alla custodia del gregge con amore di pastori, ma come mercenari”.

Di nuovo, chi ha orecchie per intendere, intenda. E d’ora in avanti, mi raccomando, ricordiamoci di sanificare le feste.