Senza Dio, senza risurrezione, sprofondiamo nel nulla

Cristo_risortoin «Avvenire», editoriale del 9 novembre 2011

La catechesi di Benedetto XVI sulla vita eterna

di Giacomo Samek Lodovici

All’Angelus di domenica il Papa ha prolungato la riflessione sulla vita eterna iniziata ad Ognissanti e con la Commemorazione dei defunti. Ha detto che sulla vita eterna è netta la differenza tra chi crede e chi non crede, perché il credente ha ragione di sperare nella sopravvivenza post mortem di sé e dei suoi cari, mentre chi non crede non può sperarla: «La fede nella morte e risurrezione di Gesù Cristo segna, anche in questo campo, uno spartiacque decisivo».

Infatti, per molti degli antichi la morte era la fine di tutto (lo hanno pensato per molto tempo anche gli ebrei) e coloro che invece credevano in una religione pubblica che professava delle credenze sull’aldilà temevano (salvo poche eccezioni) la volontà divina nei confronti dell’uomo e/o avevano dei miti che la filosofia nel corso dei secoli aveva radicalmente criticato e che si erano rivelati incapaci di gettare luce sul mistero della morte (per questo si svilupparono in alternativa i culti misterici), tanto che un’antica iscrizione diceva: «Nel nulla dal nulla quanto presto ricadiamo».

Del resto, anche per i tragediografi la situazione non era dissimile e Sofocle faceva dire a Edipo: «la condizione migliore per l’uomo è non nascere e, una volta nato, ritornare presto lì da dove è venuto». Similmente, una sentenza sull’uomo attribuita al dio Sileno recitava: «Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena […]. Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la seconda cosa migliore per te è: morire presto». Insomma, molti secoli prima di Leopardi c’era già chi pensava che «è funesto a chi nasce il dì natale».

Tra i filosofi greci, solamente Socrate (forse) e Platone avevano concepito la possibilità di un’esistenza ultraterrena, e soltanto con ragionamenti consapevolmente ritenuti solo timidi tentativi di immaginare l’altra vita. Al loro posto Platone desiderava una Rivelazione divina, dicendo che circa i destini umani escatologici bisognava «accettare tra i ragionamenti umani, quello migliore […] e su quello, come su una zattera, affrontare il rischio del mare della vita […]. A meno di fare il viaggio in modo più sicuro e con minor rischio su una più solida nave, cioè affidandosi ad una divina rivelazione».

Ebbene, la solida nave a cui anelava Platone è quella di cui parla S. Agostino circa sei secoli dopo, è quella costruita col lignum crucis: «nessuno […] può attraversare il mare di questa vita, se non è portato dalla croce di Cristo». Il Vangelo fu davvero la buona notizia che era attesa da secoli.

Ora, ha detto Benedetto XVI, l’indebolimento del cristianesimo riconfigura oggi una situazione simile a quella precristiana: «Se togliamo Dio, se togliamo Cristo, il mondo ripiomba nel vuoto e nel buio. E questo trova riscontro anche nelle espressioni del nichilismo contemporaneo, un nichilismo spesso inconsapevole che contagia purtroppo tanti giovani».

In effetti, per il nichilismo contemporaneo vale l’affermazione di un suo esponente, secondo cui gli esseri umani sono «miliardi di sonnambuli che vanno verso il caos». Oppure, a differenza del nichilismo ottocentesco tragico, quello odierno è spesso inconsapevole, gaio, pacificato, cerca tutte le gratificazioni effimere e momentanee disinteressandosi di Dio.

Balla insomma sul Titanic senza rendersi conto che, se Dio non esiste, con la morte l’uomo è destinato ad affondare nel nulla. Invece che vivere sul Titanic, non sarebbe meglio verificare se sia vera quella solida nave a cui anelava il greco Platone?