“A gloria di Dio" di Rodnei Stark

Stark_coverper Rassegna Stampa 26 settembre 2011

Come il cristianesimo ha prodotto le eresie, la scienza, la caccia alle streghe e la fine della schiavitù”.

Aldo Ciappi

Unione Giuristi Cattolici Italiani – Unione locale di Pisa

Rodney Stark, autorevole sociologo delle religioni, docente di Scienze Sociali alla Baylor Universtity (Texas-USA), ha definitivamente travolto, con i suoi lavori scientifici, una serie di luoghi comuni sul ruolo della religione in generale, e del cristianesimo in particolare, nel processo di formazione delle civiltà, ancora radicati nella coscienza comune nonostante vi siano altri studi, ormai neppur tanto recenti, che avevano ampiamente fatto luce sulla questione.

I titoli di alcune sue note opere tradotte in italiano sono eloquenti: “La vittoria della ragione” (che descrive la stretta connessione tra l’affermarsi graduale del cristianesimo in Europa e lo sviluppo tecnico-scientifico ed economico di questa, rispetto ad altre aree geografiche e culturali); “Gli eserciti di Dio” (contro l’interpretazione delle crociate come movimento mosso da mire espansionistiche o di dominio politico-economico dell’occidente); “L’ascesa e l’affermazione del cristianesimo” (che valorizza il ruolo della nuova religione, da un lato, nel recupero della grande eredità classica e, dall’altro, nel lento processo di rinascita che ha portato alla creazione di un’ identità culturale e politica di popoli diversi sotto l’egida del Sacro Romano impero).

Di recente la casa editrice Lindau ha tradotto anche un corposo ma scorrevole volume nel quale l’autore si è cimentato, offrendo sempre risposte convincenti, con una serie di temi su cui resistono pregiudizi di tipo ideologico e vulgate difficili da estirpare.

Il primo capitolo (“La verità di Dio,: sette e riforme inevitabili“) tratta, di quei fenomeni presenti e inevitabili in ogni monoteismo, che egli mette in stretta relazione con l’ atteggiamento di “rilassamento” della tensione religiosa, associato, in genere, al consolidarsi di una condizione di “monopolio”, da far risalire, nel caso del cristianesimo, all’ editto di Costantino; evento nel quale l’ autore vede non già, come ritenuto dai più, una spinta dinamica all’affermazione del Cristianesimo, bensì la sua burocratizzazione e quindi una nociva commistione, nei suoi uomini di vertice, tra religione e affari mondani (pagg. 49 e ss.).

La capacità, nonostante queste oggettive difficoltà, di incanalare gli “impulsi settari” all’interno della propria sfera istituzionale “piegandoli” al proprio servizio, per esempio nell’ambito del vivacissimo movimento monastico, rappresenta un “impressionante successo della Chiesa romana cattolica” (pag. 58), reso possibile da grandi figure di papi riformatori (basti citare Gregorio Magno, prima, e Gregorio VII, più tardi) o di santi i quali contrastarono efficacemente il diffuso fenomeno della simonia delle cariche ecclesiastiche e le derive morali del clero secolare, preparando il terreno per la fioritura di grandi ordini religiosi e rispondendo, così, pienamente alla domanda costante di una religiosità forte ed esigente che consentì al cristianesimo di contrastare e contenere, per parecchi secoli, il diffondersi delle eresie.

Fu nel contesto storico-culturale dei preparativi alle crociate (secc. XI e XII), ovvero alla armata all’ondata di brutali aggressioni di cristiani in Terra Santa da parte di popolazioni di religione islamica (turchi selgiuchidi) ivi insediatesi, che crebbe di molto un clima di avversità nell’ occidente cristiano verso le eresie, così come verso ebrei, fino a quel momento tollerate.

In particolare (pagg. 75 e ss.), contro i Catari, setta che predicava una visione religiosa  di tipo gnostico e dualistica, in netto contrasto con quella cristiana sul mondo e sull’uomo, secondo cui egli è stato creato buono da Dio e, ferito nella volontà dal peccato, è stato riscattato dal Figlio di Dio incarnato. Dopo molteplici quanto inutili tentativi fatti dai “predicatori”, ordine religioso istituito da S. Domenico di Guzman, di riportarne in seno alla Chiesa i seguaci – il cui stile di vita (fatto di duri digiuni, astinenza dai rapporti sessuali, disprezzo del corpo ritenuto solamente una fonte di corruzione…) spesso degenerava in condotte anche giuridicamente illecite (quali suicidi, aborti, ecc.) – fu organizzata una dura risposta armata, militarmente sostenuta dal potere secolare, nel sud della Francia dove la setta si era molto diffusa (tra i sec. XI°-XII°) in tutti gli strati sociali.

Anche i Valdesi, altra setta di impronta “pauperistica” diffusasi nello stesso periodo storico nella Francia sud-orientale e tra le popolazioni germaniche, subirono dure repressioni anche se meno cruente rispetto ai Catari; dichiarati eretici da Papa Lucio III nel 1184 perché ribellatisi all’autorità di Roma, trovarono rifugio nelle valli al confine italo-francese.

Sempre meno, però, la Chiesa Cattolica, che si trovava ormai in una consolidata posizione di monopolio (e quindi di tendenziale “rilassamento” etico in molti suoi esponenti), riusciva a convogliare all’interno quella diffusa tensione verso una religiosità forte. Luoghi privilegiati di incubazione di idee nuove (quindi eventualmente anche “eretiche”) furono in particolare le Università – tipica “invenzione cristiana”, in piena assonanza con la concezione di un Dio quale essere razionale (“Logos”), apparsa fin dal XII sec. nei più importanti centri europei come Bologna, Chartres, Parigi, Oxford, Cambridge, Colonia – in cui illustri docenti, spesso ecclesiastici (es. Wycliff, Hus), divulgavano le loro idee tra i numerosi studenti preparando il terreno per quei movimenti che portarono più tardi – quando gran parte del clero secolare e degli ordini religiosi, nella Roma dei Papi “umanisti”, “a fronte di una diffusa domanda di fede più intensa” (pag. 92), viveva nelle comodità e nel lusso cortigiano – alla rottura dell’unità medievale e del razionalismo della Scolastica.

Solo dopo lo strappo teologico di Lutero (1517), nel mondo nord-germanico e scandinavo, di Calvino e Zwingli (1530) nelle regioni franco-elvetiche – aree in cui, anche in ragione del fatto che il cristianesimo non vi aveva messo radici profonde, vi fu una rapida diffusione delle chiese riformate protestanti, agevolata, anche dalla rivoluzione della stampa e dal fatto che molti governanti ne sposarono solerti la causa per incamerare ingenti beni ecclesiastici (come direttamente fece, nel 1534, in Inghilterra lo stesso Enrico VIII creando una sua chiesa nazionale) – finalmente la “Chiesa della pietà” (contrapposta alla “Chiesa del potere”) pose mano ad una profonda quanto necessaria riforma al proprio interno con il Concilio di Trento, in particolare attraverso l’istituzione di una rete capillare di “seminari per preparare gli uomini al sacerdozio locale”, fino ad allora non di rado addirittura “analfabeti” (pag. 157), che darà nuovo slancio all’ “evangelizzazione e all’educazione” anche nel “mondo nuovo”, da parte del cattolicesimo, ed arresterà l’espansione del protestantesimo.

Nel secondo capitolo (“L’opera di Dio, Le origini religiose della scienza“) l’autore, procedendo nella dimostrazione della falsità di altri diffusi luoghi comuni (come la leggenda nera dei “secoli bui” dell’alto medioevo, teatro invece, tra l’altro, di importantissime innovazioni tecniche in campo militare, agricolo, navale…, su cui molto egli ha scritto altrove), sostiene che “non esiste nessun conflitto intrinseco tra religione e scienza e che anzi che la teologia cristiana fu essenziale per la nascita della scienza” (pag. 166), nel suo significato di “metodo che viene utilizzato in tentativi di formulare spiegazioni della natura sempre soggetti a modifiche o correzioni attraverso osservazioni sistematiche” ”(pag. 168), avendo essa mosso i primi vagiti nell’alveo della filosofia scolastica, che incentrava la sua speculazione sull’ osservazione del reale e della natura, celebrata in quella “cristianissima invenzione” che fu l’Università, “amata e viziata figlia del Papato e dell’Impero” (pag. 188), e vero ponte tra il mondo classico e la modernità, i cui Rettori, spesso famosi uomini di Chiesa, favorirono, nelle più illustri sedi sparse per l’Europa, lo studio e la ricerca scientifica; ad esempio, sullo “sviluppo del modello eliocentrico del sistema solare”, da Ockham a Copernico (pag. 187), o della medicina anatomica, con la tecnica della dissezione dei cadaveri, preclusa nel mondo classico e islamico… (cfr. pag. 191).

Se tutto ciò è avvenuto in quest’ area geografico-culturale non lo si deve, dunque, al caso bensì all’originalità del concetto cristiano, ivi affermatosi, di un Dio come “essere razionale, interessato, affidabile, onnipotente” e di un “universo come sua creazione personale, con una struttura razionale regolata da leggi e stabile che attendeva di essere compresa dagli esseri umani” (pag. 194). “Scopo della scienza è “rendere onore a Dio”, diceva S. Bonaventura (pag. 197), ma già nel I° sec. Clemente I° insegnava che “la Bibbia non sempre si doveva intendere letteralmente…”, così come S. Agostino ammetteva la possibilità di cogliere in essa un significato scritturale nuovo rispetto ad una precedente lettura e, da qui, la “necessità di indagare…” (pag. 231).

Viceversa, nelle altre culture e civiltà, ad esempio cinese, greco-classica o islamica, la concezione della divinità era caratterizzata da una irrazionalità di fondo, ed è proprio per questo, sostiene Stark, che esse non hanno prodotto alcuna “scienza”, almeno secondo la accezione sopra indicata e universalmente accettata.

Né ha inciso, sul suo progressivo sviluppo, la ripartizione, al suo interno, tra scienziati cattolici (tra cui, a pieno titolo, vi è Galileo, sulla cui figura l’autore si sofferma  per riportare alla verità storica la polemica con la Chiesa e con il Papa, peraltro suo grande amico, strumentalizzata ad arte da certi Illuministi fortemente antireligiosi, per piegarla all’ ideologia del “Progresso”), da un lato, e protestanti dall’altro, essendo tra loro equamente suddivisi, mentre era e resta del tutto minoritaria la componente degli “scettici”. Esemplare è il caso di Isaac Newton, uomo di scienza ma anche di fede (seppure a modo suo), che la vulgata “illuminista” ha cercato di far passare, distorcendone anche qui il vero profilo (attestato da scritti autografi rinvenuti), come un freddo razionalista (pag. 227).

In seguito, anche il filone positivista cavalcò la falsa pista dell’ insanabile conflitto tra scienza e fede, in particolare con Charles Darwin e la sua teoria dell’evoluzione (graduale) delle specie viventi, concepita come un “vero e proprio attacco alla religione da parte di militanti atei avvoltisi nel mantello della scienza”, ma la cui “aggressiva sicurezza esibita … è direttamente proporzionale ai difetti della teoria” (pag. 233) ancora ai nostri giorni, come comprovato da soggetti quali Richard Dawkins, sostenuto da una cieca fede nell’evoluzione nonostante, dopo oltre un secolo e mezzo di ricerche, l’inspiegata totale assenza di rinvenimenti fossili relativi a “forme transitorie” e “anelli di congiunzione” tra specie diverse, imprescindibili per convalidare la tesi.

Tutti i reperti fossili, infatti, attestano semmai veri e propri “balzi evolutivi” nella comparsa di nuove forme di vita, del tutto incompatibili con mutazioni casuali e graduali alla base della teoria darwiniana (pag.  238 e ss.), per cui molti tra i più importanti biologi ritengono che “l’origine della vita e delle specie viventi debba essere ancora spiegata” (pag. 245).

In realtà, la teoria dell’evoluzione di Darwin prese la forma di una vera e propria “crociata… lanciata da un gruppo di uomini guidati da T.H. Huxley… attivisti socialisti ed atei” (pag. 246).

Anche i più recenti dati statistici consentono all’autore di affermare che, ancora oggi, “i professori che si occupano di scienze più rigorose si rivelano molto più religiosi” di coloro “che si occupano di scienze sociali” (p. 259); ne è esempio lo stesso Albert Einstein per il quale “la scienza senza la religione è zoppa; la religione senza la scienza è cieca” (p. 262) e di concludere che “la scienza nacque una volta sola nella storia, nell’Europa medievale” e che “poteva nascere solamente in una cultura dominata nella fede in un Creatore dotato di consapevolezza, razionale ed onnipotente” (p. 262).

Il terzo capitolo dell’opera (“I nemici di Dio, una spiegazione della caccia alle streghe in Europa“) si occupa di un fenomeno (la “caccia alle streghe”), attorno al quale, anche qui, ruotano radicati pregiudizi e falsità che l’autore smaschera a cominciare dalle cifre tirate in ballo. Secondo ricerche sulle fonti (verbali dei processi) i morti per “stregoneria” – che non riguardava tanto la “magia” e la “stregoneria” in sé, in genere non perseguite, bensì la più complessa nozione di “satanismo”, ovvero l’ “adorazione di esseri soprannaturali malvagi”, su cui si incentravano i processi – nell’arco di 3 secoli (ossia, dal 1450 al 1750, epoca in cui si colloca storicamente il fenomeno, e in tutta l’ Europa) sarebbero circa 60.000, tra uomini e donne (il fenomeno non fu affatto “sessista” come qualcuno sostiene), e non “milioni” come da alcuni arbitrariamente affermato (pag. 271 e ss.); così come la percentuale di persone condannate per stregoneria (con pene variabili e graduate) si aggirerebbe sul  50-55% per cento (pag. 273).

Si può notare, inoltre, che le aree geografiche in cui il fenomeno si manifestò in maniera più evidente coincidono con quelle in cui si erano maggiormente diffuse in precedenza le eresie e in cui vi furono i più gravi episodi di antisemitismo (e cioè, nelle valli del Reno tra Francia e Germania); circostanze ritenute dall’autore non casuali bensì “collaterali dei conflitti tra grandi forze religiose” (pag. 280).

Certo è che, all’epoca, anche le menti più istruite e razionali “credevano fermamente al satanismo” ed altrettanto certo è che “gli episodi di maggiore intensità della caccia alle streghe… si sono verificati durante l’illuminismo” (pag. 295), mentre le prime significative obiezioni all’esistenza reale di una stregoneria di tipo “satanico” vennero addirittura da qualche inquisitore (per di più spagnolo) e non dal mondo degli scienziati, alcuni dei quali “come Isaac Newton, praticarono attivamente la magia e la stregoneria” (pag. 296).

La magia, infatti, sin dall’antichità, era sempre esistita e permase anche dopo l’affermazione del cristianesimo, nonostante gli sforzi della Chiesa per estirparla (in quanto “superstizione” dannosa per l’anima; cfr. S. Agostino) oppure, quando ciò era impossibile perché troppo diffusa e radicata nel popolo, per “incorporarla” rendendola in qualche maniera con esso compatibile (cfr. S. Gregorio Magno).

Tuttavia, chi la praticava veniva, di fatto, tollerato e finiva per essere oggetto di provvedimenti discriminatori raramente e solo nella misura in cui attorno ad essi si creavano clamori tali da turbare l’istituzione o l’ ordine pubblico. Secondo l’autore, infatti, se in un certo momento storico “la stregoneria divenne un fenomeno sociale” ciò fu ancora dovuto a quell’ atteggiamento di affidamento alla ragione che fu sempre una “caratteristica della fede cristiana”: nel tentativo di dare una “spiegazione logica al motivo per cui la magia non legata alla Chiesa (talvolta, ndr) funzionava” certi teologi giungevano alla conclusione “che le persone coinvolte dovessero per forza vendere le loro anime a Satana” (pagg. 299-300).

Fu però nei periodi di maggiore tensione religiosa (a cominciare dalla diffusione delle eresie catara e valdese, le quali credevano nell’ onnipotenza di Satana sul mondo creato, che comparvero le prime condanne al rogo per “condotta satanica” (pag. 312).

Il problema fu anche che, nonostante tutti gli sforzi profusi, la Chiesa ed il clero, “in un mondo essenzialmente privo di risorse mediche”, si rivelarono incapaci “di fronte al disperato bisogno e alle richieste della popolazione, di resistere all’uso della magia proibita” (pag. 314) e quando questa in qualche modo “funzionava”, gli intellettuali e i teologi delle Università, non potendo concepire che atti di stregoneria avessero in sé il potere di causare esiti malvagi senza la mediazione di demoni, elaborarono la categoria della “stregoneria satanica” (pag. 317), la quale preparò l’ humus per la futura “caccia alle streghe”.

Nel periodo dal 1300 circa fino al 1500 si ha notizia che gli imputati, per lo più seguaci dell’eresia catara o valdese, per fatti di “stregoneria”, non necessariamente legata al “satanismo”, “furono solamente 935” (pagg. 321-322), una buona percentuale dei quali furono poi assolti (41%).

All’inizio del 1500 vi fu una forte impennata dei processi e del numero delle vittime per stregoneria (tuttavia, contenuto in alcune migliaia in tutto), prevalentemente nella Germania sud-occidentale e nella Svizzera; fenomeno raggiunse il culmine tra gli anni ‘90 del 1500 e gli anni ‘40 del 1600, declinando poi rapidamente, fino a scomparire del tutto, dopo il 1750 (pag. 325).

La stragrande maggioranza dei processi prendeva il via a seguito di denuncie private per ipotetici danni imputati a soggetti ritenuti capaci di “stregonerie”. Il periodo storico in riferimento era attraversato da intensi conflitti religiosi, legati, oltre che all’aggressiva avanzata turco-islamica, soprattutto all’affermazione del protestantesimo nelle regioni del centro-nord europeo (ed in particolare nelle regioni renana ed elvetica) che infiammò le popolazioni locali con massacri e persecuzioni da parte dei contendenti.

Per l’autore, pertanto, la “riforma protestante è stata una delle principali cause della caccia alle streghe” (pag. 331) o, per lo meno, del suo dilagare, da un certo momento in poi, proprio in quelle regioni più interessate dalle guerre di religione, favorito anche dall’assenza, in loco, di risposte delle autorità politiche o ecclesiastiche in grado di impedirle o arginarle, in un diffuso contesto di strisciante ossessione (pag. 334).

Quindi, la concomitanza di tre fattori – riaffermazione di pratiche magiche collegate a presenze “malefiche” (attestate da processi in cui si praticava la tortura), situazione di gravi conflitti religiosi tra gruppi e relativa assenza di potere statale –  spiegava l’esplosione della “caccia alle streghe” che, in termini numerici, riguardò in prevalenza solo alcune aree geografiche, restando assai più contenuto in altre, sia perché non coinvolte da tali conflitti (Italia, Spagna), sia perché politicamente questi ultimi furono tenuti sotto controllo (Francia). Non a caso, l’ossessione delle streghe svanì, e con essa i processi, con la fine delle guerre di religione e il nuovo assetto politico dopo la pace di Westfalia nel 1648 (pag. 373).

E’ curioso rilevare che tra le poche, significative voci che si levarono pubblicamente e per tempo contro la “caccia alle streghe”, in quanto persecutoria verso persone ingiustamente accusate, vi furono quelle di alcuni inquisitori spagnoli, quali Francisco Vaca, Alonso de Salazar y Frias (il che spiega l’atteggiamento, almeno relativamente, benevolo dell’istituzione spagnola verso le “streghe”), o il gesuita Friedrik Von Spee, che visse a Colonia e fu testimone di un migliaio di roghi in quelle terre (pagg. 374-378)

Il mondo islamico non conobbe questo fenomeno in quanto non sviluppò mai la nozione di “satanismo”, così come non sviluppò la scienza, non essendo i suoi teologi interessati a cercare spiegazioni razionali del reale.

In conclusione, se da un lato “il ragionamento teologico” portò alla “nascita della scienza”, dall’altro lo stesso processo ebbe anche come risultato “alcuni dei periodi più bui della società occidentale”, poiché “a diffondere la cultura della stregoneria” furono “furono le migliori menti dell’epoca” (pag. 381).

Il quarto ed ultimo capitolo (“La giustizia di Dio: il peccato della schiavitù”) analizza il fenomeno della schiavitù, assai diffuso in epoche passate e tuttora in molte parti del mondo non cristianizzato, e quello della la sua graduale scomparsa nella nostra civiltà che l’autore mette in diretta relazione con l’opposizione morale contro di essa svolta dalla teologia cristiana e non già, come dai più ritenuto, da filosofi e moralisti antireligiosi o illuministi (pag. 385-386).

La schiavitù “è stata una caratteristica quasi universale della civiltà” e si esplicava o in funzione della “produttività umana” (es. nelle piantagioni del mondo nuovo), oppure come “forma di consumo” (tipica del mondo islamico; pag. 387-388).

Per esempio, sia la società greca che quella romana dipendevano “dall’impiego su larga scala del lavoro degli schiavi sia nelle campagne che nelle città (…) base primaria per la produzione oltre che grande forma di consumo” (392). Ma la schiavitù era comune anche nelle società aborigene, almeno in quelle che se lo potevano permettere, come per esempio tra i nativi americani dove gli schiavi costituivano in alcuni villaggi tra il 15 e il 25% della popolazione e venivano usati anche nei sacrifici rituali (p. 390).

Con la fine dell’impero romano vi fu una diminuzione notevole della schiavitù, poco conosciuta tra le popolazioni germaniche, e col tempo “quasi scomparve con l’emergere del sistema feudale” residuando “solamente ai margini dell’Europa medievale” (p. 396).

Infatti, benché vincolati da molti obblighi, “la vita dei servi medievali non aveva nulla in comune con la schiavitù” (M. Bloch); essi “avevano diritti e un notevole grado di libertà di scelta… Sposavano chi volevano e le loro famiglie non erano soggette a vendita o divisione” e anche il loro signore “era vincolato da obblighi a un’autorità superiore (…) e questa era la natura del feudalesimo” (397-398).

Viceversa, nel mondo islamico, il commercio di schiavi, misurabile in diversi milioni di uomini di qualsiasi colore della pelle, “iniziò molti secoli prima che gli europei scoprissero il nuovo mondo e ne furono vittime tanti africani quanti ne furono imbarcati per attraversare l’Atlantico”, e perdurò ancora “molto tempo dopo la fine del commercio occidentale” (p. 398).

Gli schiavi erano impiegati in campo militare – dove alcuni corpi erano composti esclusivamente da schiavi “bianchi di origine cristiani”, catturati “quando erano bambini” nelle regioni sotto il loro dominio o durante le razzie piratesche – oppure per servizi “domestici”, per i quali gli uomini spesso venivano castrati e le donne finivano come “concubine” del loro padrone. La fine della schiavitù in alcune nazioni islamiche è recentissima ed è frutto della “forte pressione occidentale” esercitata su di esse (p. 399-401).

Ma anche tra le tribù dell’africa nera la schiavitù era (ed è in certi casi tuttora) largamente praticata, anche se molti storici occidentali tendono a schivare l’argomento per non essere accusati di “minimizzare la colpa dei bianchi” (p. 402).

Nell’ occidente cristiano la schiavitù era stata da tempo condannata e bandita “sia come peccato sia come un’azione illegale” (p. 403) e in tutta l’Europa, alla fine XVI° secolo, “c’erano pochissimi veri schiavi” in alcune circoscritte aree denotate da alta conflittualità interreligiosa (Spagna).

Ma con la scoperta del “Mondo nuovo”, nonostante reiterate condanne pubbliche da parte della Chiesa, favorito anche dalle gravi epidemie contagiose che falcidiarono i popoli indigeni al contatto con gli europei, il sistema della schiavitù si riaffermò in quelle terre. Carenti di manodopera, i coloni americani ricorsero ampiamente al commercio umano sfruttando la tratta degli schiavi neri, particolarmente adatti e resistenti alla fatica, ammassati a milioni sulle coste africane e deportati per essere impiegati nei settori produttivi secondo condizioni sociali e giuridiche diverse a seconda delle regioni (pp. 404-405).

Nelle colonie francesi la condizione degli schiavi fu regolata dal Code Noir, redatto J.B. Colbert, del 1685, che poneva una serie di limitazioni al suo utilizzo e un trattamento coerente “sulla premessa che uno schiavo è una creatura di Dio” al quale dovevano essere riservati tutti i diritti collegati alla dimensione religiosa e dunque, almeno per certi versi, umana (p. 407-408).

Anche per le colonie spagnole il modo di trattare gli schiavi “fu fortemente influenzato dalle preoccupazioni dei cattolici” e risultò di una “benevolenza di gran lunga maggiore” con l’adozione del Codigo Negro Espanol (fine sec. XVIII°) che “garantiva agli schiavi il diritto di proprietà e di acquisto della libertà” (p. 409).

Al contrario, nelle colonie britanniche gli schiavi non venivano battezzati, né mai furono elaborati “codici di regolamentazione dei rapporti tra padroni e schiavi” (p. 411), fatta eccezione che per il Code of Barbados del 1661, applicato in seguito anche ad altre colonie, nel quale si definivano come “pagani, bruti e una tipologia di persone volubile e pericolosa” gli schiavi neri (p. 411); ai quali, tra l’altro, non era permesso di sposarsi o ottenere la libertà salvo che per “atto legislativo speciale” (p. 412): A riprova di ciò vi era il tasso di mortalità tra gli schiavi, molto più elevato nelle colonie inglesi rispetto a quelle spagnole o francesi (413) e, analogamente, ciò valeva anche per le colonie portoghesi, in particolare in Brasile.

Nel Nord-America gli schiavi importati furono relativamente pochi, anche perché non vi erano molte piantagioni di canna da zucchero che richiedevano tanta forza lavoro; tuttavia essi, beneficiando di un clima molto più mite, crebbero molto di numero, a differenza che in altre zone del sud dove diffusa era la malaria (p. 421).

Interessante, riguardo al trattamento degli schiavi, è il confronto tra la cattolica Louisiana franco-spagnola (dove furono applicati il Code Noir e il Codigo Nigro) e il resto del sud protestante: il censimento degli U.S.A. del 1830 rilevò che “in Louisiana c’era una percentuale molto più alta di neri liberi (13,2%) rispetto a qualsiasi altro stato schiavista”; per es. Alabama (1,3%), Mississippi (0,8%) e Georgia (1,1%). Non si può negare che ciò fosse legato agli effetti dei codici e dell’attitudine cattolica nei confronti della schiavitù.

Contrariamente a quanto molti ritengono, non tutte le religioni svolgono la funzione di sostenere l’ordinamento morale, ciò dipendendo principalmente dall’immagine che esse hanno della divinità (p. 426). Tra i nativi delle coste americane gli dei non si occupavano di morale e la magia dominava tra i riti religiosi, così come le divinità dei greci e dei romani poco si occupavano degli esseri umani; erano figure poetiche, affascinanti ma tutt’altro che edificanti.

Viceversa gli Dei del monoteismo in cambio di “ricompense ultraterrene che promettono” e “per evitare terribili punizioni che minacciano” chiedono ed ottengono dagli uomini una serie di cose tra cui “l’ubbidienza ai dettagliati codici di comportamento non solo nei confronti del sacro ma anche gli uni verso gli altri” basati sul concetto di “peccato” che comporta una “punizione divina” (p. 427).

Dunque, le religioni politeiste “non sottoscrivono l’ordine morale” e la critica sociale è lasciata “a filosofi, artisti e intellettuali” i quali, in tutta la storia antica, compreso Platone, Aristotele ecc., “non risulta che abbiano mai protestato contro la schiavitù” (428).

Se è vero che nel mondo ebraico erano ammessi gli schiavi (purché non ebrei), è anche vero che, nella Torah, vi erano “limitazioni severe in merito al modo di trattarli” che prevedevano anche “la pena di morte” per chi uccidesse uno schiavo” (pag. 430). La Chiesa Cattolica, invece, sin dagli inizi, rifiutò la riduzione in schiavitù di un essere umano, in quanto creatura dotata di un’anima, ritenendola, quindi, “contraria alla legge naturale” perché “un uomo non è per natura assegnato ad un altro come suo fine” (S. Tommaso, S.Th. q. 92, a.1-2)(pag. 433) e reagì minacciando la scomunica quando popoli cristiani si resero colpevoli di questo peccato (es. nei confronti degli abitanti delle Canarie nella prima metà del 15° secolo, con Papa Eugenio IV°, Pio II° e Sisto IV°, e in seguito, nelle colonie del “Mondo Nuovo”, con le famose “Bolle” di Paolo III°), incontrando, però, le forti resistenze dei coloni e dei governanti spagnoli e portoghesi che si ribellarono apertamente ai suddetti proclami della Chiesa ed ai suoi predicatori delle missioni (gesuiti e francescani), fino talvolta ad espellerli dai territori.

Significativa, in proposito, fu la vicenda, ancora oggi ben poco conosciuta e studiata, della repubblica delle “Reducciones” degli indios Guaranì, nel vasto territorio dell’odierno Paraguay, fondate, istituite e protette per più di 150 anni, dai missionari gesuiti spagnoli che riuscirono, con la loro opera pacificatrice, a far fiorire una vera e propria civiltà cristiana indigena che fu cancellata con brutale violenza dopo la metà del 18° dalle truppe spagnole e portoghesi che si spartirono tra loro i  relativi territori (439-441).

Il che, tuttavia, non impedì alle società schiavistiche del Brasile e dell’America spagnola di recepire tangibilmente al loro interno, grazie ai citati codici, gli effetti moderatori di tali proclami (p. 437-438).

Di contro, ciò non si può dire della Chiesa d’Inghilterra, che non riconosceva gli schiavi come “esseri umani battezzabili” (p. 442), né, tanto meno, dell’ islam, che, in merito alla moralità della schiavitù, si trovava di fronte al fatto imbarazzante che lo stesso Maometto “acquistò, vendette, catturò e possedette schiavi“, per quanto egli ne “liberò diversi…, ne adottò uno e sposò una schiava“, ed altresì avesse ordinato ai suoi  “che fossero trattati bene” (p. 443).

Insomma, “un’opposizione organizzata alla schiavitù sorse solo dove e quando: (1) la necessaria predisposizione morale fu (2) stimolata dalla rilevanza del fenomeno e (3) non fu repressa da un percepito interesse personale” (p. 444).

L’autore fa l’esempio degli U.S.A. dove vi fu un lento processo di maturazione attraverso l’opera di intellettuali e attivisti come John Woolman (1720-1772) giovane molto devoto il quale, “avendo visto con i propri occhi la miseria della condizione degli schiavi” (p. 446) scrisse un pamphlet  che trovò accoglienza nelle potenti comunità quacchere, le quali, avendo nel frattempo fortemente ridotto il possesso di schiavi, lo recepirono e lo diffusero capillarmente finché, nel corso delle Assemblee annuali nei primi anni 70 del 1700, nel New England, New York e Pennsylvania “vietarono ai propri membri di possedere schiavi pena l’estromissione“, dando vita così a quel “movimento abolizionista americano” (p. 447) che, nel 1771, portò l’Assemblea legislativa del Massachusetts, a maggioranza puritana, a dichiarare “illegale l’importazione di schiavi” (p. 449).

L’ American Anti-Slavery Society crebbe rapidamente ma furono soprattutto le chiese e non le associazioni e le organizzazioni laiche a rilasciare dichiarazioni formali a favore della fine della schiavitù. Anche la Chiesa cattolica fece sentire forte la propria voce con Pio VII al Congresso di Vienna (1815) e inviando una lettera apostolica ai vescovi americani di condanna della schiavitù (p. 451) che però venne strumentalizzata a fini politici o osteggiata fortemente  a causa del profondo sentimento anticattolico all’epoca presente negli States.

In ogni caso, “gli abolizionisti parlavano quasi esclusivamente il linguaggio della fede cristiana” (p. 452) e “l’argomentazione contro la schiavitù è teologica e non relativa ad una rivelazione“, di modo che “solamente quei pensatori religiosi che operavano all’interno della tradizione cristiana furono in grado di giungere a conclusioni di natura antischiavistica” (p. 453).

Secondo l’autore, la stessa guerra civile “fu primariamente una guerra combattuta contro o a difesa della schiavitù e non per gli interessi economici del nord industriale o del sud agricolo“; una guerra “fra concezioni morali diverse” (pp. 454-455).

L’abolizionismo negli U.S.A., dunque, si diffuse “attraverso le chiese cristiane del Nord alimentato dall’indignazione morale…” contro la schiavitù nei vicini stati meridionali, e anche “dalle testimonianze di ex schiavi fuggitivi“, in un contesto in cui “erano molto poche le persone che traevano profitto diretto dagli schiavi” (p. 455).

Analogo discorso dicasi per le colonie della Gran Bretagna (dove la schiavitù fu abolita nel 1834) al cui proposito gli storici “sono giunti ad accettare l’idea che (nell’emancipazione) vi fosse implicita anche una notevole componente di idealismo“; ma “coloro che divulgarono i principi abolizionisti in tutta la Gran Bretagna non citavano principi liberali ma la Bibbia” (per lo più metodisti e battisti) (p. 564).

Per quanto riguarda la Francia, nonostante i principi liberali cui si ispirava la sua Rivoluzione, la schiavitù, ristabilita, dopo qualche anno dalla sua sospensione, da Napoleone in tutte le colonie francesi, fu abolita definitivamente soltanto nel 1848  e la relativa battaglia politica fu portata avanti dalla Societè de la Morale Chretienne fondata nel 1821, che annoverava tra i suoi soci il futuro re Luigi Filippo (p. 465) e la Societè Francaise pour l’Abolition de l’Esclavage, di cui faceva parte anche Alexis de Toqueville (p. 466), sostenute dalla Chiesa Cattolica.

Discorso un po’ diverso per Spagna e America Latina, dove il movimento per l’abolizione della schiavitù ebbe un ruolo secondario essendo l’intera area già interessata dai movimenti di liberazione dalla madrepatria, in grave crisi economica, i quali “furono in grado di guadagnarsi il sostegno degli schiavi alla loro causa“. Raggiunta l’indipendenza politica “le nazioni latino-americane optarono per l’emancipazione” (469). In Brasile ciò avvenne soltanto nel 1888, come risultato di forti pressioni internazionali e grazie anche alla rapida crescita degli immigrati; ma a quella data il numero degli schiavi era solo il 5%, il resto della popolazione nera era già stato affrancato (p. 470).

Dunque, l’abolizione della schiavitù non fu il prodotto dell’illuminismo (anzi, molti dei suoi principali esponenti, come Voltaire, Montesquieu, Mirabeau, Burke, Hume… “l’ accettarono pienamente”), ma anche coloro tra essi che erano contrari “non raggiunsero minimamente l’ intensità e la passione dell’impegno abolizionista che si diffuse attraverso i circoli religiosi dell’epoca” (p. 472-473).

Neppure la risposta marxista, secondo cui “l’emancipazione fu conseguita per sostituire l’istituzione economica precapitalista inutile e datata della schiavitù” e non in base a motivazioni religiose (p. 475), regge alla critica in quanto “i costi della soppressione della schiavitù furono immensi e il prezzo dello zuccherò aumentò drasticamente“, andando contro, quindi, gli interessi economici dei proprietari (p. 475).

Uno dei suoi autorevoli esponenti (Davd B. Davis) afferma che il movimento abolizionista avrebbe contribuito “a preparare la strada ideologica agli industriali britannici” e finì col riflettere, seppure “inconsciamente“, “le necessità e i valori dell’emergente ordine capitalista” (p. 477), pretendendo così di sostenere, al di là delle apparenze, “che la realtà sia come vuole farci credere la teoria marxista“; proprio un bell’ esempio, questo, di quella “falsa coscienza” marxista (p. 479)

In realtà, conclude l’autore, citando R. W. Fogel, “la fine della schiavitù fu l’esecuzione politica di un sistema immorale all’apice del suo successo economico voluta da persone ardenti di fervore morale”  (p. 479).

Infine, nel suo post-scriptum, diretto agli studiosi delle scienze sociali, Stark mette in evidenza il grave errore di taluni, da Durkheim in giù, nel ritenere, alla fine, che “gli Dei non fossero essenziali” e che “la religione consiste solamente nella partecipazione a riti e rituali” aventi, al di là delle apparenze, “lo scopo di rafforzare i vincoli tra individuo e società“, prestando in tal modo attenzione “a ciò che le persone facevano in nome della religione piuttosto che alla religione in sé” (pp.484-485) e rinunciando così, per esempio, ad offrire una spiegazione razionale al “sacrificio“, ovvero alla spontanea rinuncia del fedele ai propri interessi personali (p. 486).

In realtà, “le fedi prive di Dei sono vissute solo da piccole elite intellettuali e le forme popolari di buddhismo, confucianesimo e taoismo abbondano di divinità” (p. 487) e, al loro interno, “il monoteismo differiva dal politeismo“, così come entrambi “differivano enormemente dalle religioni prive di divinità dei filosofi orientale e dei liberali occidentali“.

Il soprannaturale, e non il rituale, “è l’aspetto essenziale della religione” (p. 487)  e non è vera in assoluto, secondo Stark, l’affermazione corrente secondo cui la “funzione della religione è quella di sostenere l’ordine morale” (p. 489); “solo alcuni tipi di religione hanno delle implicazioni morali“, come evidenziavano gli stessi E. Tylor ed E. Spencer, padri rispettivamente dell’antropologia e della sociologia britannica, e come “chiunque abbia un po’ di familiarità con la mitologia greca e romana” può evincere facilmente (p. 490).

L’ipotesi di una funzione morale della religione  – conclude Stark –  presuppone la particolare concezione di essere soprannaturali profondamente preoccupati per il comportamento tenuto dagli essere umani gli uni nei confronti degli altri (…). Ne consegue, quindi, che il comportamento morale degli individui sarebbe influenzato dalla fede religiosa solamente in quelle società in cui le organizzazioni religiose dominanti forniscono una chiara e coerente espressione agli imperativi morali divini” (p. 492).

Da ciò discende: in primo luogo, che “gli effetti della religiosità sulla morale individuale dipendono da immagini di Dei come essere dotati essi stessi di consapevolezza e moralmente interessati“; in secondo luogo, che “la partecipazione a riti e rituali religiosi ha poco o nessun effetto indipendente sulla moralità dei praticanti” (p. 493), come dimostrano gli studi effettuati dallo stesso autore (v. “God, Rituals e Moral Order”, in Journal for the Scientific Study of Religion, 2001, n. 40, pp. 619-636).

Dunque, se gli Dei sono l’aspetto fondamentale delle religioni, tuttavia soltanto “le immagini di Dei come essere consapevoli, potenti e moralmente interessati  hanno la funzione di sostenere l’ordine morale” (p. 494), come si ha per le religioni monoteiste organizzate. Allo stesso modo, “non è stata la sapienza orientale a dare vita alla scienza, né la meditazione zen ha mosso i cuori delle persone contro la schiavitù” (…). La scienza fu l’impresa di devoti credenti in un Dio attivo, consapevole e Creatore. E fu la fede nella bontà dello stesso Dio e nella missione di Gesù Cristo a spingere altri devoti cristiani a porre fine alla schiavitù, prima nell’Europa medievale e poi nel Nuovo Mondo. In questo senso, almeno, la civiltà occidentale fu davvero un dono di Dio” (p. 495).